Thursday, October 20, 2011

Trinità senso dell'uomo. Fede e ragione in P. A. Florenskij

Trinità senso dell'uomo. Fede e ragione in P. A. Florenskij

di Giuseppe Malafronte (Roma, 26-28 maggio 2011)


http://mondodomani.org/teologia/malafronte2011.htm

Sunday, October 16, 2011

Church Planters and Missionola... (thecripplegate.com)



Church Planters and Missionolatry
http://thecripplegate.com/church-planters-and-missionalotry/

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Dialogo interreligioso

Benedetto XVI ai partecipanti al convegno promosso dalla Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice
Per una nuova sintesi
armonica tra famiglia e lavoro


Nell'attuale momento di crisi economica e sociale è necessaria "una nuova sintesi armonica tra famiglia e lavoro". Lo ha detto il Papa ai partecipanti al convegno della Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice, ricevuti in udienza nella mattina di sabato 15 ottobre, nella Sala Clementina. Per Benedetto XVI, infatti, "il modello familiare della logica dell'amore e del dono va esteso a una dimensione universale". Nella famiglia - ricorda il Pontefice - "si apprende come il giusto atteggiamento da vivere nell'ambito della società, anche nel mondo del lavoro, dell'economia, dell'impresa, deve essere guidato dalla caritas". In questa prospettiva, il Papa ha indicato un nuovo modo di concepire la giustizia sociale. Che non può esaurirsi nel "dare per avere" o nel "dare per dovere": perché "vi sia vera giustizia - ha avvertito Benedetto XVI - è necessario aggiungere la gratuità e la solidarietà". Quanto alla difficile situazione economica, il Pontefice ha riconosciuto che "non è compito della Chiesa definire le vie per affrontare la crisi in atto". Tuttavia - ha precisato - "i cristiani hanno il dovere di denunciare i mali, di testimoniare e tenere vivi i valori su cui si fonda la dignità della persona, e di promuovere quelle forme di solidarietà che favoriscono il bene comune, affinché l'umanità diventi sempre più famiglia di Dio".



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)
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Aperto in Vaticano il primo incontro internazionale dei responsabili della nuova evangelizzazione
Un popolo in missione


di GIANLUCA BICCINI
"Il passaggio dalla "missione al popolo" a il "popolo in missione" deve far comprendere il cambiamento di prospettiva che muove la nuova evangelizzazione". Con questo auspicio dell'arcivescovo presidente Rino Fisichella, si è aperto stamane, sabato 15 ottobre, in Vaticano il primo incontro internazionale promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Nell'Aula del Sinodo si sono dati appuntamento, con i 14 membri del dicastero, i rappresentanti di 33 Conferenze episcopali e di ben 115 realtà ecclesiali, i cosiddetti nuovi evangelizzatori, convenuti dai cinque continenti con l'obiettivo dichiarato di offrire "risposte adeguate" all'attuale crisi spirituale che investe il mondo, attraverso un "nuovo slancio missionario", nella piena consapevolezza - ha spiegato monsignor Fisichella nell'introduzione ai lavori - che "vi sono realtà differenziate che richiedono impulsi di evangelizzazione diversi".
Nel suo articolato intervento l'arcivescovo presidente ha definito la nuova evangelizzazione "un fiume che irriga il mondo di oggi, là dove le persone vivono e operano". Dopo aver messo in luce come "voler ricorrere a una definizione esaustiva di nuova evangelizzazione rischi di far dimenticare la ricchezza e la complessità della sua natura", il presule ha invitato i presenti a "dare ragione della propria fede, mostrando Gesù Cristo il Figlio di Dio, unico salvatore dell'umanità. Nella misura in cui saremo capaci di questo - ha detto - potremo offrire al nostro contemporaneo la risposta che attende". La nuova evangelizzazione riparte dunque "dalla convinzione che la grazia agisce e trasforma fino al punto da convertire il cuore, e dalla credibilità della nostra testimonianza. Guardare al futuro con la certezza della speranza è ciò che ci consente di non rimanere rinchiusi in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato, né di cedere all'utopia perché ammaliati da ipotesi che non possono avere riscontro". Perché - ha aggiunto - "la fede impegna nell'oggi che viviamo, per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura". E questo - ha ammonito - "a noi cristiani non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione, ma renderebbe vana la Pentecoste".
Da qui l'esortazione a "spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo. Se qualcuno oggi vuole riconoscere i cristiani deve poterlo fare per il loro impegno nella fede, non per le loro intenzioni".
Per questo è importante individuare alcuni luoghi, particolarmente sensibili, per un'azione pastorale più innovativa. E tra questi ne sono stati illustrati ben sette, ritenuti a giusto titolo quelli maggiormente impegnativi: la cultura, le migrazioni, la comunicazione, la famiglia, la liturgia, la politica, e la pastorale ordinaria nelle parrocchie.
Ciascuno di questi ambiti è stato poi approfondito attraverso gli interventi di altrettanti relatori. Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha parlato dell'evangelizzazione della cultura; il professor Adriano Roccucci (Comunità di Sant'Egidio), dell'accoglienza ai migranti; la brasiliana Luzia de Assis Santiago, dell'impegno di testimonianza cristiana nei media attraverso l'esperienza di Canção Nova; il fondatore del Cammino neocatecumenale, lo spagnolo Kiko Argüello, dell'importanza basilare della famiglia nella trasmissione della fede; il francese Jean-Luc Moens (Communauté dell'Emmanuel), di come ciò che viene annunciato debba essere poi reso presente e vivo nella preghiera liturgica e nella partecipazione ai sacramenti; Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento nello Spirito, del popolo di Dio chiamato a impedire la marginalizzazione della fede dalla vita pubblica. Molto applaudito, infine, l'intervento di don Pigi Perini, dal 1977 parroco di Sant'Eustorgio a Milano, che si è soffermato sulla pastorale svolta dalle cellule parrocchiali di evangelizzazione. Quasi tutti - anche quanti sono intervenuti successivamente in forma più concisa, a cominciare dal cardinale Wuerl di Washington - hanno fatto riferimento alle radici e agli sviluppi della nuova evangelizzazione: a partire dall'Evangelii nuntiandi, l'esortazione apostolica di Paolo VI del 1975 che può esserne considerata la magna charta, fino alle intuizioni profetiche di Giovanni Paolo II, che per primo ne ha elaborato le implicazioni, e di Benedetto XVI, che un anno fa ha istituito un apposito dicastero per realizzarla nei Paesi di antica tradizione cristiana sempre più secolarizzati.



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)
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Rincari dei prodotti agricoli e insicurezza alimentare
Il prezzo della fame

di PIERLUIGI NATALIA
"L'intera comunità internazionale deve agire subito e con forza per sradicare l'insicurezza alimentare dal pianeta". Questa affermazione apre il recente rapporto pubblicato dalle tre agenzie dell'Onu specifiche del settore, l'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao), il Programma alimentare mondiale (Pam) e il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad). Quest'anno, Fao, Pam e Ifad hanno curato, per la prima volta congiuntamente, il tradizionale State of Food Insicutity (Sofi), il rapporto sullo stato dell'insicurezza alimentare nel mondo finora pubblicato annualmente dalla Fao.
Non è certo la prima volta che la lotta alla fame è posta come principale priorità mondiale dai documenti dell'Onu. Ma il Sofi 2011 pone con più evidenza che nel passato la necessità di una revisione radicale delle politiche in questo campo e altrettanto emerge dal tema "Prezzi degli alimenti, dalla crisi alla stabilità", scelto per la Giornata mondiale dell'alimentazione del 16 ottobre.
Le dinamiche dei prezzi agricoli, imposte dalla globalizzazione del commercio, hanno già portato devastazioni e minacciano di diventare incontrollabili. Ponendo l'accento sui rincari e sulla volatilità dei prezzi delle derrate alimentari, il Sofi 2011 sottolinea che "i piccoli agricoltori e i più poveri diventano sempre più vulnerabili" e che nel lungo periodo ciò avrà gravi ripercussioni sullo sviluppo di interi Paesi. A pagare il prezzo maggiore è come sempre l'Africa, cioè proprio il continente con meno responsabilità nei meccanismi finanziari che hanno provocato e prolungano la crisi globale, ma che subisce più di tutti le distorsioni dei mercati internazionali. Il Sofi 2011 richiama le responsabilità delle economie forti, sottolineando che "servono maggiori investimenti a lungo termine nel settore agricolo, privilegiando le iniziative dei piccoli contadini, principali produttori di cibo in molti parti del mondo in via di sviluppo". Il documento, cioè, conferma che lo sviluppo rurale - con il consolidamento e il rilancio, ma anche con l'ammodernamento della piccola agricoltura - è un passaggio decisivo e obbligato per il futuro dell'Africa e del mondo.
Certamente servono investimenti, pubblici e privati, nei sistemi d'irrigazione, nella ricerca per le sementi più adatte e nella tutela dell'ambiente. Ma l'elemento chiave è soprattutto politico: occorrono regole commerciali che proteggano i prezzi interni dalle oscillazioni di quelli internazionali. Così come accade per tanti altri prodotti - si pensi alla finanza drogata dai mutui subprime o alle speculazioni sulle materie prime energetiche - a determinare il costo del cibo sono soprattutto le vendite allo scoperto, il mercato dei futures. Se i rincari del prezzo all'origine dei prodotti agricoli hanno nei Paesi ricchi un peso poco rilevante nel loro costo al consumatore, determinato in massima parte dalla filiera di distribuzione, nei Paesi poveri la situazione è ben diversa. Dati diffusi dalla Banca mondiale proprio in questi giorni mostrano che l'aumento del prezzo del cibo tra il 2010 e il 2011 ha fatto precipitare più di settanta milioni di persone nella povertà estrema.
Da qui la necessità sollecitata dall'Onu di regole più efficaci per arginare la speculazione. Ma così come accade sull'altro cruciale versante dello sviluppo, cioè il lavoro, anche nel settore del commercio le dichiarazioni internazionali non si traducono mai in provvedimenti concreti. Nessuna volontà politica a livello mondiale riesce a opporsi a una finanza che, in materia di agricoltura, si occupa solo di determinare i prezzi dei prodotti destinati ai consumi del nord del mondo - spesso in regime di proprietà internazionale e, comunque, vincolate ai meccanismi commerciali globali - ed erode sempre più l'agricoltura di sussistenza.



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)
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Il rapporto tra libro ed ebook alla Fiera di Francoforte
In equilibrio sul futuro


dal nostro inviato MARTA LAGO
Una Frankfurten Buchmesse senza segni di fatica. Questa settimana, la sessantatreesima edizione dispiega un vigore che dimostra la sua capacità di reinventarsi.
Un messaggio dal forte impatto visivo accoglie i duecentottantamila editori visitatori che trovano, al centro della Fiera, una magnifica struttura curvilinea dall'innovativo disegno futuribile. È l'Open Space Pavillion, dove si gioca con le dimensioni dello spazio e del tempo. È difficile immaginare il suo enorme volume interno, che accoglie libri, tecnologia, ingegneria, spazi per conferenze, zone di lavoro e d'incontro. La struttura favorisce uno scambio di idee e di creatività fra ambiti apparentemente distanti.
Già alla vigilia della Buchmesse, il suo direttore, Jürgen Boss, ha dichiarato l'obiettivo di avviare un dialogo interdisciplinare per affrontare con successo i grandi cambiamenti che riguardano l'industria editoriale. Dai letterati agli ingegneri, "tutto inizia con una pagina bianca". Pertanto, secondo Boss, si cerca di far sì che la Fiera di Francoforte sia uno spazio aperto di gente innovatrice, che proviene da professioni creative, andando molto al di là del formato classico del libro.
La Fiera di questa città tedesca accoglie settemilaquattrocento espositori di oltre cento Paesi. Nei suoi padiglioni non ci sono solo le proposte editoriali "classiche", ma anche programmi per giochi, film, animazione, spazi multimediali. "Digitale" è una parola onnipresente. Protagonista soprattutto dall'irruzione dell'ebook. E quest'anno Boss ha detto che "il contenuto multimediale è il futuro".
La novità di questa edizione (che si chiude domenica 16 ottobre) è stata che il via alle conferenze, già alla vigilia della sua apertura ufficiale, è avvenuto con un intervento sul libro digitale. Durante la Buchmesse si svolgono tremiladuecento eventi di diverso tipo, in particolare conferenze e dibattiti in piccoli gruppi in quasi ogni angolo dei padiglioni. Circa cinquecento di questi eventi riguardano questioni digitali. In un contesto autorevole com'è la Fiera del Libro di Francoforte, il taglio interdisciplinare era imprescindibile. Tra l'altro, perché rappresenta un potente centro di attrazione e perché le possibilità di sinergie nell'industria editoriale si stanno notevolmente ampliando.
Non meno interessante, alla vigilia dell'apertura ufficiale, l'affanno degli editori che si davano da fare per allestire gli stand ed esporre i propri volumi, indubbiamente per un lecito interesse commerciale - ci troviamo infatti in un market place -, ma anche con il rispetto di chi espone un autentico tesoro, ossia il libro.
La cosiddetta "era digitale" e l'impulso dei social network non cambiano la realtà dell'incontro personale, anch'esso chiaramente promosso dalla Buchmesse. E i contatti qui si creano di persona, gli accordi si fanno con una stretta di mano.
Si conversa, molto e in molte lingue. A emergere sono il calore e la fiducia del contatto umano diretto. Su questo investono molto gli editori, recandosi di persona a Francoforte e portando con sé i loro agenti migliori. Forse con obiettivi molto chiari, sebbene alla Buchmesse risultino utili buone dosi di serendipidy. E si legge molto, e in molte lingue. L'invitato d'onore del 2011, l'Islanda, ha fatto del suo padiglione un complesso di schermi giganti dove vengono proiettati video di autori e lettori - anche bambini - sereni, circondati da nutrite biblioteche, che sfogliano libri senza distrarsi o leggono a voce alta. Un atteggiamento che assumono anche i visitatori - dal vivo - negli spazi adibiti alla lettura. Ovunque.
La questione digitale e multimediale è presente ed è futuro, ma affermare che è "il futuro" appare rischioso. È più auspicabile che il libro e il digitale si diano la mano nel creare supporti che contribuiscano alla diffusione della cultura, anche nelle regioni del pianeta che meno beneficiano dei progressi tecnologici. Dipende dagli editori di tutto il mondo riuscire a ottenere questo equilibrio maturo, come pure rispettare il permanere del libro nel formato classico e l'umanità che esso racchiude e trasmette nelle sue pagine, da una generazione all'altra.
Una celebre casa editrice tedesca ha dichiarato: "i nostri affari riguardano l'editoria", senza però rinunciare a stampare sulle sue buste per la Buchmesse: "Il libro non morirà mai".



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)
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Quanto è democratica la musica elettronica


di MARCELLO FILOTEI
La musica elettronica è oggi forse il modo più democratico per entrare nel mondo dell'arte. Basta un'apparecchiatura di costo modesto per produrre un prodotto professionale. Anche per questo all'Emufest, l'International Electroacoust Music Festival che si svolge da quattro anni al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, arrivano centinaia di brani da valutare. Alcune decine di questi vengono scelti dal direttore artistico Giorgio Nottoli assieme al comitato scientifico per essere programmati, tutti però finiscono in permanenza in un fondo presso la Biblioteca di Santa Cecilia. Nel corso delle otto giornate nelle quali si è articolata la manifestazione, che si conclude il 16, si sono tenuti sedici concerti, due al giorno, varie conferenze, convegni e alcuni eventi speciali. In particolare si è posto l'accento sullo stato della musica elettroacustica in tre nazioni: Stati Uniti, Inghilterra e Polonia. Ma la cosa più interessante che il festival offre è la possibilità di avere in pochi giorni un quadro di quello che succede nell'arte elettroacustica a livello mondiale, con il valore aggiunto di un sistema di diffusione ottofonico di eccezionale qualità. Nella musica elettronica lo spazio è una delle componenti di cui il compositore deve tenere conto. Sentire i suoni che si muovono attorno alla propria poltrona non è come ascoltare in cuffia. Al tempo, al timbro, alla struttura del pezzo, alle altezze utilizzate, alle dinamiche si aggiunge un elemento nuovo che risponde alla domanda: da dove arriva il suono? In questo caso, poi, c'è un ulteriore vantaggio: le otto casse posizionate attorno alla platea possono essere utilizzate anche per creare ambientazioni sonore alternative alla loro disposizione. In pratica capita di sentire il suono provenire da una parte in cui non c'è nessun diffusore. Questo grazie a un sofisticato sistema computerizzato che consente di creare ambienti sonori virtuali. Un esempio di eccellenza.



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)
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Istituito a Vienna assieme ad Austria e Spagna
Il centro per il dialogo
voluto dall'Arabia Saudita

VIENNA, 15. Si chiama "King Abdullah Bin Abdulaziz International Centre for Interreligious and Intercultural Dialogue" (Kaicid) ed è stato istituito giovedì scorso a Vienna dai ministri degli Esteri di Austria, Arabia Saudita e Spagna, i tre Paesi sostenitori. Un centro voluto e finanziato dall'Arabia Saudita, che porta il nome del suo re, con l'obiettivo di promuovere il dialogo e il rispetto reciproco fra tutte le religioni e le culture del mondo. Sarà finanziato da una fondazione "indipendente da qualsiasi influenza politica", ha assicurato il ministro saudita Saud al-Faisal bin Abdulaziz Al Saud, spiegando che il suo Paese "pagherà tutto ciò che è necessario poiché crede fortemente" nel Kaicid. Secondo il ministro degli Esteri austriaco, Michael Spindelegger, questo nuovo centro - che dovrebbe essere operativo a metà del 2012 - rappresenta "un contributo importante per prevenire e controllare i conflitti e per consolidare la pace". Soddisfazione è stata espressa anche dal ministro spagnolo, Trinidad Jiménez García-Herrera.
Alla firma dell'accordo era presente il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che ha dato il benvenuto al progetto, ricordando tuttavia che l'Arabia Saudita, al proprio interno, deve mostrare maggiore impegno in difesa della libertà religiosa. "Questi problemi esistono e devono essere risolti, non siamo ingenui", ha detto il porporato in un'intervista all'agenzia cattolica austriaca Kathpress, aggiungendo che nella nuova struttura non devono essere mischiate fede e politica. Il cardinale Tauran ha anche confermato che la Santa Sede ha intenzione di chiedere lo stato di osservatore all'interno del centro.
Alle polemiche che hanno preceduto la creazione del Kaicid - movimenti politici e associazioni hanno sottolineato come il centro sia finanziato da una nazione dove regna il wahhabismo e viene applicata strettamente la sharia, con fortissime limitazioni alla libertà delle fedi che non siano quella musulmana - il ministro degli Esteri saudita ha risposto che nell'atto fondatore del progetto si proclama chiaramente il diritto alla libertà di pensiero, di credo e di religione e vengono riaffermati i principi contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. "Non dobbiamo dar retta a quegli estremisti che affermano che dialogo e fede islamica non possono coesistere", ha spiegato Saud al-Faisal bin Abdulaziz Al Saud, ricordando le aperture mostrate negli ultimi tempi dal suo sovrano. In effetti re Abdullah, considerato un riformatore dai suoi sudditi, sta lentamente cercando di togliere alcune restrizioni presenti nella conservatrice società saudita: ha di recente decretato che le donne potranno presto votare e presentarsi, a partire dal 2015, come candidati alle elezioni dei consigli municipali; e ha promesso che delle donne verranno elette al Consiglio della Shura (un organismo consultivo).
L'istituto viennese dovrebbe essere guidato, per quanto riguarda l'aspetto religioso, da un consiglio comprendente fino a dodici rappresentanti di diverse confessioni: tre saranno i musulmani, tre i cristiani, mentre buddisti, induisti ed ebrei avranno almeno un membro ciascuno. Il suo scopo sarà favorire la comprensione e la cooperazione fra le persone, promuovere la giustizia, la pace e la riconciliazione, contrastare l'uso interessato della religione per giustificare l'oppressione, la violenza e il conflitto. Si impegna inoltre a favorire un modo responsabile di vivere la dimensione religiosa e spirituale degli individui e della società e a rispettare e a preservare il carattere sacro dei luoghi santi, così come i simboli religiosi. Da affrontare ci sono sfide che hanno a cuore la dignità della vita umana, la salvaguardia dell'ambiente, l'uso sostenibile delle risorse naturali, l'educazione etica e religiosa, la lotta contro la povertà. Il centro - che avrà sede a Palazzo Sturany e darà lavoro a trentacinque persone - servirà a riunire e a mettere a confronto Stati, organizzazioni internazionali, movimenti e associazioni.
"Nessuna delle religioni rappresentate sarà dominante", ha assicurato Spindelegger, garantendo l'imparzialità dell'organo direttivo. Una risposta, sottintesa, anche nei confronti del rabbino David Rosen, direttore internazionale degli Affari interreligiosi dell'American Jewish Committee, che, sentito dal quotidiano austriaco "Der Standard", ha criticato un'eventuale supervisione saudita della leadership dell'istituto viennese, chiedendo la "totale indipendenza" del centro.



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)
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Libro del cardinale Amato sul valore del confronto fraterno tra le religioni
Amici della verità

ROMA, 15. "Tutti vediamo gli stessi astri, il cielo è comune, ci accoglie lo stesso mondo. Che importa la forma con cui ognuno ricerca la verità? Non ci può essere una sola via per accedere a un sì grande mistero". Così, nel IV secolo, il senatore Simmaco nella sua celebre e appassionata difesa del relativismo religioso. Parole antiche, che ricorrentemente tornano d'attualità, anche se oggi se non si discute più degli onori da riservare alla dea Vittoria. Una visione assai presente in tanta parte della mentalità contemporanea che vorrebbe tutte le religioni vere, o almeno parzialmente vere, e quindi tutte intercambiabili. Se non che, tutte le religioni, non solo quella cristiana, hanno la pretesa di essere vere. E di avere l'esclusiva della verità.
È, nelle dimensioni, un piccolo libro questo realizzato dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Ciononostante, ha il grande pregio di focalizzare con precisione, e in modo essenziale, il nodo decisivo dei rapporti tra le grandi fedi e tradizioni religiose, dai quali spesso dipende la pace tra le nazioni e il futuro stesso dell'umanità (Dialogo interreligioso. Significato e valore, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pagine 58, euro 6). Nodo che è appunto quello della veridicità della fede. Una pretesa "eccessiva"? "Offensiva"? O almeno, senz'altro poco conveniente? Il porporato, anche attraverso un rapido excursus storico dell'atteggiamento che il cristianesimo ha avuto nel rapportarsi con le altre religioni, sottolinea, anche alla luce degli insegnamenti del Vaticano II, l'importanza di due binari, ben distinti e tuttavia tra loro complementari. Da una parte il "dialogo della carità", che implica "la collaborazione tra le religioni del mondo per il raggiungimento della pace tra le nazioni, per la difesa della natura e delle sue leggi, per la protezione della vita soprattutto dei più deboli, per la solidarietà nei beni della terra, per la tutela della libertà di ogni persona umana, soprattutto della libertà religiosa, per l'affermazione della giustizia". Insomma, un binario che si "spalanca su un orizzonte sconfinato come è sconfinata la carità di Dio, infusa nei nostri cuori", La seconda articolazione riguarda, appunto, il "dialogo della verità", che implica "la libertà di confrontarsi sui contenuti delle proprie convinzioni religiose, nel rispetto dell'altrui coscienza e nel riconoscimento della sincerità dell'interlocutore". Si tratta di un dialogo "difficile" che "non mira a una religione universale con un minimo comune denominatore", ma che "spinge gli interlocutori a esplicitare le caratteristiche essenziali delle loro credenze religiose".
Nel dare corso al suo ragionamento, il porporato parte da un'affermazione contenuta nella Dominus Jesus, la nota dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede circa l'unicità e l'universalità salvifica di Cristo e della Chiesa: "Nella pratica e nell'approfondimento teorico del dialogo tra la fede cristiana e le altre tradizioni religiose sorgono domande nuove, alle quali si cerca di far fronte percorrendo nuove piste di ricerca, avanzando proposte e suggerendo comportamenti che abbisognano di accurato discernimento". In sostanza occorre "superare le teorie dell'esclusivismo, dell'inclusivismo e del relativismo" e puntare invece su una duplice direzione. In concreto evitare un dialogo "generico", che "non tenga conto della specifica identità di ogni interlocutore". E, contemporaneamente puntare sui "contenuti essenziali" delle diverse credenze. "Il dialogo della verità deve confrontarsi in concreto sulle convinzioni religiose, etiche, educative, politiche e culturali, in una parola, sul nocciolo duro dell'identità religiosa dell'interlocutore". E ciò suppone un'approfondita conoscenza della propria fede e anche un'informazione sulle credenze altrui il più completa possibile. Dunque, il dialogo interreligioso non è qualcosa che si può improvvisare.
E, tuttavia, non è ancora questa la difficoltà maggiore. Nella cultura postmoderna, infatti, la questione della verità appare come una "sfida controcorrente". Poiché l'uomo contemporaneo "raramente s'interroga sulla verità, ma assume un atteggiamento equidistante: le religioni sono tutte parzialmente vere, quindi tutte intercambiabili, quindi nessuna è vera". Quello che occorre è dunque un deciso cambiamento di direzione. E la lezione che cinque anni fa Benedetto XVI tenne all'università di Ratisbona "può essere considerata come l'inizio di un nuovo atteggiamento". Un atto che "esce dagli schemi ristretti di un dialogo diplomatico, di un dialogue de bureau disattento alle conseguenze di un dialogo virtuale avulso dalla realtà, per entrare nel vivo di un dialogue de vérité et de vie, che metta in gioco l'esistenza stessa degli interlocutori nella globalità e nella complessità del loro progetto di realizzazione umana e religiosa". Un atteggiamento che, da parte cristiana, proprio perché mosso dalla volontà di "far conoscere l'amore di Cristo per la salvezza dell'umanità intera", tenga fermi i "quattro principi della verità, della libertà, della carità e del rispetto reciproco". Poiché "non si tratta di raggiungere un compromesso, né di intavolare una trattativa diplomatica. Si tratta di mantenere un corretto atteggiamento di prossimità dialogica, che lasci alla grazia di Dio di diffondersi nei cuori e nelle menti dell'umanità intera". (fabrizio contessa)



(©L'Osservatore Romano 16 ottobre 2011)

Monday, October 10, 2011

Missioni e colonialismo

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Il film che il papa predilige: "Mission"
Nell'Ottocento la Chiesa cattolica reagì all'offensiva laicista in Europa con una spettacolare espansione missionaria negli altri continenti. Benedetto XVI vuole che il miracolo si rinnovi oggi. Il suo prossimo viaggio: in Africa

di Sandro Magister





ROMA, 10 ottobre 2011 – Tra quaranta giorni Benedetto XVI farà una puntata in Africa, nel Benin.

L'Africa subsahariana è il continente che nell'ultimo secolo ha registrato il più impressionante aumento dei cristiani. Erano 7 milioni nel 1900, sono 470 milioni oggi. Di essi, più di 170 milioni appartengono alla Chiesa cattolica.

Il 20 novembre, a Cotonou, papa Joseph Ratzinger firmerà l'esortazione apostolica scaturita dal sinodo speciale del 2009 dedicato all'Africa, e la consegnerà ai rappresentanti dei vescovi del continente.

In un pontificato che vuole dare slancio a una "nuova evangelizzazione" soprattutto nelle regioni di antica presenza della Chiesa oggi scristianizzate, continua infatti a essere viva anche la volontà di annunciare la fede cristiana là dove essa non è mai arrivata.

Non è la prima volta che la Chiesa cattolica risponde così – con un rinnovato slancio missionario "fino ai confini della terra" – all'offensiva di una cultura che erode la fede nei paesi di antica cristianità.

Nel saggio riportato più sotto, lo storico Gianpaolo Romanato mostra come l'ultima grande espansione missionaria della Chiesa cattolica in Africa, in Asia e in Oceania sia avvenuta proprio dopo la Rivoluzione francese e in reazione all'incalzare in Europa di una cultura e di poteri ostili al cristianesimo.

Oggi, tuttavia, dentro la stessa Chiesa c'è chi avanza delle obiezioni contro il riandare in missione "secondo il vecchio stile". Benedetto XVI, nel discorso prenatalizio alla curia romana del 21 dicembre 2007, riassunse così tali obiezioni:

"È lecito ancora oggi 'evangelizzare'? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo?".

Il papa rispose che sì, è giusta un'azione comune tra le diverse religioni "in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale". E a questo dedicherà l'incontro di preghiera ad Assisi del prossimo 27 ottobre.

Ma aggiunse subito che ciò non vieta – anzi! – che Gesù sia annunciato a tutti i popoli:

"Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. [...] In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, 'la' grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa".

Ma ritorniamo all'epopea missionaria dell'Ottocento. Il profilo che ne traccia Romanato può essere una lezione anche per i cattolici d'oggi. Da un evento – l'offensiva laicista – che la Chiesa di quel tempo giudicò catastrofico scaturì un'espansione straordinaria della fede cristiana nel mondo.

Romanato insegna storia contemporanea all'Università di Padova e si definisce "uno studioso laico che è abituato a ragionare laicamente".

Ha letto questa sua relazione a un convegno a Subiaco, il 6 ottobre 2011. E lo stesso giorno "L'Osservatore Romano" l'ha pubblicata.

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PRIMAVERA MISSIONARIA

di Gianpaolo Romanato


Le missioni furono la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa dell'Ottocento.

Scoperta perché la missione in età postrivoluzionaria, rivolta ai popoli nuovi di Africa, Oceania, Asia e delle due Americhe, non garantita dalle strutture del patronato statale in vigore nell’ancien régime, fu sostanzialmente diversa da quella del periodo prerivoluzionario.

Speranza perché di fronte al nuovo nemico rappresentato dalla modernità e dall’organizzazione dello Stato liberale, la conquista di popolazioni sconosciute e mai toccate dal cristianesimo apparve come una nuova frontiera, un’imprevista possibilità di rifondazione del messaggio cristiano, una rivincita dopo le ripetute sconfitte patite in Europa.

Questa proiezione missionaria avvenne sotto l’egida della più rigida cultura controrivoluzionaria, a partire dal papa che per primo se ne fece interprete e banditore, Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Cappellari, monaco camaldolese originario di Belluno, che prima dell’elezione era stato per cinque anni prefetto di Propaganda Fide.

Egli, mentre impostò con le encicliche "Mirari vos" (1832) e "Singulari nos" (1834) le linee portanti di quella che per un cinquantennio sarebbe rimasta l’intransigenza cattolica antimoderna, avviò anche la rinascita delle missioni con una serie di iniziative che vanno dalla fondazione di quarantaquattro vicariati apostolici nelle terre nuove alla promulgazione dell’enciclica "Probe nostis" (1840), il manifesto della nuova missionarietà.

La cosiddetta "primavera missionaria" ottocentesca nasce così da radici culturali opposte a quelle della modernità.

Che lo slancio della Chiesa verso i popoli nuovi derivasse da un desiderio di rivalsa nei confronti dell’ondata laicizzatrice liberale dilagante in Europa, emerge dalle parole stesse di papa Gregorio XVI. L’enciclica iniziava, infatti, ricordando le "sventure" che opprimevano la Chiesa "da ogni parte", gli "errori" che ne minacciavano la sopravvivenza. Ma, "mentre per un verso dobbiamo piangere – scriveva il papa – dall’altra parte dobbiamo rallegrarci dei frequenti trionfi delle missioni apostoliche", trionfi che dovrebbero suscitare "maggiore vergogna" in "coloro che la perseguitano". Questa contrapposizione diventerà uno dei fili conduttori della storia missionaria, conficcata fin dall’inizio nel più tipico filone intransigente, controrivoluzionario.

Ma non solo la cultura missionaria, bensì anche il personale che la realizzò provenne da una cultura fondamentalmente "ultramontana", di scontro, estranea al mito ottocentesco della nazione che fu invece uno dei grandi alvei in cui si sviluppò la rivoluzione della modernità, di cui il colonialismo ottocentesco fu una delle espressioni.

È importante tenere presente questo sfondo intellettuale e teologico, che conferma, se ce n’è bisogno, la complessità e l’imprevedibilità della storia. Nel caso di cui ci stiamo occupando la novità non è figlia della rivoluzione ma della reazione, cioè di una cultura che normalmente non apre al futuro ma induce a rifugiarsi nel passato. L’elemento vincente della cultura missionaria fu, infatti, proprio la sua estraneità al mito della nazione.


UNIVERSALISMO CRISTIANO


I missionari che sciamarono per il mondo possedevano molto più il senso della Chiesa che il senso della patria. Si sentivano figli e difensori di una Chiesa perseguitata e costretta sulla difensiva dal liberalismo, dalle rivoluzioni nazionali. Ciò accentuò la loro estraneità rispetto alle idee politiche ottocentesche e rafforzò l’identificazione con l’universalismo cristiano. Le missioni non nascono italiane, francesi o tedesche, nascono cattoliche, figlie di una Chiesa ricompattata attorno a Roma e ormai distaccata dalle vecchie Chiese nazionali prerivoluzionarie, nascono in rotta di collisione con quegli ideali di grandezza e di potenza che mossero le potenze europee a conquistare e ad annettere i continenti nuovi.

Queste considerazioni valgono in particolare per i missionari italiani, quelli più vicini, anche geograficamente, a Roma e al nuovo spirito della cattolicità.

Il missionario italiano si sentì prevalentemente uomo di Chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali. Negli istituti italiani sorti nel XIX secolo e dediti esclusivamente ad attività missionaria – dalle missioni africane di Verona fondate da Daniele Comboni al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), dai saveriani ai missionari della Consolata – l’ideologia nazionale, o nazionalistica, è quasi inesistente. Predomina invece l’ansia apostolica, che diventa più forte e impellente quanto più le vicende politiche italiane sembrano riservare alla Chiesa in Italia un futuro incerto e difficile.

Sono proprio queste difficoltà che rafforzano il loro senso di appartenenza alla Chiesa, al di sopra del sentimento patriottico, il desiderio di aprirle strade nuove presso popoli lontani, non ancora toccati dal cristianesimo, l’ansia di trovare una "missione vergine" dove il Vangelo non fosse ancora arrivato, e fosse possibile predicarlo senza contaminarlo con interessi politici, ideologici.

Nelle "Regole" del PIME è detto che "l’Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie tra le popolazioni più derelitte e più barbare". La speranza e l’ideale di questi istituti è quello di rifondare il cristianesimo il più lontano possibile dalla vecchia Europa, dalle sue divisioni e dai suoi interessi.

Analoga l’intenzione di Comboni, che imitò l’istituto lombardo pensando esclusivamente all’Africa come alla "più infelice e certo la più abbandonata parte del mondo". In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l’opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici. La missione "deve essere cattolica, non già spagnola, o francese o tedesca o italiana", non si stancava di ripetere. Egli conosceva perfettamente le associazioni e gli istituti missionari europei, per averli visitati e frequentati, e lamentava che in Francia "lo spirito di Dio" fosse ancora troppo condizionato dallo "spirito di nazione".

Ma neppure in Francia il condizionamento della nazionalità impedì di vedere chiaramente che le missioni dovevano tenersi lontane dalla politica degli Stati cui appartenevano i missionari, come scrisse con grande lucidità il superiore francese della missione in Eritrea al governatore Ferdinando Martini, quando si stava preparando l’espulsione di missionari transalpini dalla nostra colonia: "Per noi non esiste che una sola parola: la Missione Cattolica, siano i membri che la compongono francesi, italiani, tedeschi o inglesi".


TRA MISSIONE E COLONIZZAZIONE


L’intreccio fra missione e colonialismo è complesso. I due fenomeni sono paralleli, contemporanei e interdipendenti, tanto in età moderna quanto in età contemporanea.

In età moderna i missionari giungono nelle Americhe e in Asia sulle navi dei colonizzatori, protetti dalle medesime leggi, imbrigliati nei vincoli del patronato statale. E la situazione non è diversa nelle aree del globo, in particolare il Nord America oggi canadese, all'epoca sotto controllo francese. Ma tanto la Santa Sede quanto gli ordini religiosi impegnati nelle missioni non tardano a entrare in conflitto con il potere politico e a cercare spazi di autonomia.

Roma fonderà la potente congregazione di Propaganda Fide, nel 1622, proprio allo scopo di riportare, dovunque fosse possibile, le missioni sotto il controllo ecclesiastico, anche tramite abili espedienti canonici come l’istituto dei vicari apostolici, vescovi dipendenti direttamente da Roma, vescovi cioè "in partibus", che rispondevano del loro operato alla sede apostolica e non all’autorità politica.

I vicari apostolici furono utilizzati in particolare nel tentativo di aggirare il patronato portoghese. Nel caso del patronato spagnolo il modo per sfuggire al vincolo statale consistette nell’avvio di esperimenti di evangelizzazione svincolati dalla giurisdizione della corona di Madrid, in territori posti fuori o ai margini dalla sua giurisdizione.

In questo secondo caso va ricordato l’esperimento delle Riduzioni fra i guaraní del Paraguay (ma in realtà allargato anche ad altre aree e popolazioni sudamericane). Le Riduzioni erano missioni totalmente sotto controllo della Compagnia di Gesù, sulle quali la corona di Spagna non aveva quasi nessun potere. Sappiamo però che esse crollarono quando Spagna e Portogallo riordinarono i confini e privarono le missioni degli spazi di autonomia di cui avevano goduto per un secolo e mezzo. Non sempre Propaganda Fide riuscì a realizzare gli intendimenti per cui era sorta, neppure con l’espediente dei vicari apostolici.

Per tutta l’età moderna, insomma, missione e colonizzazione vissero una difficile coabitazione, spesso conflittuale.

In età contemporanea notiamo caratteristiche analoghe. Missioni e colonie vanno insieme, sia pure con sfasature non prive di importanza. In genere la missione precede la colonia e spesso si dirige in territori estranei o ai margini della colonizzazione: l’Oceania dove operò il PIME, la Patagonia dove si insediarono i salesiani.

Ma le coincidenze, nonostante queste sfasature, non devono impedirci di notare le diversità.

Nell'Ottocento e nel Novecento i missionari imparano le lingue locali, operano non sovrapponendosi alle culture autoctone ma penetrandole dall’interno, favoriscono la nascita di clero e gerarchie locali, seguendo le direttive romane emanate fin dalla famosa Iistruzione ai vicari apostolici del Tonchino del lontano 1659 – un documento pontificio lungimirante, più citato che conosciuto –, ribadite in tutte le successive direttive pontificie e riprese dalla enciclica "Maximum illud" di Benedetto XV del 1919. Mentre la colonia è una conquista di territori, spazi e risorse, un’operazione di potere, la missione è un tentativo di innesto del cristianesimo senza alterare le culture locali.

Non sempre l’operazione fu portata avanti con la necessaria chiarezza, ma l’intenzione era questa. Comboni dirà che la presenza missionaria nella "Nigrizia" – come si definiva allora l’Africa – doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove esiste oggi una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. "Salvare l’Africa con l’Africa" fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via.

Se osserviamo a posteriori la storia del colonialismo europeo, notiamo più chiaramente la differenza fra colonialismo e missione. Il colonialismo è esploso lasciando macerie che hanno devastato, e continuano a devastare, i continenti extra-europei. La missione non è esplosa, è sopravvissuta all’età coloniale, si è trasformata e ha dato vita alle cosiddette giovani Chiese, con clero e gerarchia indigeni.

Oggi nel sacro collegio sono presenti decine di cardinali provenienti da Paesi africani o asiatici che furono colonie fino al secondo dopoguerra. Le missioni sono servite a dilatare il cattolicesimo su scala planetaria e a inculturarlo nei popoli nuovi.

Sunday, October 09, 2011

Steve Jobs e i gesuiti

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