Tuesday, August 24, 2010

Political correctness

Friday, August 20, 2010

サン・ロレンソ教会:400年ミサ 「友好深める契機に」日韓信徒ら参列 /長崎  ◇禁教令中に日朝で建立  

サン・ロレンソ教会:400年ミサ 「友好深める契機に」日韓信徒ら参列 /長崎
 ◇禁教令中に日朝で建立

 豊臣秀吉の朝鮮出兵に伴い長崎に連行された朝鮮人が1610年に長崎に建てたと伝わる「サン・ロレンソ教会」の献堂400年記念ミサが10日、長崎市のカトリック中町教会で開かれ、日韓両国の信徒ら約100人が参列した。禁教令の中で朝鮮人と日本人が協力して建立したとされ、関係者は「日韓併合100年の今年、改めて両国の友好関係を深める契機に」と語った。

 カトリック長崎大司教区によると、当時日本に連行された朝鮮人が、キリスト教が盛んな長崎で信徒となり、当時「高麗町」と呼ばれた地に教会を建てた。その際、日本人からも浄財が寄せられたという。江戸幕府の弾圧で1620年に教会は破壊され、教会の正確な跡地は現在不明だが、文献などから現在の長崎市伊勢町周辺と推定されている。

 ミサは、サン・ロレンソ教会の歴史を調べている在日韓国人信徒の趙健治さん(66)=対馬市=がカトリック長崎大司教区に呼び掛けて実現。日韓両国の司祭が執り行い、高見三明カトリック長崎大司教(64)は、朝鮮出兵や日韓併合に触れ「日韓の歴史は友好と対立の繰り返しだった。一司教として心からおわびしたい。ミサを機に、許しと和解による平和な関係を築いていくべきだ」と呼び掛けた。【錦織祐一】

Sunday, August 15, 2010

Cultura e Religiosita' nel Giappone moderno

La riflessione su natura e identità
segna la differenza tra la cultura e la religiosità orientale e occidentale
Due mondi a confronto sulla parola «Io»

Pubblichiamo una sintesi della conferenza tenuta dall'Ambasciatore del Giappone presso la Santa Sede al Circolo di Roma in occasione dell'incontro intitolato "Culture and Religiosity in Modern Japan".

di Kagefumi Ueno

Almeno tre elementi distinguono, dal punto di vista filosofico, il cristianesimo dalla religiosità nipponica e tre le parole-chiave: "ego", "natura" e "assolutizzazione". È ben netta la distinzione tra il concetto di ego buddhista-shintoista e quello monoteista occidentale. Anche il modo di concepire la natura in oriente è sostanzialmente diverso da quello occidentale: per i giapponesi la natura è divina e da riverire, sentimento non condiviso dagli occidentali. In terzo luogo, la mentalità religiosa dei giapponesi li porta a essere molto meno propensi degli occidentali a credere in valori assoluti.
Due parole sull'ego. In quale modo il concetto religioso tradizionale nipponico dell'ego si differenzia dal punto di vista occidentale? Semplificando, i buddhisti-shintoisti credono che, per raggiungere la vera libertà spirituale, ci si debba liberare da tutti i karma o desideri dell'ego e da connessi interessi, dalla speranza e, in ultima istanza, dall'ego. L'espressione liberare/buttar via implica l'idea di rinuncia, di azzeramento. Parafrasiamo. La vera libertà o Realtà assoluta si raggiungono solo abbandonando l'ego, annullando la propria identità. L'uno e l'altra dovrebbero integrarsi con Madre natura.
Diversamente, le religioni monoteistiche sembrano basarsi sull'assunto che gli esseri umani siano divinità in "miniatura", creati a somiglianza dell'immagine divina. Il fine di avvicinarsi il più possibile alla divinità li porta a raffinare, a consolidare, a elevare fino alla perfezione l'ego. L'idea di disfarsi dell'ego neppure li sfiora.
In breve i monoteisti, tendendo a ingigantire se non a rendere perfetto l'ego, sono massimalisti. Non occorre una particolare immaginazione per capire che l'ego così inteso è ritenuto inviolabile, sacro. Al contrario, i buddhisti-shintoisti, per raggiungere la Realtà Ultima puntano a minimizzare, ad azzerare l'ego. Sono minimalisti. Persino il concetto della propria dignità o onore va allontanato. Lungi dal considerarsi mini-divinità, non cercano la perfezione per meglio avvicinarsi alla divinità. Questo sarebbe infatti un desiderio, sorta di karma da rigettare. In termini di immagine, mi figuro l'ego occidentale come una palla grande, solida, aurea, da tenere sempre lucida. L'ego buddhista, invece, lo immagino simile all'aria o al gas, privo di forme, sostanza elastica e difficile - impossibile - da lucidare.
Secondo la religiosità nipponica, l'essere umano non deve limitarsi solo a rinunciare al karma, ai desideri e all'ego. Dovrebbe raggiungere il distacco dal pensiero logico. In fondo, per l'homo japonicus, la religiosità è quel regno da cui sono banditi anche il lògos, il pensiero logico, l'approccio deduttivo. In particolare per i seguaci del Buddhismo Zen tradizionale, persino valori opposti come Bene e Male vanno trascesi. Allo stadio spirituale più profondo della religiosità buddhista non ci sono più santità, verità, giustizia, male, bellezza. Persino la speranza, non più stampella a cui aggrapparsi, è da evitare. La libertà ultima si raggiunge grazie alla passività assoluta. I buddhisti credono che il distacco dai desideri sia necessario per guardare l'eternità. Nell'universo, non vi è nulla di eterno o di assoluto. Ogni essere è transitorio, in altri termini relativo. La Realtà ultima risiede nel "vuoto/nulla", o nell'ambiguità.
Per introdurvi allo spirito della filosofia orientale che insegna il distacco dal lògos, vorrei segnalarvi alcune espressioni proprie del Buddismo Zen: "Molti è uno. Uno è molti"; "Essere è non essere"; "Essere è Mu (nulla). Mu è essere"; "La Realtà è Mu. Mu è la realtà"; "Ogni cosa viene dal Mu e viene assorbita nel Mu. Una volta distaccati dalla "visione della ragione", si trascendono valori opposti come il bene e il male. La libertà ultima si ottiene grazie alla passività assoluta. Alla fine, lo spirito sarà come un albero o una pietra.
Passiamo al secondo elemento: la natura. Per gli occidentali, il divino è nel creatore, non nella natura da lui creata. Per i buddhisti-shintoisti, invece, la divinità risiede nella natura stessa, autogenerata. Assente il concetto di un creatore esterno all'universo, fuori dal nulla. La divinità permea Madre natura e tutto quel che abbraccia, esseri umani, flora, rocce, fontane: ogni cosa. Per i buddhisti-shintoisti, non esiste realtà ultima fuori della natura. In altri termini, la divinità è intrinseca alla Natura stessa.
Per l'homo japonicus, esseri umani e Natura sono intimamente uniti, inseparabili e non indipendenti. In quest'ottica, vorrei fare un commento usando un'espressione alla moda quale simbiosi o convivenza con la natura. Parole care agli ecologisti. A dire il vero questo termine veicola un concetto che, ai miei occhi, si tinge di arroganza, di antropocentrismo oserei dire, in quanto gli esseri umani si considerano alla pari con la natura. Secondo la religiosità nipponica tradizionale, gli esseri umani sono sottomessi alla natura. Lei dovrebbe essere la vera protagonista. A loro spetterebbe un ruolo umile, che non può aspirare a uno status di uguaglianza con la natura. L'uomo dovrebbe ascoltare con attenzione le voci della natura, accettandone con umiltà il dominio.
Vista su questo sfondo, in termini di amore e di rispetto verso la Natura o gli animali, la cultura giapponese appare particolarmente profonda e ricca. Per tradizione a tutt'oggi il popolo giapponese tratta con rispetto e con spirito religioso la Natura e gli animali. Significativamente Higashiyama Kaii, noto paesaggista, ha detto una volta in una intervista televisiva di aver acquisito con la maturità la consapevolezza che la natura talvolta gli parli. Ne avverte la voce, ne percepisce il sentimento. In quell'occasione l'artista arrivò ad aggiungere che il suo lavoro di pittore della natura non è opera sua, ma della Natura stessa. In modo simile Munakata Shiko, famoso incisore su legno, dichiarò alla tv che quando con spirito calmo si dedicava al suo lavoro, si sentiva ispirato proprio dallo spirito del legno che andava incidendo. Così - aggiunse - il lavoro effettivo non era lui a compierlo, ma lo spirito del legno!
Enrique Gómez Carrillo, giornalista guatemalteco che da Parigi scriveva articoli per giornali latino-americani, nel 1912 scrisse El Japón heroico y galante, libro destinato a essere per i successivi cinquant'anni una delle più popolari "guide" sul Giappone per i latinoamericani. Osservava: "I giapponesi amano la natura e la amano con animo religiosissimo. Sin dalla tenera età viene insegnato ai bambini come amare piante e insetti. Un amore che non è mera intesa o affetto. Sanno percepire il cuore melanconico dei ramoscelli, l'agonia delle piante, le sofferte lacrime lasciate scorrere dai grandi alberi. Ragazzi e ragazze vivono in stretta sintonia con le piante". E ancora: "I temi poetici preferiti dai giapponesi attengono allo stato effimero dell'essere, allo scorrere delle stagioni, al mormorio dei ruscelli, al sussurrio di fiori e di alberi, alle rocce ammantate di muschio e così via, piuttosto che alla gloria delle grandi gesta dell'uomo". Le sue osservazioni mettono a fuoco con acutezza la cosmo-visione nipponica.
Siamo al terzo elemento: l'assolutizzazione dei valori. Alla luce della mentalità religiosa buddhista-shintoista appena abbozzata i giapponesi non amano aggrapparsi ad alcun valore assoluto. Non credono né in una giustizia assoluta né in un male assoluto. Per loro ogni essere è, in sostanza, relativo; ogni valore, intendo valore positivo, è possibile finché non collide con altri valori. In caso di collisione, nessun particolare valore andrebbe considerato assoluto a spese degli altri. Perché? Semplicemente perché il senso più profondo della loro filosofia religiosa vuole che niente di assoluto esista nell'universo. Esiste solo l'impermanente. Diamo ora uno sguardo alla religiosità nipponica attraverso lo spettro del pre-moderno, moderno e post-moderno per chiederci: la civiltà giapponese contemporanea è post-moderna?
Nel passato - o almeno fino a tutto il XIX secolo - in ogni angolo del mondo si credeva che la modernizzazione delle nazioni si potesse realizzare solo in società dalla religiosità monoteistica cristiana. La rilevante modernizzazione del Giappone smonta questo assunto. Molte nazioni non cristiane si sono modernizzate, sull'esempio nipponico. Di conseguenza il loro emergere confuta il presunto legame tra modernizzazione e monoteismo. Appare chiaro che l'approccio politeistico, animista o panteista non comporta un regresso, se paragonato all'approccio monoteistico.
In particolare in Giappone, modernità e forme di approccio scientifico, tecnologico-razionale non solo coesistono con la mentalità panteistica e animista, considerata pre-moderna, ma ne escono rinvigorite, rafforzate. Insisto: molti prodotti nipponici di alta tecnologia sono programmati, disegnati, prodotti e commercializzati da persone che hanno più o meno la mentalità e la religiosità appena illustrata. Anzi, il livello di tecnologia o di qualità del design viene accresciuto dall'unione delle due diverse componenti: mentalità scientifica e mentalità animista.
Ad esempio, molte ditte nipponiche, quando si installano nuovi macchinari nei loro stabilimenti, invitano sacerdoti shintoisti a officiare cerimonie rituali, per auspicare un corretto funzionamento dei macchinari. Allo stesso modo, si compiono riti di ringraziamento verso lo spirito dei macchinari, prima di demolirli. Anche in campo edilizio, i costruttori si affidano a rituali shintoisti per impetrare la sicurezza dei futuri lavori con una cerimonia all'aria aperta.
In definitiva, nel Giappone contemporaneo, la mentalità pre-moderna panteistico-animista e la moderna alta tecnologia sono strettamente connesse. Si potrebbe definire la civiltà contemporanea nipponica un ibrido di pre-modernità e di modernità. Quindi assolutamente post-moderna!
Ho provato a concentrarmi sulla dimensione filosofica mettendo in luce le differenze tra oriente e occidente. Ritengo tuttavia che, a livello pratico, le due religiosità abbiano un certo terreno comune. Provo ad accennarlo.
Circa ottant'anni fa, Gandhi, uno dei padri fondatori dell'India moderna, inseriva il "commercio senza moralità" tra i sette peccati sociali. Gli altri sei da lui evidenziati erano: la politica senza principi, la ricchezza senza lavoro, il divertimento senza coscienza, la conoscenza senza carattere, la scienza senza moralità e la religione senza sacrificio. Anche il Papa e la Santa Sede in numerosi messaggi hanno ripetutamente condannato l'assenza di considerazioni morali da parte di molti leader del mondo degli affari.
In Giappone voci simili si sono alzate ad esempio, tra economisti di orientamento buddhista. Nelle ultime decadi, infatti, alcuni economisti hanno cominciato a utilizzare la filosofia buddhista in analisi di tipo economico, fondando la nuova disciplina chiamata economia buddhista. Ho il piacere di tracciare le linee del pensiero-base foggiante questa "nuova" economia.
Gli economisti buddhisti criticano in generale il neo-liberalismo che ha dominato le politiche economiche delle più grandi potenze mondiali nelle ultime decadi, aggravando la disuguaglianza economica, l'ingiustizia, il predominio assoluto del profitto, il deterioramento dell'ambiente a livello globale. Sebbene vi siano punti di vista divergenti tra gli economisti dalla visione buddhista, credo che tutti condividano otto concetti chiave come comune denominatore. Tali concetti sono: rispetto della vita, non-violenza, chisoku ("sapersi accontentare"), kyousei ("capacità di convivere assieme"), semplicità, frugalità, altruismo, sostenibilità, rispetto della diversità.
Ad esempio, l'economista tedesco Ernest Friedrich Schumacher, uno dei padri fondatori di questa economia, autore del celebre Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, mette particolarmente in luce chisoku e semplicità. Allo stesso modo Wangari Maathai, ambientalista keniota premio Nobel per la Pace 2004, crede in una filosofia simile a quella dell'economia buddhista. Nota per la sua attività a favore della Mottainai-Campaign che punta a far conoscere a livello internazionale le tre r (Ri-usa, Riduci e Ricicla), alcuni anni fa durante un suo soggiorno in Giappone l'ambientalista ebbe modo di conoscere il termine mottainai che in sostanza significa: "Mai gettare le cose minime in quanto anch'esse sono portatrici di valori intrinseci".
A quel punto Wangari Maathai ebbe l'ispirazione di condurre una nuova campagna alla luce dell'approccio mottainai ovvero delle tre "r" da diffondere in tutto il mondo. Secondo l'ambientalista, volendo proteggere e preservare l'ambiente, lo spirito di Mottainai è indispensabile. Inutile dire che questo spirito è in sintonia con il pensiero base dell'economia buddhista che si batte per politiche che portino al distacco da un approccio che privilegi solo lo sviluppo; distacco da una produzione basata sul petrolio; istituzione di un nuovo meccanismo internazionale che abolisca ogni forma di violenza. Potrebbe essere un'idea interessante organizzare un dialogo in questo campo tra economisti di orientamento sia buddhista sia cattolico.
In conclusione, semplifico il mio messaggio. Permettetemi di definire il buddhismo-shintoismo come un "sushi spirituale" e il cristianesimo come "spaghetti spirituali". Da quanto ho detto, è evidente che il "sushi spirituale" e gli "spaghetti spirituali" hanno sapori distinti tra loro. Vorrei però aggiungere che entrambi sono squisiti.



(©L'Osservatore Romano 14 agosto 2010)

Tuesday, August 03, 2010

La fede non può fare a meno della ragione

La fede non può fare a meno della ragione
Abramo e i filosofi


di Inos Biffi
Non di rado si sente da parte di teologi o di pensatori "spirituali" esaltare il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" (Esodo, 4, 5; Matteo, 22, 32), conosciuto nel suo rivelarsi mediante la storia della salvezza, e invece considerare con sospetto e indifferenza il "Dio dei filosofi", conosciuto attraverso l'esercizio della ragione.
Spesso, anzi, si dubita che il riconoscimento dell'esistenza di Dio possa essere un traguardo della ragione; e, in ogni caso, il Dio così raggiunto per tale via, sarebbe un Dio freddo e anonimo, imprigionato nei concetti; insomma, un "Motore immobile", senza affetto e cura per l'uomo, che, a sua volta, non potrebbe realmente amarlo ed entrare in una viva relazione con lui.
Si tratta di solito dei medesimi teologi che, convinti e almeno in certa misura conniventi dell'attuale crisi della metafisica, com'è chiamata, sono scettici o indifferenti rispetto all'affermazione del Vaticano i, là dove si dichiara che "Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza dalla luce della ragione umana, a partire dalle realtà create" (Costituzione Dei Filius, 2).
Certamente, non si può mettere in dubbio la diversità incomparabile tra la conoscenza del "Dio di Abramo", rivelato dalla "narrazione" di Gesù Cristo, suo Figlio, in particolare nel mistero della sua morte e risurrezione, e la conoscenza di Dio raggiunta dall'itinerario della ragione.
La prima è l'esito della condiscendenza di Dio, che manifesta per grazia il suo intimo e inarrivabile mistero. La seconda è raggiunta con l'itinerario della mente umana che arriva a Dio per via di una rigorosa analisi critica dell'esperienza degli enti, che non hanno in sé il fondamento del loro esserci, ma rimandano alla sublimis veritas - come dice san Tommaso - di un Essere in cui essenza ed esistenza coincidono.
Il teologo non rimuove e non abroga mai la radicale struttura "teologica" della ragione, né pone in alternativa, e meno ancora in contraddizione, il Dio dei filosofi e il "Dio di Abramo". La ragione non si aggiunge dall'esterno al disegno salvifico di Dio. Essa, infatti, è inclusa nel soprannaturale, essendo stata creata per mezzo di Cristo, in lui e in vista di lui e, come tutto l'uomo, risanata dalla redenzione. Di più: proprio per l'intima capacità della ragione di giungere a una prima e fondamentale immagine di Dio, può avere un primo senso lo stesso linguaggio teologico della Rivelazione.
Abbiamo detto del "Motore immobile": questo viene normalmente frainteso e disdegnato. In realtà il "Motore immobile" predica l'esistenza di un Essere, Atto puro, che possiede ogni perfezione. Immobilità non significa affatto fredda indifferenza, così come "Motore" non equivale a una anonima meccanicità.
Il senso è tutt'altro: si vuol affermare che non siamo più di fronte agli enti imperfetti, frammentari ed effimeri della nostra esperienza, ma a un Essere, sottratto a qualsiasi inquietudine e mutamento, che sta all'origine di ogni perfezione. Un Essere in grado di creare, cioè di "dare l'essere" mentre negli enti "non ci può essere nulla che non provenga da Dio, che è la causa universale dell'essere nella sua totalità" (Summa Theologiae i, 45, 2 c).
Se si nega la possibilità "teologica" della ragione, questa stessa si trova su un "sentiero interrotto": alla fine a trovarsi bloccata, per poi risultare inevitabilmente e completamente negata, è la ragione medesima. Una ragione atea equivale, alla fine, a una non-ragione.
Nella Summa contra Gentiles (i, 4) Tommaso afferma: "Quasi tutta la riflessione filosofica ha come termine la conoscenza di Dio ". Certo, non vi si può arrivare, se non "con l'impegno di uno studio laborioso", "che pochi vogliono affrontare per amore della scienza".
Per altro, la filosofia di san Tommaso scorre tutta tra questi due poli: da un lato, la persona umana, che è il desiderio supremo dell'universo, senza la quale esso sarebbe insignificante e, dall'altro, Dio, "sommo fastigio della ricerca umana", che libera l'uomo dalla sua invivibile solitudine e impossibile speranza.
Non si esaltano, quindi, la teologia e la sua originalità deprimendo la ragione e particolarmente quella "teologica". Alla base di questa persuasione, è una concezione "depressa" della ragione stessa, e si dimentica che, in una cultura in cui l'intelletto sia disanimato, anche la teologia si trova fatalmente vacillante, affidata alle volubilità dell'affetto e agli affanni del desiderio, che, senza l'intelletto che ne illumini l'oggetto, non possono essere riscattate dall'arbitrio.
Lo dimostra la storia stessa della teologia, e sintomaticamente quel filone che, nella sua forma completamente deviata, ha prodotto l'eresia della Riforma, dove la fede è intesa come l'antitesi della ragione.
In realtà, a ben vedere, il segno della completa sanità della ragione è la sua possibilità di giungere ad affermare Dio sulle tracce delle creature e nella forma dell'analogia.
Ma è il caso di aggiungere, da un lato, che bisogna riacquistare il valore imprescindibile dei concetti e delle definizioni, senza di cui ogni pensiero e ogni discorso si sfascia e si scioglie nella con-fusione, e nulla più si tiene insieme.
C'è chi aborrisce i concetti aridi. Veramente, un concetto non è arido né umido, né grasso né magro: è semplicemente la via imprescindibile e mirabile con cui l'uomo comprende e comunica, per quel che può, ben sapendo che nessuna "realtà" è esauribile dall'intelletto, e specialmente la realtà di Dio, che nessuna definizione sarà mai in grado di comprendere, se non per analogia.
Dall'altro lato va quindi sottolineata la convinzione di san Tommaso secondo il quale, in accordo col Damasceno (De fide orthodoxa, i, 4), "noi di Dio non possiamo sapere ciò che è, ma solo ciò che non è" (Summa Theologiae, i, 2, 2, ob. 2); e infatti "al termine della nostra conoscenza noi conosciamo Dio come il non-conosciuto, dal momento che la mente raggiunge il vertice della sua conoscenza di Dio, quando arriva ad avvertire che la sua essenza sta al di sopra di tutto quello che è in grado di conoscere lungo il cammino di questa vita; resta così ignota la sua essenza, e tuttavia si sa che egli esiste" (In Librum Boethii de Trinitate, i, 1, 2, 1m).
Quindi nessuna pretenziosità del concetto a "imprigionare" Dio in categorie umane. Del resto, qualsiasi genere di realtà "oltrepassa" sempre i confini della sua definizione. I teologi che deplorano i concetti freddi e aridi e aborriscono le definizioni, si compiacciono di richiamare che Dio è amore ed è bellezza, e quindi, liberi dal disturbo dei concetti, possono coltivare il dialogo col pensiero non credente.
Certamente, Dio è amore, che tocca la facoltà del bonum ed è bellezza, che attiva la facoltà del pulchrum. Ma per essere percepito come amore e come bellezza bisogna che Dio sia colto nel suo "essere" ed esserci, e quindi appaia nella sua obiettiva verità capace di riscattare dall'arbitrio.
Solo allora può rivelarsi la prerogativa di Dio di essere originariamente amore e bellezza: amore, in cui si risolve tutto il Bonum e che può divenire termine di desiderio; bellezza, in cui si risolve tutto il Pulchrum e che può divenire oggetto di ammirazione. Ed è il caso di osservare che, se soltanto "il Dio di Abramo" rivela la storia concreta e compiuta di questo amore e di questa bellezza, anche il Dio dei filosofi è un Dio al quale essenzialmente appartengono queste sue prerogative.
Ma torniamo al sospetto "teologico" sui concetti, per rilevarne la superficialità e la connivenza con la diffusa e confusa cultura povera, dove è messa in dubbio l'innata capacità dell'intelletto umano di percepire l'essere e le implicazioni necessariamente in esso incluse, ossia i primi principi, l'applicazione dei quali è semplicemente la condizione di ogni pensiero e di ogni ragionamento.
Ciò che distingue l'uomo, e ne segna il carattere e la proprietà specifica, è esattamente questa sua facoltà di essere cosciente dell'"essere", di avvertire l'assoluta differenza tra essere e non essere, di stupirsi dell'essere stesso, di riconoscerne il mistero ineffabile. L'essere non è creato dall'uomo: né dal suo pensiero né dal suo affetto; l'uomo se lo ritrova "innanzi", avendo anzitutto coscienza del proprio essere.
Non è fuori luogo, a questo punto, rilevare quanto i "freddi" concetti nei primi concili, in epoca patristica, ben precedente l'influsso aristotelico e il fiorire della scolastica, abbiano efficacemente contribuito all'esposizione ortodossa della fede cattolica.
Si tratta di un linguaggio irrinunciabile, anche se può essere arricchito al fine di rilevare altri aspetti del mistero cristiano. Ma con un'attenzione: quella di non concepire Dio a immagine dell'uomo, ma l'uomo a immagine di Dio. Come, invece, sembrano fare quanti, per esempio, ritengono che, per avere una Trinità che sia amore, occorre usare un linguaggio moderno e caldo e, per non rassegnarsi a un Dio "impassibile", ma veramente misericordioso, si debba ammettere in lui una sofferenza, fatalmente interpretata a partire da come noi esperimentiamo l'amore nella forma della sofferenza.
Al riguardo non è difficile accorgersi di quale sia la patria di queste teorie. Siamo sempre nel contesto di una cultura largamente segnata dall'"ontofobia", o "paura dell'essere" e, alla fine, dell'"intelligenza", da cui un linguaggio emotivo e spumeggiante, che sembra più ricco di quello concettuale nel senso che è frondoso e sonoro. Per non dire della confusione che si viene creando parlando dell'essere che "accade": in realtà l'essere non "accade", ha una sua origine e giustificazione "teologica" nel libero atto creativo di Dio.
Un ultimo rilievo. Per ricordare l'affermazione, crederei poco nota, di san Tommaso, a proposito del compimento dell'adesione intellettiva dell'uomo a Dio in adesione di amore: "Nell'uomo due sono i mezzi con cui si può aderire a Dio, cioè l'intelletto e la volontà (...) Ma l'adesione dell'intelletto si compie con l'adesione della volontà, poiché è mediante la volontà che l'uomo in certo modo si acquieta in ciò che l'intelletto apprende (... ) Alla cosa a cui aderisce per amore, aderisce per se stessa (...) L'adesione a Dio per amore è il modo principale per aderire a lui" (Summa contra Gentiles, iii, 116).
Come s'è visto, il tema del "Dio dei filosofi" e del "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" domanda di essere affrontato con rigore critico, senza lasciarsi prendere da facili e immediate emozioni, che snobbano o sottovalutano il percorso teologico della ragione, nella convinzione che il Dio della Rivelazione lo renda superfluo e insignificante, se pure non dannoso. Se si ritiene la ragione dell'uomo incapace di pensare realmente Dio come pienezza di essere e di perfezione, come Creatore e fonte di ogni essere, neppure sarebbe possibile una sensata accoglienza del "Dio di Abramo", che è la Trinità Santissima, ma non è un "altro Dio", e che si è manifestato nella storia della salvezza, con l'incarnazione, la passione e la risurrezione di Gesù Cristo, dov'è offerta un'immagine divina insospettabile e assolutamente inattingibile alla ragione dell'uomo, ma solo disponibile per grazia alla sua fede.

Osservatore 3 agosto


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Taize': storia e identita'

2 agosto 2010
IL RICORDO
Taizé e l'Europa dei monaci (Avvenire)

Settant’anni fa, la mattina del 20 agosto 1940, frère Roger arrivava a Cluny in bicicletta. Aveva venticinque anni. Era partito da Ginevra per cercare un posto dove stabilirsi. Lungo la strada aveva visitato alcuni luoghi, ma non vi si era fermato. Era attratto da Cluny, di cui conosceva la storia, però pensava che vi avrebbe trovato solo le rovine di un antico monastero. Fu stupito nello scoprire a Cluny una cittadina. Là un notaio, mastro Bourgeon, lo informò che c’era una casa in vendita a dieci chilometri, nel paese di Taizé. Riprese la bicicletta e vi si recò immediatamente. Così è cominciata la storia della nostra comunità. Settant’anni di Taizé: sono ben pochi rispetto ai mille e cento di Cluny! Ecco perché frère Roger diceva: «La comunità di Taizé è solo un piccolo germoglio innestato sul grande albero della vita monastica, senza il quale non potrebbe vivere». Era consapevole che non per caso era stato condotto a Cluny e poi sulla collina di Taizé. Ecco che cosa ha scritto: «Indubbiamente c’è un senso nel fatto che il nostro paese sia posto fra Cluny e Cîteaux. Da una parte c’è Cîteaux, rianimata da un cristiano notevole: san Bernardo. San Bernardo fa presentire tutto l’ardore riformatore che esploderà nel XVI secolo. Rifiuta qualsiasi compromesso di fronte all’assoluto evangelico. Ha il senso dell’urgenza. Dall’altra parte c’è Cluny, la grande tradizione benedettina che ha umanizzato tutto ciò che toccava. Cluny, con il suo senso della misura, della comunità visibile edificata nell’unità». Poi Frère Roger prosegue: «Fra gli abati di Cluny figura quel cristiano notevole che fu Pietro il Venerabile, così umano e che aveva a cuore la carità e l’unità. Più avanti rispetto alla mentalità del suo tempo, accoglie e offre rifugio ad Abelardo, che l’opinione generale condanna». Radicata in terra cluniacense, la nostra comunità ha tratto ispirazione dalla lunga esperienza dei monaci di Cluny. Non ha tentato di imitare Cluny, ma ha voluto trovare la propria strada. L’eredità spirituale di Cluny sarebbe stata troppo pesante per la nostra piccola comunità. Per questo, negli anni Sessanta, frère Roger aveva declinato la proposta del prefetto di Saône-et-Loire e del vescovo di Autun di sgomberare per trasferire la comunità tra le mura dell’abbazia di Cluny. Taizé doveva trovare la propria strada. La nostra comunità si è lasciata ispirare anche dalla gioia e dalla semplicità di san Francesco d’Assisi. È stata segnata anche dalla profondità della spiritualità di sant’Ignazio di Loyola, portata sulla nostra collina dalle Sorelle di Sant’Andrea. Qual è allora l’ispirazione che i fratelli di Taizé hanno ricevuto da Cluny? Vorrei citare tre punti. Innanzitutto l’accento posto sulla bellezza della preghiera comunitaria. La bellezza della liturgia, del luogo di preghiera, del canto, apre il cuore a una relazione personale con Dio. Fare di tutto per aiutare giovani e meno giovani a scoprire tale relazione personale con Dio è certamente una priorità nel nostro ministero. Il secondo punto è l’importanza data alla trasfigurazione. Questa festa celebrata in Oriente è stata introdotta in Occidente nel XII secolo dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile. Perché è tanto importante? Nel Vangelo il racconto della trasfigurazione mostra Gesù sul monte, in preghiera, in grande intimità con Dio. Una voce si fa sentire ai discepoli: «Questi è il mio Figlio prediletto». Il mistero di Gesù appare davanti ai loro occhi: la sua vita consiste nella relazione d’amore con Dio Padre. Quando, nella preghiera, guardiamo la luce del Cristo trasfigurato, essa a poco a poco ci diventa interiore. Il mistero di Cristo diventa il mistero della nostra vita. Ciascuno di noi è anche il figlio prediletto di Dio. Come Gesù, possiamo anche noi abbandonarci a Dio. E in cambio Dio trasfigura la nostra persona, corpo, anima e spirito. Allora anche le fragilità e le imperfezioni diventano una porta attraverso la quale Dio entra nella nostra vita. Attraverso lo Spirito Santo, Cristo penetra ciò che ci inquieta di noi stessi, tanto che le oscurità sono chiarite. Il terzo punto è la grande capacità dei monaci di Cluny di superare le frontiere in Europa. C’erano monasteri dappertutto. L’esempio di Cluny ci insegna che l’Europa si costruisce anche a partire da una vita interiore, da una vita di fede. Noi fratelli siamo stati condotti, senza averlo previsto, a vivere quotidianamente un’apertura internazionale. E insieme a giovani di tutti i continenti ricerchiamo quelle fonti interiori che permettono di vivere come una sola famiglia umana, nonostante le differenze di cultura. I monaci di Cluny rimangono i testimoni che, nella storia, talvolta sono bastate poche persone per far pendere la bilancia dalla parte della pace. A cambiare il mondo non sono tanto le azioni spettacolari, bensì la perseveranza quotidiana nella preghiera, nella pace del cuore e nella bontà umana.

Meditazione tenuta domenica 2 maggio all’abbazia di Cluny
(traduzione di Anna Maria Brogi)
di frère Alois, priore di taizé

Simboli italiani

2 agosto 2010
IDEE
Quanti brutti monumenti per celebrare l'Unità (Avvenire )


Le due quadrighe bronzee poste ai due estremi dei propilei del Vittoriano di Roma, più noto come Altare della Patria, e che si stagliano alte sul cielo di Roma, sono dedicate all’Unità della Patria e alla Libertà dei cittadini. L’illustre, immenso, imperdonabile "coso marmoreo" progettato nel 1884 dall’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi e inaugurato nel 1911 è in qualche modo il monumento culminante e riassuntivo di un complesso iter ideologico e simbolico: quello del Risorgimento, dell’Unità nazionale e dei valori che si vollero loro attribuire. La solenne e mostruosa sfida alla basilica di San Pietro, che i romani non hanno mai amato e che hanno ferocemente battezzato – a causa della sua forma – "la macchina da scrivere", doveva essere originariamente un omaggio al sovrano dell’Unità, Vittorio Emanuele II: ma divenne si può dire da subito il vero e proprio Altare della religione laica della patria, simboleggiata da due monumenti in qualche modo concorrenti, in qualche altro complementari ma anche reciprocamente estranei: la grande statua bronzea del sovrano dell’Unità a cavallo e, scolpita sul basamento marmoreo che la sostiene, l’immagine della dea Roma rappresentata come una marmorea, armata Minerva, affiancata dai bassorilievi del Lavoro e dell’Amor patrio. Bisogna notare che la dea Roma non poteva identificarsi immediatamente nella tradizionale immagine dell’Italia cinta della "corona merlata" sulla fronte della quale rifulge una stella: due belle e floride donne entrambe, cinte di classico peplo, ma caratterizzate dalla corona simbolo di sovranità civica e di libertà l’una, dal marziale elmo a tre creste l’altra. L’Italia materna e feconda, Cerere-Demetra; e Roma sapiente e marziale, Minerva-Atena. Libertà, Lavoro, Fecondità, Opulenza, valori di pace, l’una; Vittoria, Volontà, Conquista, valori di guerra, l’altra. Due differenti, contrastanti programmi simbolicamente evocati: eppure già ambiguamente, forse addirittura contraddittoriamente e paradossalmente intrecciati già fino da quello che con l’Inno di Garibaldi si considerava l’inno nazionale per eccellenza: quello di Mameli. Goffredo Mameli rappresenta infatti la patria che, ridestata da un lungo sonno (Ri-sorgimento, appunto: ma quando si sarebbe addormentata?), si cinge immediatamente dell’Elmo di Scipio, eredità romana e repubblicana, mentre la Vittoria deve "porgerle la chioma". Tale Vittoria però non viene proposta come liberatrice contro un oppressore, come in omaggio alle battaglie risorgimentali ci si aspetterebbe, ma pegno di conquista, in quanto Iddio l’avrebbe creata "schiava di Roma". In ultima analisi, quindi, Italia e Roma vengono a coincidere. Un’immagine confermata dall'Inno di Garibaldi, con la sua "resurrezione laica" («Si scopron le tombe / si levano i morti / i martiri nostri / son tutti risorti») nella quale gli eroi della patria sono a loro volta classicamente evocati come cinti d’alloro. La simbolica dell’unità e della libertà, durante l’intero arco dell’Ottocento e nella stessa prima metà del Novecento, si era ispirata più o meno in tutta l’Europa (Gran Bretagna e Russia comprese) all’antichità soprattutto greca (specie in Germania), ma anche romana repubblicana, per il tramite della Rivoluzione francese che aveva canonizzato l’uso dei simboli-chiave dell’unità e della sovranità popolare (il fascio littorio), della forza e della vittoria (le fronde e le corone di querce e d’alloro), dell’ideale di libertà e di sapienza (la stella a cinque punte, con allusione antropocentrica alla figura dell’"Uomo di Vitruvio"), della liberazione dalla tirannia (il "berretto frigio" dei liberti e il pugnale di Bruto). L’età napoleonica aveva mantenuto grosso modo la medesima simbolica, facendo significativamente scomparire il pugnale e mettendo da parte il berretto frigio per sostituirli con l’aquila imperiale, segno di autorità e di dominio.

Tale cammino simbolico era stato sostenuto dall’affermarsi di una cultura e di un’estetica: quelle del Neoclassicismo, maturate durante l’età illuministica e sostenute da una più o meno implicita volontà di obliterazione dei simboli religiosi cristiani in generale, cattolici in particolare, nel nome dell’affermarsi del "teismo" filosofico (l’affermazione di un principio "divino" sottostante al cosmo e alla natura, ma non identificantesi nel Dio personale e creatore di Abramo) e dei fondamentali culti della Ragione e della Natura. Il Romanticismo, affermatosi nel primo Ottocento, si era configurato come una forte reazione a quei simboli e a quei valori: il cristianesimo era tornato in auge e una nuova estetica, quella neogotica, si era opposta a quella neoclassica. Si trattava in fondo di due estetiche "ideologiche" volte entrambe al passato, ma con una connotazione avvertita come polemicamente opposta: al neoclassicismo sentito e interpretato anche come neopaganesimo si contrapponeva il neogotico in quanto arte "della fede" e "delle cattedrali", intrinsecamente cristiana. Anche all’interno dell’organizzazione che fin dal Settecento era stata la fucina delle idee di progresso, di libertà, di emancipazione civile e di umanitarismo, la massoneria, quel conflitto estetico-simbologico si era fatto avvertire: e si era espresso in un affiancarsi di simboli desunti dall’antichità greco-romana (come appunto le corone di querce, di alloro e della "sapienziale" acacia) ad altri che richiamavano a un teismo collegato tuttavia alla Bibbia in quanto la mitologia massonica non poteva separarsi dal mito della costruzione del Tempio di Salomone (quindi il triangolo raggiante al cui centro era raffigurato l’Occhio divino, con una suggestione desunta dall’antico Egitto, e ancora sia la piramide, sia le Tavole della legge mosaica) e ad altri ancora che sottolineavano la devozione degli adepti, (sempre nel nome della "costruzione del Tempio") al lavoro e al progresso (la stella a cinque punte simbolo della luce della Ragione umana, il compasso, la squadra dei costruttori). Il nostro Risorgimento, attraverso le organizzazioni carbonare prima e mazziniane poi – in vario contatto con le logge massoniche – ereditò questa varietà simbolica e l’adattò alle sue necessità con una quantità di non sempre coerenti e anzi talora ambigue variabili. Carbonari e mazziniani, organizzatori anche di sodalizi di artigiani e di lavoratori, trasferirono nel linguaggio simbolico del nascente movimento operaio i simboli massonici che si riferivano alla "Grande Opera", come appunto compasso e squadra, originariamente dotati di valore iniziatico. La stessa passò da simboli dell’umano intelletto indipendente dalla luce del Sole divino (simbolo quindi di una visione del mondo etsi Deus non daretur) a simbolo di libertà e delle "mirabili sorti e progressive" dell’umanità, cui più tardi il socialismo avrebbe fornito anche il suo colore simbolico, il rosso: e anche le insegne del "quarto stato", la falce dei contadini e il martello degli operai, si affiancarono e col tempo si contrapposero a compasso e squadra sentite come simboli di produzione e di lavoro "borghesi", ma sempre nel quadro sintattico di un immaginario i modelli del quale rimanevano massonici. Infine il fascio littorio, simbolo fondamentale della repubblica giacobina come tale adottato da mazziniani e da garibaldini, divenne l’emblema principale di quanti ispiravano all’unità repubblicana liberata da qualunque presupposto cristiano. Simboli tragicamente opposti e paralleli, la croce e il fascio, entrambi rinvianti al sacrificio della vita e alla resurrezione: la prima al martirio del Cristo morto e risorto; il secondo alla punizione dei traditori della patria e alla decapitazione dei tiranni, dal sangue dei quali scaturisce l’unità e la libertà del popolo. La Repubblica romana del 1849 assunse a suo simbolo, mazzinianamente concepito, l’aquila di una Roma privata del papa che serrava fra gli artigli un fascio simbolo della Repubblica. Tale simbolo sarebbe passato, del 1943, alla Repubblica sociale italiana che rivendicava in tal mondo un’origine mazziniana finalmente liberata e depurata dall’inquinamento monarchico e sabaudo.

In effetti, l’eterogeneità e l’ambiguità del Risorgimento italiano si era espressa, fino dagli anni Venti dell’Ottocento, nell’adozione di una pluralità di simboli difficilmente compatibili tra loro. Le élites patriottiche avevano sempre mostrato di volersi riallacciare all’antichità classica sottolineando però – secondo modelli ch’erano già danteschi e petrarcheschi, ma che dal Foscolo al Leopardi erano stati reinterpretati – che l’Italia era la "figlia primogenita di Roma" e rivendicando pertanto le glorie dell’antica repubblica dei Bruti e degli Scipioni. Ci comportava una certa estraneità dalla moda neogotica che invadeva intanto l’Europa: al tempo stesso, però, il Risorgimento italiano recuperava anch’essa, come si vede nell’architettura e nell’urbanistica ottocentesca, nel nome delle libertà dei Comuni e della lotta contro lo "straniero" (ad esempio la Lega lombarda contro il Barbarossa). Gli stessi simboli più propriamente cristiani, se non cattolici, entravano in qualche modo nella panoplia risorgimentale: nel 1848, la Prima guerra d’indipendenza venne interpretata in un primo tempo – giobertianamente e nel nome di Pio IX – come "crociata": e una croce figurava come insegna sulle coccarde dei volontari e perfino al centro del tricolore verde-bianco-rosso riesumato dai tempi della Repubblica cisalpina e poi italiana del Bonaparte e rivendicato come bandiera nazionale dal Regno di Sardegna, che tuttavia l’aveva caricato dello scudo sabaudo, la cui croce d’argento in campo vermiglio aveva origine da una concessione onorifica che l’Ordine dei cavalieri di Rodi (poi di Malta) avevano accordato al conte di Savoia Amedeo VI in ricordo della difesa di Rodi da lui eroicamente condotta contro i turchi a metà Trecento. Mentre quindi il fascio littorio campeggia sovrano sui monumenti e le lapidi repubblicane, mazziniane, artigiane e operaie di tutto l’Ottocento e del primo Novecento italiani (e di fasci è decorato il monumento equestre di Garibaldi al Gianicolo), molte sono le occasioni ufficiali in cui, nel nome dell’unità tra casa Savoia e movimento garibaldino come origini dell’unità e della libertà della patria, scudo monarchico e fascio repubblicano vengono effigiati insieme. Mussolini aveva originariamente ripreso dal mazzinianesimo e dal garibaldinismo il fascio giacobino (in una forma che si vede bene nella lapide commemorativa di Felice Cavallotti posta nel palazzo comunale di Forlì, che il giovane Benito ben conosceva): ma a partire dal 1925, cioè dall’anno del consolidamento del governo fascista in regime, la forma del simbolo di partito andò mutando: l’ascia simmetrica al centro del fascio di verghe, caratteristica del giacobinismo, si andò cambiando in un’ascia asimmetrica "romana", posta lateralmente alle verghe, e l’oggetto assunse connotati "archeologici" e romani. In altri termini, l’origine giacobina veniva ripudiata e il simbolo-chiave del regime, divenuto simbolo dello Stato-partito, si ricollegava direttamente alla romanità. Questo viaggio a ritroso del patriottismo unitario italiano divenuto nazionalismo e, nella prospettiva già dei Corradini e dei Marinetti, colonialismo e imperialismo, si era tradotto esteticamente in una progressiva "romanizzazione" dell’archeologia e dell’urbanistica. La Roma capitale postrisorgimentale e umbertina aveva assunto in un primo momento uno stile eclettico ispirato al cinque-seicentismo risorgimentale e barocco, in linea con il tono prevalente della Roma dei papi: di tale scelta era stato arbitro un architetto di genio, Camillo Boito. Ma cultura decadentistica di fin de siècle ed estetica anticlericale e anticristiana dei circoli massonici dominati da personaggi come Ernesto Nathan e Augusto Reghini avevano progressivamente imposto la scelta "romana". L’Altare della Patria ne è il compendio: eretto in modo da addossarsi alla collina del Campidoglio obliterandone completamente e irreversibilmente il carattere cristiano sancito dallo splendido complesso ecclesiale e conventuale di Santa Maria in Aracoeli, l’abbagliante mostruosità di marmo e di bronzo consacrata a un re che la Chiesa aveva scomunicato e alla dea Roma s’imponeva ora al centro dell’Urbe, con la sua mole la forma della quale rimandava all’Ara di Pergamo custodita nel museo di Berlino e all’Altare della dea Fortuna della città di Palestrina, l’antica Penestre divenuta rocca dei Colonna. Il Vittoriano era programmaticamente concepito come un Antivaticano, un centro sacrale laicistico, patriottico e neopagano contrapposto a quello cattolico e papale. L’asse urbano di Roma, già incentrato sulla linea cristiana Laterano-Vaticano (dunque Esquilino-Gianicolo), si spostava ora su quella pagana Campidoglio-Aventino: il "risanamento" dell’area tra Campidoglio e Colosseo, con la sistemazione archeologica dei Fori imperiali e l’apertura della trionfale via che congiungeva piazza Venezia all’anfiteatro Flavio e ch’era la quinta scenografica delle liturgie imperiali di regime, avrebbe completato l’opera. Nel 1920, i legionari fiumani di D’Annunzio, ispirandosi a un quadro di David (il pittore ufficiale di Napoleone) ed equivocandone una scena di giuramento, avevano inventato il "saluto romano". Nel 1933 l’ex agitatore libertario e socialista divenuto il Duce (un epiteto peraltro ereditato da Garibaldi e da D’Annunzio, salutava appunto "romanamente" la statua di Giulio Cesare all’inizio dei Fori imperiali. L’eredità di Roma era pienamente recuperata: ma quella era la Roma imperiale, che con il repubblicanismo giacobino non aveva più nulla a che fare.

Lo stesso non si poteva tuttavia dire per la simbolica cristiana e cattolica. Nonostante i rapporti qua e là tesi tra Chiesa e Stato, il regime aveva attuato al Conciliazione. Nel 1921, la salma del Milite ignoto aveva avuto esequie solenni – sia pur non religiose – in Santa Maria degli Angeli prima di essere riposta nel sacello ai piedi della marmorea dea Roma, al centro dell’Altare della Patria: e la lapide che sigilla il sepolcro del soldato sconosciuto simbolo di tutti i caduti della guerra 1915-1918 reca incisa una piccola croce. Col fascismo, all’interno del monumento – dove dal 1930 si erano ricavati i locali della cripta e del Museo del Risorgimento –, il sarcofago del Milite ignoto sarebbe diventato, all’interno, l’altare di una cappella nel quale, in quello stile romano-ravennate che il romagnolo Mussolini prediligeva (e che aveva scelto anche per la sua pur modesta cappella di famiglia, nel cimitero di Predappio), campeggiavano i mosaici raffiguranti i santi-militari protettori delle Forze armate. Nel 1937, per il quindicesimo anniversario della fondazione della Milizia fascista, l’ateo mangiapreti divenuto Duce del fascismo ascoltava in solenne inappuntabilità la messa celebrata sull’Altare della Patria. Il ciclo era compiuto: si concludeva l’itinerario simbolico che saldava gli inconciliabili simboli dell’antichità pagana, del giacobinismo anticristiano, del Risorgimento anticlericale, della monarchia sabauda tradizionalmente devota alla Vergine madre di Dio e scomunicata dal 1870, dell’Italietta massonica, della rivoluzione nata da un movimento repubblicano e socialista divenuto nazionalista e guidata da un ateo divenuto Uomo della Provvidenza e che aveva restituito, come fu detto, «l’Italia a Dio e Dio all’Italia». Ai fedelissimi di una "religione civica " estetizzante e almeno in apparenza priva di compromessi con il cattolicesimo, Mussolini concedeva di costruirsi frattanto a spese dello Stato un nuovo, sontuoso Altare della Patria e santuario rituale attorno al vecchio e ormai vaneggiante Vate, là presso il Garda: il Vittoriale degli italiani, dal nome tanto simile al Vittoriano, nemmeno dal quale sono tuttavia del tutto assenti le tracce del cattolicesimo, sotto la forma delle are dei martiri o tra le pieghe delle allusioni erotiche e misticheggianti del culto a san Sebastiano e a san Francesco. Cacciatelo da qualunque porta volete, ma il nome del Cristo rientra sempre, nella storia d’Italia, a tutte le finestre. Il seguito di questa storia assurda e surreale, lo conosciamo. Eppure è storia: storia nostra. Con tutte le sue contraddizioni, che non abbiamo il diritto né d’ignorare, né di cancellare.
Franco Cardini