Friday, November 26, 2010

Jullien Cina e universalita'

F. Jullien, De l'universel de l'uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Fayard, Paris 2008, trad. it. L'universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. XI+190, ISBN 978-88-420-8775-5

"[P]rendiamo in considerazione una cultura che non si affida ad alcuna Rivelazione, ma la cui capacita' di integrazione e di accentramento ideologico e' talmente forte da spingerla a identificarsi con il centro del mondo e a considerare i propri valori pienamente imitabili ed esportabili senza limite alcuno. Sto parlando della Cina: una cultura che 'non si pone neanche' la questione della possibile universalita' dei propri valori. Ma potremmo anche considerare il caso della Cina insieme a quello del Giappone, cosi' da mettere in luce l'uno attraverso l'altro. Due casi opposti, e tuttavia in entrambi ci si dispensa dal porre la 'questione' dell'universale: in uno l'universalita' culturale risulta scontata, nell'altro incongrua. Il Giappone non vi presta attenzione poiche' si compiace della propria specificita' locale che rivendica facendo appello alla sua insularita', al suo clima, ai suoi terremoti, alle sue pianure strette tra le montagne e alle sue coste frastagliate (fudo/yamato, ecc): si considera una terra dal destino unico, distinta dalle altre e protetta dagli dei. Riluttante a intaccare il proprio sentimento di coesione interna, quando e' chiamata a riconoscere la propria dipendenza culturale dal suo imponenete vicino essa riscopre la sua coscienza identitaria attraverso un confronto continuo. Il Giappone, dal punto di vista dei suoi stessi abitanti, e' una cultura del singolare: la questione dell'universale la lascia indifferente.
La Cina invece, nel suo estendersi lungo grandi fiumi e vaste pianure, incontra le proprie province di frontiera ma non scorge mai veri e propri limiti al proprio impero (se non il mare). Sente a tal punto la propria cultura come globale da ritenere questa globalita' un dato di fatto naturale e da non avvertire la necessita' di un concetto di universale che la rivendichi. Lo spazio che assegna a se stessa e' tutto lo spazio che si estende "Sotto il cielo" (tian xia) e "dentro ai quattro mari", fino alle estremita' del globo; il potere del suo sovrano si estende sull'intero genere umano. Di lui viene detto che "Il Figlio del Cielo e' senza eguali", nessuno puo' essere messo sul suo stesso piano e "nessuno, tra i quattro mari, puo' riceverlo seguendo i riti dell'ospitalita'" poiche' tutto "sotto il cielo" e' "sua dimora" e "non v'e' per lui luogo esterno ove recarsi" (Xunzi, inizio del capitolo "Junzi"). Quindi, "qualunche siano le frontiere che attraversa e i paesi in cui va", "non si puo' dire che vi si rechi, poiche' egli e' ovunque a casa sua"...


Gia' nella piu' antica raccolta di poesie cinesi, lo 'Shijing', si legge: "Universalmente sotto il cielo/ non vi e' nulla che non sia terra del Re" (Xiaoya, "Bei Shan" 溥天之下、莫非王土). Cio' che qui traduciamo con "universale" ('bo', ripreso oltre con 'pu') significa "che non puo' incontrare limiti" o anche "infinitamente esteso": non aspira, in senso stretto, al dover essere, ma non immagina neanche delle restrizioni all'affermazione di se'. L'iperbole non esprime qui l'invocazione di una necessita', bensi il non-sospetto di una possibile alterita' (esteriorita'). Non affifando la propria legittimazione ad alcun verbo sacro - non rivendicando quindi alcun Messaggio, ne' richiamandosi ad alcuna grande Epopea - la Cina antica non percepisce se stessa come predestinata, ne' tantomeno come provilegiata: e' semplicemente l'unica civilta' da essa stessa (ri)conosciuta. Dal suo punto di vista, tutto cio' che la circonda semplicemente non ha ancora avuto accesso alla civilta', in quanto non e' ancora "sinizzato".

Thursday, November 25, 2010

Crisostomo agnelli e lupi

Seconda Lettura Giovedi seconda sett. 25 Novembre

Dalle «Omelie sul vangelo di Matteo» di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 33,1.2; PG 57,389-390)

Se saremo agnelli vinceremo, se lupi saremo vinti

Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell'aiuto del pastore. Egli non pasce lupi, ma agnelli. Per questo se ne andrà e ti lascerà solo, perché gli impedisci di manifestare la sua potenza.
È come se Cristo avesse detto: Non turbatevi per il fatto che, mandandovi tra i lupi, io vi ordino di essere come agnelli e colombe. Avrei potuto dirvi il contrario e risparmiarvi ogni sofferenza, impedirvi di essere esposti come agnelli ai lupi e rendervi più forti dei leoni. Ma è necessario che avvenga così, poiché questo vi rende più gloriosi e manifesta la mia potenza. La stessa cosa diceva a Paolo: «Ti basta la mia grazia, perché la mia potenza si manifesti pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Sono io dunque che vi ho voluto così miti.
Per questo quando dice: «Vi mando come agnelli» (Lc 10,3), vuol far capire che non devono abbattersi, perché sa bene che con la loro mansuetudine saranno invincibili per tutti.
E volendo poi che i suoi discepoli agiscano spontaneamente, per non sembrare che tutto derivi dalla grazia e non credere di esser premiati senza alcun motivo, aggiunge: «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt 10,16). Ma cosa può fare la nostra prudenza, ci potrebbero obiettare, in mezzo a tanti pericoli? Come potremo essere prudenti, quando siamo sbattuti da tante tempeste? Cosa potrà fare un agnello con la prudenza quando viene circondato da lupi feroci? Per quanto grande sia la semplicità di una colomba, a che le gioverà quando sarà aggredita dagli avvoltoi? Certo, a quegli animali non serve, ma a voi gioverà moltissimo.
E vediamo che genere di prudenza richieda: quella «del serpente». Come il serpente abbandona tutto, anche il corpo, e non si oppone pur di risparmiare il capo, così anche tu, pur di salvare la fede, abbandona tutto, i beni, il corpo e la stessa vita.
La fede è come il capo e la radice. Conservando questa, anche se perderai tutto, riconquisterai ogni cosa con maggiore abbondanza. Ecco perché non ordina di essere solamente semplici o solamente prudenti, ma unisce queste due qualità, in modo che diventino virtù. Esige la prudenza del serpente, perché tu non riceva delle ferite mortali, e la semplicità della colomba, perché non ti vendichi di chi ti ingiuria e non allontani con la vendetta coloro che ti tendono insidie. A nulla giova la prudenza senza la semplicità.
Nessuno pensi che questi comandamenti non si possano praticare. Cristo conosce meglio di ogni altro la natura delle cose. Sa bene che la violenza non si arrende alla violenza, ma alla mansuetudine.