Tuesday, August 28, 2012

Abstract: Problemi salienti del rapporto Vangelo-cultura in Giappone


Problemi salienti del rapporto Vangelo-cultura in Giappone (Andrea Bonazzi)

Abstract

Il deficit di inculturazione e di propagazione del Vangelo nel contesto delle millenarie culture dell'Estremo Oriente e' evidente anche a occhio nudo. Si tratta di vedere se, per recuperare il ritardo, sia praticabile la scorciatoia della "de-ellenizzazione" del Cristianesimo. Se, per esempio, sia possibile sostituire una visione confuciana o taoista del mondo a una aristotelica o illuminista. Oppure, se sia ipotizzabile una forma di vita ecclesiale che trae la sua origine direttamente dalla Parola senza passare attraverso le mediazioni dello “sviluppo dogmatico”. Se sia possible ottenere in laboratorio un distillato di Vangelo che, poi, si puo’ seminare nei piu’ svariati terreni. Se, in analogia con la “globalizzazione”, si puo’ pensare ad una Chiesa Cattolica “multipolare”; in quel contesto le chiese particcolari che tipo di rapporto avrebbero con la Chiesa universale. La “multipolarita” delle sfere culturali e l’unita’ della fede come si possono coniugare.
Anche se è vero che la Chiesa "non è legata ad alcuna cultura particolare" e che la Chiesa e il Vangelo devono "spogliarsi di tutti gli elementi e tratti culturali non essenziali”, dall'altro lato ci si deve assicurare che il messaggio evangelico non sia isolato dalla cultura in cui deve essere inserito. Giovanni Paolo II, ad esempio, nella esortazione Catechesi Tradendae, afferma che il messaggio evangelico non è puramente e semplicemente isolabile dalla cultura, nella quale esso si è da principio inserito, e neppure è isolabile, “senza un grave depauperamento”, dalle culture, in cui si è già espresso nel corso dei secoli.
Questi e altri vari problemi che si prospettano vanno indagati accuratamente dal punto di vista della Rivelazione e del Magistero, ma anche nel contesto specifico delle culture locali. Come dice Confucio: "Sapiens est universalis et non factiosus; vulgaris homo privati affectus, non universali benevolentiae homo" (Dissertae Sententiae, 2, XIV).

Problemi salienti del rapporto Vangelo-cultura in Giappone De-ellenizzazione e teologie asiatiche


テキスト ボックス: EVANGELIZZAZIONE E TEOLOGIA IN ASIA -  Bologna  30/XI~1/XII  2010 



Problemi salienti del rapporto Vangelo-cultura in Giappone
De-ellenizzazione e teologie asiatiche

Bonazzi Andrea


“Kunshi ha Shu ni shite Hi sezu,
Shoujin ha Hi ni shite Shu sezu”[1]

De-ellenizzazione è un termine usato per indicare il rifiuto della filosofia classica greca nella civiltà occidentale. Papa Benedetto XVI in particolare ha utilizzato questo concetto nella conferenza all’universita’ di Ratisbona nel 2006. Papa Benedetto XVI considera il processo di de-ellenizzazione come manifestatosi in varie fasi. La prima fase ha avuto luogo durante la Riforma, quando i riformatori hanno considerato la Chiesa come troppo fortemente influenzata dalla filosofia e hanno sviluppato l'insegnamento della sola scriptura, nel tentativo di ridurre questa influenza. La seconda fase si e’ vista nella teologia liberale del XIX e XX secolo (ad esempio, Adolf von Harnack), che ha cercato di secolarizzare il cristianesimo, eliminando da esso molti elementi teologici e filosofici. La terza fase, ispirata dal pluralismo culturale, e che ora è in corso, mira a rendere il cristianesimo più disponibile a culture diverse eliminando  influenze che, come la filosofia greca, non sono considerati parte integrante di esso, ma un accidente storico. In questo modo, al posto della filosofia greca, altri elementi culturali vengono considerati partner priviligiati per il lavoro teologico.
 I missionari nella loro predicazione avrebbe costretto gli ascoltatori ad assorbire concetti della cultura ellenica, così spesso il problema viene evocato, creando una sorta di “cristianesimo importato”, che è poco attraente per i popoli dell'Asia. Come esempio di questa posizione, cito una parte dell’intervento che l'arcivescovo di Nagasaki Francis Kaname Shimamoto, ha fatto nella quarta sessione del Sinodo dei Vescovi per l'Asia:

"Anche se il cristianesimo non è legato a nessuna cultura particolare, non si può ignorare la cultura del popolo a cui il Vangelo è predicato. Nel continente asiatico, il cristianesimo è ancora in qualche modo vestito di cultura europea. Nel contesto culturale asiatico, l'evangelizzazione progredisce quindi necessariamente in congiunzione con la graduale soppressione delle caratteristiche culturali europee. Questo processo, chiamato con il neologismo "inculturazione", è inevitabile per l'evangelizzazione, in caso contrario, il cristianesimo sarebbe sempre una religione ‘straniera’ per i popoli asiatici".[2]
Allo stesso Sinodo, l'arcivescovo di Osaka Leone Jun Ikenaga, ha messo in contrasto la cultura ocidentale  e le culture asiatiche. Questo contrasto metterebbe in evidenza, almeno questa e’ la pretesa, le ragioni per cui molti asiatici sentono la Chiesa come ‘straniera’:

"In India, che è, ovviamente, Asia Occidentale, il lavoro missionario, ci viene detto, risale ai tempi apostolici. Eppure, questa evangelizzazione a tutt’oggi, ha fatto pochi progressi. I battesimi sono pochi, e forse più importante, il pensiero cristiano non è entrato nella corrente principale della società asiatica. La causa non è solo la differenza culturale, ci sono anche le differenze nel cuore umano. Cresciuto in Europa, il cristianesimo occidentale fa una netta distinzione tra Dio e l'universo, paradiso e inferno. Sottolinea l'aspetto paterno di Dio. I popoli dell'Asia hanno una mentalità panteistica, credono nella trasmigrazione delle anime, sono attirati dal pensiero della misericordia di Dio che abbraccia tutti".[3]

E' possibile affermare che alcuni elementi culturali, che sono validi per una data cultura, in particolare quelli della cultura occidentale, non sono validi per altri contesti culturali?[4] Anche se è vero che la Chiesa "non è legata ad alcuna cultura particolare" è difficile vedere come queste due asserzioni possano essere conciliate: da un lato la Chiesa e il Vangelo devono "spogliarsi di tutti gli elementi e tratti culturali non essenziali”, mentre dall'altro lato ci si deve assicurare che il messaggio evangelico non sia isolato dalla cultura in cui deve essere inserito. Giovanni Paolo II nella esortazione Catechesi Tradendae, afferma che il messaggio evangelico non è puramente e semplicemente isolabile dalla cultura, nella quale esso si è da principio inserito, e neppure è isolabile, “senza un grave depauperamento”, dalle culture, in cui si è già espresso nel corso dei secoli.

Non e’ forse il caso di pensare che un dialogo tra culture, come è richiesto da un un processo di inculturazione, comporta l'affermazione che almeno alcuni degli elementi di ogni cultura genuinamente umana hanno un carattere universale? E se questo e’ vero di ogni cultura non e’ forse vero anche per il patrimonio culturale della Chiesa?
 Se diamo per scontato il fatto che l'uomo potrebbe essere descritto come il punto d'incontro di diversi cromosomi, come l'effetto delle influenze ricevute nell’educazione, e nel contesto sociale, o di determinate strutture linguistiche, dobbiamo concludere che l'uomo è il prodotto di una storia, di una situazione geografica, economica e politica, di un contesto culturale? Oppure con Paolo VI possiamo dire: "il cristiano [...] afferma che l'uomo va al di là di tutti gli avatar dell’ esistenza, e che una certa idea di uomo trascende tutte le analisi scientifiche"[5].

 In questo modo Paolo VI afferma l'esistenza di una natura umana che, per definizione, è comune a tutti gli esseri umani, e che non cambia nelle sue componenti essenziali con il passare del tempo o per l'influenza delle circostanze locali. E' possibile dedurre questa affermazione, per esempio, dai riferimenti che il papa fa alla legge naturale. Ogni volta che Paolo VI parla di legge naturale, ne parla come se la natura umana fosse qualcosa di comune a tutti gli esseri umani. La legge naturale, in effetti, proprio perche’ non è una legge scritta ma è una legge iscritta nel cuore umano, corrisponde alla natura umana. Per cui la legge naturale è comune a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro educazione, istruzione, ambiente culturale o di condizionamento storico.
L’allora Cardinale Ratzinger cosi’ si esprime sull'incontro tra fede e cultura: «Si potrebbe pensare che la cultura è sempre l'attività di una singola entità culturale (Germania, Francia, America, e così via), mentre la fede è semplicemente alla ricerca di una espressione culturale. Le diverse culture dovrebbero quindi, per così dire, fornire alla fede un corpo culturale. La fede, in questo caso, sarebbe vissuta solo attraverso le culture prese in prestito, in questo modo, però, tutte le culture rimangono in qualche modo esterne alla fede cosi’ che potrebbe venirne spogliata di nuovo. Soprattutto, nessuna di queste forme culturali prese in prestito non ha nessuna rilevanza per le persone che vivono in una qualsiasi delle altre culture. Universalità sarebbe, quindi, in ultima analisi, una finzione. Questo modo di pensare è fondamentalmente manicheo: riduce la cultura a una mera incarnazione intercambiabile; la fede è smaterializzata in un mero spirito, in ultima analisi priva di realtà. Una tale concezione è, naturalmente, tipica della spiritualità post-illuminista. La cultura è relegata ad una mera forma esteriore, e la religione ad una mera sensazione inesprimibile o in pensiero puro ".[6]
Ratzinger elabora ulteriormente sull’incontro fra il cristianesimo e una cultura non-evangelizzazata: "nell'incontro fra la fede con la sua cultura e un'altra cultura finora estranea, non si può dare il caso che questa dualità culturale venga tolta ne’ da un lato ne’ dall'altro. Il sacrificio del proprio patrimonio culturale in favore di un cristianesimo senza particolare colorazione umana o la scomparsa delle caratteristiche culturali della fede nella nuova cultura sono altrettanto sbagliati. E' la tensione stessa che è produttiva, perche’ rinnova la fede e guarisce la cultura. Sarebbe pertanto assurdo offrire un cristianesimo che è stato, per così dire, preculturale o deculturalizzato, in questo modo il cristianesimo sarebbe privato della sua forza storica e ridotto ad una vuota raccolta di idee ".[7]
La posizione che sostiene che i diversi ambiti culturali sono così radicalmente diversi da essere inconciliabili tra di loro è un postulato non dimostrato. Ai teologi che fissano una netta distinzione, anzi la separazione, tra l'Occidente e gli altri contesti culturali, le diverse culture devono sembrare cosi’ diverse, infatti, da essere incomunicabili tra loro. Secondo questi autori, ciò che è ritenuto essere vero in Occidente non può essere applicato ad altri contesti culturali. Alla base di questa posizione c'è una concezione filosofica che alla fin fine non tiene in debita considerazione l'universalità e l'immutabilità della natura umana, né presta sufficiente attenzione alla capacità umana di conoscere una verità oggettiva.
 "L'inculturazione assume così la potenziale universalità di ogni cultura. Presuppone che la stessa natura umana è al lavoro in tutte le culture e che ci sia una verità comune all’ umanità che vive all'interno di quella natura umana e che aspira all’unita’. Per dirla in altro modo, l'intenzione di inculturare ha senso solo se nessun danno viene fatto alla cultura dal modo in cui, attraverso la direzione comune impartita dalla verità dell'umanità, viene aperta e ulteriormente sviluppata da una nuova forza. Qualunque siano gli elementi in una data cultura che escludono tale apertura e scambio culturale, essi rappresentano ciò che è insufficiente in quella cultura, perche’ cio’ che causa esclusione di ciò che è diverso è contrario alla natura umana. Il livello di sviluppo di una cultura si manifesta nella sua apertura, nella sua capacità di dare e ricevere, nella sua capacita’ a svilupparsi ulteriormente, a lasciarsi purificare e quindi ad adattarsi meglio alla verità e all'uomo ."  «L’ incontro di culture è possibile perché l'uomo, al di la’ della varietà della sua storia, delle sue strutture sociali e dei costumi, è un unico e medesimo essere. Questo essere, l’uomo, è però toccato e colpito nel più profondo della sua esistenza dalla verità stessa. L'apertura fondamentale di tutti gli uomini agli altri, e l'accordo nelle cose essenziali che si ritrovano anche tra quelle culture che sono lontano le une dalle altre, può essere spiegato solo dal modo nascosto in cui le nostre anime sono state toccate dalla verita’".[8]
La fede cristiana non coinvolge le persone umane solo in parte, ma nella totalità del loro essere. E' proprio del comportamento umano avere alla base delle proprie azioni idee, principi e norme peculiari, perché sono proprio le idee che danno forma alla vita. In breve, ciò che dà alle persone un senso di orientamento nella vita è la conoscenza. Quindi, il desiderio di conoscere la verità su se stessi e sul mondo è una caratteristica specifica della vita umana. La Rivelazione è il dono di Dio per noi che ci fornisce la conoscenza delle verità fondamentali della vita, e la fede è la nostra risposta a tale Rivelazione. 
Tra le diverse manifestazioni del rapporto tra il contenuto della Rivelazione e della cultura, la teologia ha un posto d'onore. La teologia, in effetti, è la comprensione ragionata della Rivelazione[9]. Ci sono molti punti di incontro tra la rivelazione cristiana e la cultura umana, come l'arte, l’educazione civica, l’economia e le istituzioni politiche, così come tanti altri aspetti della vita umana di minore importanza come, per esempio, il modo in cui ci si organizza nel lavoro e nel divertimento, modi diversi di parlare, i tipi di umorismo, e alter cose simili. Tuttavia, nessuna di queste espressioni della cultura umana ha la stessa rilevanza che ha la teologia cristiana per via del pensiero che è coinvolto in questa disciplina. Correttamente intesa, dunque, la teologia è l'espressione più alta dell'incontro tra la cultura e la Rivelazione.

Principi filosofici e teologici

Prendiamo in considerazione ciò che Paolo VI ha dichiarato sui principi filosofici da utilizzare in teologia. Secondo il Papa, ciò che rende certi principi filosofici e culturali accettabili è la loro compatibilità con la fede, la loro veridicità, e quindi la loro universalità:

“Mentre, infatti, Aristotele e altri filosofi erano e sono accettabili — salvo le necessarie
correzioni particolari — per l’universalità dei loro principii, il loro rispetto della realtà oggettiva e il loro riconoscimento di un Dio distinto dal mondo, non altrettanto si può dire di ogni filosofia o concezione scientifica, i cui principii fondamentali siano inconciliabili con la fede religiosa, vuoi per il monismo su cui si basano, vuoi per la loro chiusura alla trascendenza, o il loro soggettivismo o agnosticismo. Purtroppo non pochi sistemi moderni si trovano in questa posizione di irriducibilità radicale alla fede cristiana e alla teologia” [10].

James Schall dice che queste idee su Dio e l'universo non sono primariamente "occidentali". Queste idee, nella loro formulazione, sono andate formandosi sotto l'impulso della Rivelazione stessa, nello sforzo di capire ciò che e’ e ciò che non è stato trasmesso agli esseri umani. Inoltre, alcune di queste idee non sono "occidentali" in quanto tali. I Greci e gli stessi Romani, con il loro background filosofico, hanno trovato un certo tipo di idee già prevalenti in Africa o in Asia ed hanno dovuto lottare con esse per venirne a capo. Anche se il chiarimento di queste idee è stato formulato nella Chiesa, la risoluzione dei problemi è venuta non solo con la filosofia occidentale, ma attraverso un incontro-scontro tra la filosofia orientale e occidentale sotto l'impulso della Rivelazione. 
Schall illustra la sua tesi con un esempio. Quando la tecnologia "occidentale” viene uasata da, per esempio, degli asiatici, non è perché è occidentale, ma perché funziona, cioè, perché è qualcosa di universale e puo’ essere messa in relazione a tutte le culture e perche’ chiunque la può imparare. In realtà, la possibilità stessa della scienza ha le sue radici storiche in alcuni principi teologici, in particolare quelli sulla stabilità delle cause seconde e l'idea di creazione dal nulla; questi principi vengono dalla teologia occidentale, ma sono di portata universale.
 Ciò che è vero della scienza è vero anche per le formule dogmatiche della Chiesa. Infatti, le formule usate dalla Chiesa per esprimere il contenuto del deposito di fede "non sono semplicemente espressioni 'occidentali', ma espressioni della mente umana che ha lottato con le questioni ultime in vista di fornire con la  maggior chiarezza possibile una conoscenza delle cose più importanti. L'impulso a realizzare formule corrette, quindi, non e’ del tutto filosofico in origine, anche se i suoi risultati sono stati strumentali per la correzione e lo sviluppo della filosofia. 
Vale a dire, c'è qualcosa di universale, non solo culturale, in queste formule.”
 Se il cristianesimo ha un carattere missionario pronunciato, Schall continua, non è perché è qualcosa di "specifico" per certi periodi storici o aree geografiche, ma perché, essendo nato in un determinato luogo, esso è destinato a essere un catalizzatore per tutte le culture, orientali e occidentali, del Nord e del Sud, in modo che certe idee precise su Dio e la sua venuta nel mondo possa essere stabilita in ogni cultura. Lo scopo del dialogo inter-culturale, dunque, non è semplicemente quello di affermare l'unicità di ogni cultura, ma di collocare la comprensione di ogni cultura ha di sé e del mondo davanti alla Rivelazione. Può ben risultare impossibile che tutte le idee e pratiche culturali di ogni società vengano correlate in modo coerente con la Rivelazione in modo tale che la compresione del mondo rimanga come e’ sempre stata. Quando Paolo VI nella Evangelii nuntiandi descrive come l'evangelizzazione delle culture come uno sconvolgimento, ha messo in chiaro che, l’accoglimento della Rivelazione e l'evangelizzazione, implicano cambiamenti culturali. D'altra parte, il Papa ha fornito un parametro che è legato alla accettazione della fede, come pure delle formule, anche quando sono difficili. La fede, ha detto, " deve essere accettata nella sua genuina e originaria e autorizzata formulazione, anche se difficile, anche se difforme dalla psicologia di chi la ascolta, anche se misteriosa (cfr. S. TH., Summa contra Gentes, 4, 76). "[11]

Il sottostante problema del relativismo

L'"aggiornamento" per cui il Concilio Vaticano II e’ stato convocato, ha detto il Pontefice, deve essere prodotto dallo Spirito Santo e non da un relativistica deferenza alla storia che passa. Più e più volte Paolo VI ha parlato della pressante "tentazione" del relativismo storico:

“[I]n alcuni l’uso del pensiero si modella sulla storia, ch’è ancora il tempo, che muta e che passa, e si contenta di affermare ciò che oggi pare vero, ma che domani forse cambierà: è il relativismo storico, che assorbe molti spiriti, pur tanto nobili e intelligenti, e che si affaccia talora anche a certi cenacoli di studiosi di questioni religiose e li distacca, insensibilmente ma gravemente qualche volta, dalla fede genuina di Cristo e della Chiesa”[12]

Anche se è importante fare le riforme necessarie prendendo in considerazione i cambiamenti culturali, o i cambiamenti che avvengono a livello personale o nelle strutture psicologiche collettive dei popoli, questo non dovrebbe portare ad un relativismo storico. Questo atteggiamento relativistico nasce da una "superficiale e quasi servile accettazione delle filosofie di moda", che disturbano il nostro modo umano di conoscere la verità, e che ci fanno dubitare anche la validità dei principi fondamentali della ragione come ha detto il Papa in Colombia:

“[E]stamos tentados de historicismo, de relativismo, de subjetivismo, de neo-positivismo, que en el campo de la fe crean un espíritu de crítica subversiva y una falsa persuasión de que para atraer y evangelizar a los hombres de nuestro tiempo, tenemos que renunciar al patrimonio doctrinal, acumulado durante siglos por el magisterio de la Iglesia, y de que podemos modelar, no en virtud de una mejor claridad de expresión sino de un cambio del contenido dogmático, un cristianismo nuevo, a medida del hombre y no a medida de la auténtica palabra de Dios”[13]

Nel testo sopra citato si può percepire la logica del pensiero di Paolo VI. La radice del relativismo storico si puo’ trovare sia negli strumenti filosofici, ma anche nel sistema teologico ermeneutico utilizzato per affrontare la realtà. Da un lato, non si può pensare bene di Dio se non si pensa bene, cio’ che succede se uno non usa una filosofia adeguata e realistica. Dall’altra parte, se la sociologia viene usata come modello epistemico a cui la Rivelazione deve adeguarsi, il risultato e’ un cristianesimo del tutto nuovo, fatto su misura umana.

 Il "modello" di Tommaso d'Aquino

Il rapporto tra fede e cultura trova la sua controparte nel rapporto tra fede e ragione, e in ultima analisi in quello tra grazia e natura. Paolo VI tratta questi temi nella sua lettera Lumen Ecclesiae, scritta al Maestro Generale dell'Ordine Domenicano, in occasione della settimo centenario della morte di San Tommaso Aquinas.Questa lettera ci mostra il pensiero del Papa in materia di valori culturali con grande chiarezza. Brevemente estrapoliamo alcuni passi di quel documento.

“Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell’affrontare i nuovi problemi, l’onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del Cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della filosofia e della cultura universale”[14]

In effetti, Tommaso d'Aquino è stato in grado di armonizzare la secolarità del mondo con le esigenze radicali del Vangelo, " sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venir meno alle supreme e inflessibili esigenze dell’ordine soprannaturale”.
Il Papa quindi propone San Tommaso e il suo metodo. “Il metodo seguito da San Tommaso in questo lavoro di confronto e di assimilazione è esemplare anche per gli studiosi del nostro tempo. Si sa infatti che egli apriva con tutti i pensatori del passato e del suo tempo — cristiani e non cristiani — una specie di dialogo dell’intelligenza”.
 Di fatto, il metodo dell'adattamento alla cultura locale inaugurato da Valignano e portato a maturazione da Matteo Ricci e’ pienamente comprensibile solo se si tiene conto della loro formazione umanista e aristotelico-tomista al Collegio romano.[15]
Cosi’, per fare un esempio a noi piu’ vicino, con Clemente Alessandrino, Giustino e il prologo giovanneo possiamo concedere a R. Panikkar, che i “semina verbi” sono presenti in tutte le culture. Questo pero’ non vuol dire che operino ovunque alla stesso modo. Se in una prospettiva “cosmoteandrica” possiamo accettare una lettura inclusiva della storia e del cosmo, “l’esperienza diacronica e diatopica delle culture e dei popoli”, non per questo dobbiamo cadere in quella sorta di “Unschuld des Werdens” che caratterizza spesso le religioni orientali. Un teologo cristiano dovra’ sempre leggere la storia anche come storia del peccato umano.[16]
 

La via per Nicea


Nella parte introduttiva della sua teologia trinitaria[17], pubblicata anche in inglese col titolo The Way to Nicea, Lonergan spiega il lungo processo che ha portato a quel fenomeno che dai tempi di Newman e’ conosciuto come “sviluppo dogmatico” (Dogmatica evolutio), cioe’ la fissazione in formule della Rivelazione biblica. Mentre il Vangelo si rivolge a tutta la persona, la formulazione dogmatica ha come unico scopo di illuminare l’intelletto. Per capire questo pero’ si richiede una “coscienza differenziata”. Questo concetto e’ spiegato in dettaglio anche in Metodo in teologia, dove si spiega che la coscienza puo’ operare a diversi livelli come quello del senso comune e quello del linguaggio tecnico (per esempio le qualita’ primarie e secondarie di Galileo o i due tavoli di Eddington). La comprensione dello sviluppo dogmatico richiede che la coscienza sia aperta a questo sviluppo, il che “non avviene spontaneamente ma solo attraverso un lungo processo di apprendimento sostenuto da un serio impegno”[18].
Da questo punto di vista come appare la situazione culturale del Giappone? Hajime Nakamura in un testo ormai classico dedicato ai modi di pensiero orientali, nella parte riguardante il Giappone ha una sezione dal titolo “Tendenze irrazionaliste” (40 pagine) che elenca cosi' nell'indice: "(1) Indifferenza verso le regole della logica. (2) Mancanza di interesse per la rigorosita' formale. (3) Lento sviluppo della logica esatta in Giappone. (3) Prospettive per lo sviluppo del pensiero logico in Giappone. (4) Tendenza ad evitare idee complesse. (5) Predilezione per semplici espressioni simboliche. (6)Mancanza di conoscenza di un ordine oggettivo. " [19]
Piu’ vicino a noi nel tempo, possiamo citare un articolo apparso sull’Osservatore Romano il 14 agosto 2010 dell’allora ambasciatore presso la S. Sede, Kagefumi Ueno:
“Secondo la religiosità nipponica, l'essere umano non deve limitarsi solo a rinunciare al karma, ai desideri e all'ego. Dovrebbe raggiungere il distacco dal pensiero logico. In fondo, per l'homo japonicus, la religiosità è quel regno da cui sono banditi anche il lògos, il pensiero logico, l'approccio deduttivo. In particolare per i seguaci del Buddhismo Zen tradizionale, persino valori opposti come Bene e Male vanno trascesi. Allo stadio spirituale più profondo della religiosità buddhista non ci sono più santità, verità, giustizia, male, bellezza. Persino la speranza, non più stampella a cui aggrapparsi, è da evitare. La libertà ultima si raggiunge grazie alla passività assoluta. I buddhisti credono che il distacco dai desideri sia necessario per guardare l'eternità. Nell'universo, non vi è nulla di eterno o di assoluto. Ogni essere è transitorio, in altri termini relativo. La Realtà ultima risiede nel "vuoto/nulla", o nell'ambiguità.”
Nello spirito della “filosofia” orientale che insegna il distacco dal lògos, l’ambasciatore Kagefumi Ueno segnala alcune espressioni proprie del Buddismo Zen:  "Molti è uno. Uno è molti"; "Essere è non essere"; "Essere è Mu (nulla). Mu è essere"; "La Realtà è Mu. Mu è la realtà"; "Ogni cosa viene dal Mu e viene assorbita nel Mu. Una volta distaccati dalla "visione della ragione", si trascendono valori opposti come il bene e il male. La libertà ultima si ottiene grazie alla passività assoluta. Alla fine, lo spirito sarà come un albero o una pietra.
In Giappone, modernità e forme di approccio scientifico, tecnologico-razionale non solo coesistono con una mentalità panteistica e animista, considerata pre-moderna, ma ne escono rinvigorite, rafforzate. Molti prodotti nipponici di alta tecnologia sono programmati, disegnati, prodotti e commercializzati da persone che hanno più o meno la mentalità e la religiosità appena illustrata. Anzi, il livello di tecnologia o di qualità del design viene accresciuto dall'unione delle due diverse componenti: mentalità scientifica e mentalità animista.
Ad esempio, molte ditte nipponiche, quando installano nuovi macchinari nei loro stabilimenti, invitano sacerdoti shintoisti a officiare cerimonie rituali, per auspicare un corretto funzionamento dei macchinari. Allo stesso modo, si compiono riti di ringraziamento verso lo spirito dei macchinari, prima di demolirli. Anche in campo edilizio, i costruttori si affidano a rituali shintoisti per impetrare la sicurezza dei futuri lavori con una cerimonia all'aria aperta.
In definitiva, nel Giappone contemporaneo, la mentalità pre-moderna panteistico-animista e la moderna alta tecnologia sono strettamente connesse.

Con Lonergan possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una “coscienza indifferenziata” per quanto riguarda il valore religioso dei dogmi e che quindi ci troviamo ancora ai primi passi “sulla via per Nicea”. Seguendo Lonergan mentre descrive in dettaglio tutte le correnti culturali e religiose con cui i padri ante-niceni si sono dovuti confrontare: i giudeo-cristiani, gli gnostici ( di varie specie), adozionisti, patripassiani, sabelliani, subordinazionisti, ariani e semi-ariani, ecc. io penso che ne possiamo riconoscere molti tratti o individuare dei paralleli nell’ambiente culturale odierno del Giappone e piu’ ampiamente dell’Oriente.

Modernita’ multiple

Secondo il sociologo Shmuel Eisenstadt[20] la storia giapponese alterna una enorme ricettivita verso le culture straniere con lunghi periodi di chiusura. Vecchio o nuovo, nel mondo nipponico ogni contenuto viene sottoposto a un processo di decostruzione che gli consente di affiancarsi senza conflitti al preesistente.
Se in Occidente l'avvento del nuovo implica il rifiuto del vecchio, secondo il paradigma della Querelle des anciens et des modernes, niente di simile avviene in Giappone. Il processo attraverso il quale si e’ sviluppata dal 1868 ad oggi la sua modernizzazione non costituisce un fatto nuovo nella sua cultura, perche ripete una dinamica millenaria.
L'atteggiamento che la cultura giapponese ha nei confronti dell'Occidente e’ lo stesso che ha caratterizzato per piu di mille anni i suoi rapporti con la Cina. Ci troviamo dunque di fronte a una esperienza storica per la quale le nozioni di ibridazione e di crossing sono inadeguate. Infatti non si tratta della mescolanza e dell'incrocio tra contenuti differenti ed eterogenei: qualsiasi contenuto viene sottoposto a un processo di decostruzione che lo rende adatto a essere posto accanto a qualsiasi altro senza entrarvi in conflitto, per quanto opposto e antitetico sia stato nella sua versione originaria. E’ percio’ una pratica di giustapposizione quella che appare piu consona a spiegare l'attitudine dei giapponesi nei confronti di cio che e’ estraneo: una giustapposizione, va inoltre rilevato, fortemente permeata di una tonalita estetica, che risulta di gran lunga predominante sull'etica e sulla metafisica.
Molteplici modelli di tradizione e di modernita’ convivono in Giappone senza interferire l'uno con l'altro. Cio che invece si rivela assolutamente refrattario a convivere con l'esistente viene prima o poi espulso, come e’ avvenuto per il cristianesimo agli inizi del secolo XVII, per il radicalismo rivoluzionario della contestazione studentesca nel 1972 e per l'escatologia fondamentalistica della setta Aum nel 1995. In altre parole, tutto cio’ che e’ nuovo suscita un grande interesse e trova spazio in Giappone, eccetto la mentalita assiale ritenuta tipica dell'Occidente. 
 A differenza della civilta occidentale, nella quale le invasioni barbariche hanno prodotto una profonda frattura storica (secondo Burckhardt l’unica vera grande crisi storica dell’Occidente), la civilta’ giapponese non ha sofferto alcuna invasione e si e’ sviluppata in modo autonomo senza interruzione; essa costituisce percio un caso raro nella storia dell’umanita’. Il simbolo di questa incredibile continuita’ e’ l’esistenza attraverso tutta la storia del Giappone di una sola dinastia imperiale: l’attuale era Heisei e iniziata nel 1989 con l’ascesa al trono del 126° imperatore. Mutatis mutandis, e’ come se in Occidente esistesse ancora l’impero romano! E tuttavia il Giappone ha conosciuto in quindici secoli continue trasformazioni: proprio questa anomalia e’ un aspetto del cosiddetto enigma giapponese, cosi come lo ha definito Karel von Wolferen[21].

L’eccezionalismo giapponese


Sebbene la civilta’ giapponese sia spesso considerata come una cultura in cui non c'e quasi nulla di originario e di puro, appare azzardato interpretarne i caratteri fondamentali alla luce di una categoria oggi frequentemente utilizzata, quella di ‘crossing’. E non solo perche’ la croce e’ il simbolo piu’ facilmente individuabile dell'Occidente, il punto d'incontro delle sue quattro tradizioni fondamentali: la greca, la romana, l'ebraica e la germanica. Piu’ essenzialmente la croce e’ il simbolo assiale per eccellenza, il luogo in cui si incrociano trascendenza e immanenza. Ma la cultura giapponese e’ - come acutamente osserva Eisenstadt - priva di trascendenza: da un punto di vista filosofico la visione del mondo giapponese non riconosce entita’ o valori che trascendano questo mondo e sotto questo aspetto contrasta parzialmente con la mentalita’ cinese e radicalmente con quella indiana e occidentale.
L’eccezione giapponese risalta grandemente se confrontiamo la situazione del Giappone con la filosofia della civilta’ elaborata da Karl Jaspers. Brevemente, secondo Jaspers, sarebbe avvenuto nella storia dell'umanita’ un cambiamento radicale (assiale) che si manifesta intorno al 500 a.C. con il crollo delle antiche civilta’ millenarie essenzialmente statiche[22], con la crisi della tradizione e con l'emergere di una nuova mentalita’ caratterizzata dall'opposizione tra immanenza e trascendenza. Tale cambiamento si manifesta in Grecia con la critica del mito e la nascita della tragedia e della filosofia, in Palestina col profetismo biblico, in India con la predicazione di Budda e in Cina con l'insegnamento di Confucio e di Lao-tse.
 In opposizione a Hegel, che considerava la nascita di Cristo come l'evento capitale della storia umana e restava percio’ prigioniero di una prospettiva eurocentrica, Jaspers si propone di introdurre nella filosofia della storia una prospettiva universale che attribuisca alle civilta’ asiatiche una importanza pari a quella greca. L'aspetto essenziale di questa svolta e’ l'esperienza del conflitto: secondo Jaspers, il contenuto della liberta’ si manifesta nella percezione di polarita’ e di antitesi. Di fronte a ogni posizione si sviluppa una posizione contraria: la liberta’ si manifesta nella possibilita’ di scegliere tra due opzioni che sono sentite come incompatibili. La liberta’ e’ perduta dove viene meno la coscienza della inconciliabilità degli opposti. L'esperienza dell'assialita’ e’ dunque connessa con la coscienza di un aut-aut, di una alternativa a cui e’ connessa la necessita’ di scegliere in modo irrevocabile. Non si puo’ piu’ essere tutto, la liberta’ implica l'unilateralita’ della decisione: e’ libero solo chi puo decidere. La svolta assiale, da cui secondo Jaspers nasce la civilta’, attribuisce alla irreversibilita’ delle scelte e alla coerenza un ruolo essenziale; e’ ovvio che in questa prospettiva tutto cio’ che sottraendosi alla scelta resta mescolato e ibrido, non appartiene davvero alla storia, vale a dire non ha un significato ed un valore universale. La svolta epocale avvenuta quasi contemporaneamente nel V secolo a.C. ha successivamente perduto la sua radicalita’: il momento assiale e’ degenerato spesso in anarchia, oppure si e’ irrigidito in costruzioni dogmatiche (come e avvenuto nell'impero romano e in quello cinese); tuttavia fino ad oggi - secondo Jaspers - non esiste un'altra strada e coloro che sono stati estranei alla svolta assiale (come i germani e gli slavi in Occidente, i giapponesi, i malesi e i siamesi in Oriente) hanno dovuto prima o poi adeguarsi ad essa.
Questa vigorosa concezione della storia costituisce il punto di partenza di Eisenstadt, secondo cui la civilta giapponese e’ stata ed e’ tuttora una societa’ non assiale, nonostante l'influenza esercitata dai modelli occidentali durante il periodo Meiji dal 1868 e l'occupazione americana del 1945-52.       L'assunzione di modelli stranieri in Giappone non e’ una novita’, ma risale alle origini stesse della storia di questo paese: infatti a partire dal 552 d.C. la corte di Yamato ha importato dalla Cina non solo il buddhismo, ma perfino la scrittura, le tecniche, le arti e tutto uno stile di vita.
Fin da allora il tratto distintivo dell'esperienza storica giapponese consisterebbe dunque in una straordinaria ricettivita’ nei confronti delle culture straniere, alternata a lunghi periodi di chiusura nei confronti dell'esterno. Pur facendo proprie concezioni del mondo assiali come il buddhismo, il confucianesimo e la filosofia occidentale (liberale, socialista o nazionalista), il Giappone avrebbe operato una de-assializzazione di queste religioni e ideologie, privandole completamente delle loro pretese trascendenti e incanalandole in una direzione immanentistica e particolaristica in accordo con l'unico elemento autenticamente giapponese, lo Shinto.
In ciascun ambito pubblico e privato (politico, economico, familiare o connesso alla creativita culturale, di natura individuale o collettiva) i giapponesi avrebbero proceduto a una decostruzione della civilta assiale, attraverso strutture sociali improntate all’interdipendenza e fondate non sulla coercizione autoritaria, ma su obbligazioni reciproche (giri) e su sentimenti piu’ di natura estetica che morale. Questa mentalita’ spiegherebbe il fatto che in Giappone non ci siano state guerre di religione ne’ rivoluzioni sociali: tutte le influenze provenienti dall'esterno sarebbero state incorporate dentro un contesto che sottolinea l'importanza delle situazioni empiriche a scapito dei principi universalmente validi. Cio’ spiegherebbe anche la scarsa importanza degli intellettuali portatori di ideologie, che in Giappone non sono mai riusciti a mobilitare vasti settori di pubblico. In altre parole, la dimensione assiale sarebbe stata sistematicamente sottoposta a una riformulazione immanente e particolaristica, che le toglie ogni pretesa di assolutezza e di esclusivita’. Un genere letterario molto praticato sia in Giappone che all’estero, noto come “Nihonjinron”, ha sottolineato il carattere unico della civilta giapponese: questo orientamento, che si e manifestato nella filosofia (Watsuji Tetsuro), nella psicoanalisi (Doi Takeo), nell'antropologia (Ruth Benedict), negli studi culturali (Augustin Berque), nella sociologia (Robert Bellah), nella linguistica (Suzuki Takao), focalizza la propria attenzione sull'eccezionalita’ del caso giapponese rispetto al resto del mondo. Il Nihonjinron e’ tuttavia stato oggetto di una critica serrata che ne ha messo in evidenza l'arbitrarieta.[23] Non di rado l'esaltazione enfatica della giapponesita’ si fonda sulla trasposizione in Giappone di un mito occidentale: quello della comunita’ etnica (Gemeinschaft) opposta alla societa borghese (Gesellschaft), secondo l'antitesi formulata nel modo piu chiaro gia alla fine dell'Ottocento.
In Giappone la rivolta contro l'America ha ampiamente attinto a questa ideologia, conducendo al fanatismo nazionalistico del kokutai. Non a torto percio’ e’ stato osservato che molto spesso la lotta per mantenere una propria identita’  ha radici nel pensiero romantico europeo e nella sua ostilita’ nei confronti della civilta’ urbana, del razionalismo, del benessere e dello straniero.
L'idea che Eisenstadt ha del Giappone esula tuttavia dagli schemi del Nihonjinron, e non costituisce una forma di occidentalismo (cioe’ un tradizionalismo di origine occidentale giocato contro l'occidente). Secondo Eisenstadt la globalizzazione implica che tutte le societa del mondo sono o saranno presto moderne: i termini del conflitto percio’ non sono piu individuabili nella polarita’ tra modernita’ e tradizione, bensi tra differenti tipi di modernita. Questi nuovi conflitti non sono solo economici o politici, ma coinvolgono diverse concezioni della modernita’. Anche considerando il problema solo dal punto di vista economico, le modernita’ si distinguono tra loro a seconda della diversa regolazione di quattro elementi fondamentali: mercato, regulation, intervento statale, welfare. Dal punto di vista politico, i fondamentalismi sono considerati da Eisenstadt come sviluppi paradossali del giacobinismo; essi percio’ non costituiscono affatto un ritorno all'ancien regime, ma sono la trasposizione in chiave moderna di alcune utopie eterodosse nate e sviluppatesi in prossimita delle grandi religioni.
Restano aperte alcune domande: la strategia culturale della giustapposizione e’ una caratteristica unica e specifica del Giappone, oppure si ritrova anche in altre civilta’? La civilta’ occidentale e’ cosí esclusivamente assiale, come pretende Jaspers, oppure sono esistite ed esistono all'interno dell'Occidente tendenze non assiali che si sono manifestate precocemente sia nella Grecia antica che nella Roma antica? Per esempio, il politeismo greco e romano hanno praticato una strategia di giustapposizione. Nel mondo moderno alcune componenti del cattolicesimo e dell'illuminismo hanno ereditato dal mondo classico la stessa attitudine. Infine, dobbiamo considerare la giustapposizione come la strategia piu’ adatta a garantire insieme l'identita delle culture e la tolleranza piu’ di quanto non faccia il melting pot?

Civilta’ non-assiale o pre-assiale? (il punto di vista di R.N. Bellah)

"Fin da almeno il settimo secolo, il Giappone e' stato profondamente influenzato da idee buddiste e confuciane, cosi' come dalla civilta' indiana e in modo particolare da quella cinese. E fin dal sedicesimo secolo il Giappone e' stato influenzato dal cristianesimo e dalla civilta' occidentale. Ma di fronte a queste religioni e civilta' i giapponesi non hanno rigettato le loro premesse da civilta' pre-assiale; invece le hanno continuamente rivisitate senza abbandonarle. Le influenze culturali dall'esterno sono state apprezzate e capite con intelligenza e sensibilita', ma poi usate per rafforzare le premesse pre-assiali della societa' giapponese invece di sostituirle. “
 “Siccome i giapponesi sono a conoscenza dei principi assiali, li hanno capiti completamente, eppure li hanno rigettati, preferendo adattarli alla riformulazione dello loro patrimonio arcaico e siccome lo hanno fatto con dinamismo e apertura al cambiamento cosi' che non sono rimasti 'tradizionalisti' nel senso peggiorativo del termine, Eisenstadt sostiene che dovrebbero essere chiamati non pre-assiali, ma non-assiali. Tuttavia c'e' un senso in cui la civilta' giapponese puo' essere definita pre-assiale. Le premesse sottostanti alla societa' giapponese, benche' possano essere riformulate con grande sofisticazione, non possono essere sostituite. Esse non sono, per cosi' dire, sul tavolo delle trattive quando si tratta di una discussione su cambiamenti fondamentali. Quando nel mio saggio "Valori e cambiamento sociale nel Giappone moderno" parlavo di 'basso di fondo'[24] mi riferivo a questo elemento pre-assiale nella cultura giapponese; e quando parlavo di 'tradizione della trascendenza sommersa' mi riferivo alla presenza di tradizioni assiali in Giappone - buddiste, confuciane, cristiane, marxiste - che non sono mai riuscite a sostituire le premesse pre-assiali della cultura giapponese. "[25]

 Che i giapponesi tendano a rigettare principi di tipo trascendente credo che possa essere un punto valido di discussione, a condizione pero’ che si tenga conto anche della possibilita’ che questa tendenza sia una “self-fullfilling prophecy”, la possibilita’ cioe’ che questa tendenza ci sia solo perche’ viene costantemente sbandierata.
Per quanto riguarda il fatto che i giapponesi “sono a conoscenza dei principi assiali” e “li hanno capiti completamente”, mi permetto di mantenere qualche dubbio. Prima di tutto questo potra’ essere vero di una certa cerchia di intellettuali, non credo si possa facilmente affermare delle masse. Per rendersene conto basterebbe fare un sondaggio su come vengono insegnate, anche solo nella scuola dell’obbligo, le religioni e le filosofie ritenute non giapponesi. Si potrebbe poi anche mettere in questione il grado di liberta’ che viene accordato ai singoli nelle scelte di vita. Se e’ vero, come osserva Eisenstadt, che l’ordine sociale giapponese viene costruito “ex toto” e non “ex parte”, questo vuol dire che le identita’ collettive non sono un prodotto della natura ma sono costrutti umani. Per cui si puo’ mettere in questione il tipo di intenzionalita’ politica che lavora dietro le simbologie e i rituali che vengono messi in opera per definire i legami tra membri di una collettivita’ e le condizioni dell’ordine sociale. “Il pensiero dell’immanenza (...) appartiene a un mondo nel quale la questione dei fini non puo’ essere discussa, neanche posta, e nel quale l’intelligenza e’, di conseguenza, condannata ad applicarsi ai mezzi, ai metodi, alle manovre e tecniche per adattarsi all’esistente. (...)E’ congenitalmente legato all’ordine imperiale che ha creato un mondo chiuso risolvendo autoritariamente la questione dei fini”.[26]

In fine


 Il rifiuto di principi trascendenti o supernaturali puo’ avere molte cause e prendere forme molto diverse, ma in ultima analisi,

poggia su un orgoglioso accontentarsi dell’uomo di essere solo un uomo, e la sua tragedia è che, data l'ipotesi attualmente presente di uno soluzione soprannaturale, essere solo un uomo e’ proprio cio’ che l’uomo non può essere. Se veramente volesse essere un uomo, si sottometterebbe al desiderio illimitato [di conoscenza] e scoprirebbe il problema del male e affermerebbe l'esistenza di una soluzione e accetterebbe la soluzione che esiste. Ma se voule essere solo un uomo, deve essere qualcosa di meno. Egli deve abbandonare l'apertura del puro desiderio, si deve rifugiare nelle contro-posizioni, deve sviluppare tutte le contro-filosofie che puo’ per salvare il suo diminuito umanesimo da ulteriori perdite, e non mancheranno uomini sufficientemente lucidi per comprendere che la questione è tra Dio e l'uomo, abbastanza logici da concedere che l'intelligenza e la ragione sono orientati verso Dio, spietati abbastanza per chiamare in loro aiuto le forze oscure della passione e della violenza.”[27]

Annientamento del "sé", divinizzazione della natura, rifiuto di un Dio personale sono i capisaldi della cultura giapponese che spiegano l'estrema difficoltà che incontra il cristianesimo a penetrare in Giappone. È una difficoltà che riguarda anche altre grandi civiltà e religioni asiatiche. Se si volesse essere ancora piu' succinti si puo' indicare la principale ragione di questa impermeabilità nel fatto che in Giappone, in Cina, e in India la fede in un Dio personale che si auto-comunica nella storia viene esclusa come ipotesi di partenza.
È per questo motivo che la sfida lanciata ai cristiani dalle civiltà asiatiche è più insidiosa di quella di un'altra religione monoteista come l'islam. Mentre l'islam, infatti, stimola se non altro i cristiani ad approfondire e rinvigorire la propria identità religiosa, le civiltà asiatiche spingeranno piuttosto nel senso di una ulteriore secolarizzazione, intesa come denominatore comune di una nuova civiltà planetaria. Si puo’ aggiungere che i giapponesi che sentono di avere come loro precisa vocazione o addirittura come mandato “divino” quello di diffondere questa nuova civiltà planetaria e che per questo sono disposti a spendere tutte le loro risorse non sono pochi.



[1] "Il gentiluomo mira all'universale e non e' parziale. L'uomo gretto e' parziale e non mira all'universale" (Dialoghi di Confucio, 2, XIV)
[2] Mia traduzione dall’originale inglese in: L’Osservatore Romano, Weekly English Edition, May 6, 1998, p. 3. Endo Shusaku ha coniato l’immagine del cristianesimo come vestito che male si adatta alla corporatura dei giapponesi.
[3] L’Osservatore Romano, Weekly English Edition, April 29, 1998, p. 12. Cosa pensare di queste “differenze” tra un “cuore” in Asia e un’altro in Europa? Forse che la geografia determina il cuore umano?
[4] Questa posizione viene espressa, tra gli altri, in modo molto marcato dai teologi gesuiti Duraisamy Amalorpavadass, Aloysius Pieris, Adolfo Nicolas.
[5] Messaggio al “Congresso Tomistico Internazionale - L’essere reale dell’uomo,” , 12/09/1970, PAOLO VI. Insegnamenti di Paolo VI. CD Rom. Vatican City: L.E.V.-Unitelm, 2003. (di seguito: IPVI), VIII (1970), pp. 861-869.
[6] Mia traduzione dalla versione inglese:  “Faith, Religion and Culture,” p. 68-69.
[7] Ibidem, pp. 69-70.
[8] Ibidem, pp. 59-65.
[9] “Una teologia media tra una matrice culturale e il significato e il ruolo di una religione in quella matrice”. (B. Lonergan, Method in Theology, Darton, Longman & Todd, London, 1971, xi.
[10] Lettera ‘Lumen Ecclesiae’ nel VII centenario della morte di San Tommaso d'Aquino (20 novembre 1974), IPVI, XII (1974), pp. 1222-1246, n. 18.
[11] Udienza Generale, “La fede principio di vita eterna,” 28/05/1969, IPVI, VII (1969), pp. 960-963.
[12] Udienza Generale “La roccia della verità,” 24/11/1965, IPVI, III (1965), pp. 1105-1107.
[13] “Inaugurazione della II Assemblea Generale dei Vescovi dell’America Latina - Riconoscere Cristo in noi e nei nostri fratelli,” 24/08/1968, IPVI, VI (1968), pp. 403-425.
[14] Op. cit., 8. Questo passo e’ citato anche in “Fides et ratio”, 43.
[15] Ho sviluppato questo pensiero in A. Bonazzi, Matteo Ricci and Global Civilization, in: Prajña Vihara Journal of Philosophy and Religion, Assumption Univ. Thailand (ISSN 1513-6442), Vol. 6, 2005, 11-31.
[16] Cf. MacPherson Camilia Gangasingh, A Critical Reading of the Development of Raimon Panikkar's Thought on the Trinity, University Press of America, Boston, 1996.
[17] Collected Works of Bernard Lonergan, vol. 11, The Triune God: Doctrines, University of Toronto Press, Toronto, 2009.
[18] “Quae cum ita sint, parum fundata videtur illa romantica opinatio quae perfecte religiosam esse iudicat conscientiam indifferentiatam.(…) [E]t ideo qui intellectum religionis expertem [escluso da] velint, magis saecularismus quam veram religionem suadent.” Ibidem. p. 38. “Qui coscientiam intellectualiter excultam timent, vel qui aliam veritatem laudant sed propositionalem ad nominalismus vel ad mentalitatem mythicam reducunt” Ibidem, p. 52.
[19] Nakamura Hajime, Ways of Thinking of Eastern Peoples. India, China, Tibet, Japan,  University of Hawaii Press, 1964, p. xx, indice, mia traduzione.
[20] Eisenstadt S. N., Japanese Civilization. A Comparative View, The University of Chicago Press, Chicago, 1996 (trad. it. La civiltà giapponese, Seam, 1999).
[21] Van Wolferen, Karel. The Enigma of Japanese Power. Macmillan, London, 1989 (trad. it. Nelle mani del Giappone. Sperling & Kupfer, Milano, 1990).
[22] Cf. Bergson, H., Les deux sources del morale et de la religion, 1932. 
[23] Per una critica dal punto di vista missionario mi permetto di rinviare a: Bonazzi A., Eizeviri e studi di un missionario in Giappone, Lumini, Brescia 2004, pp. 51-59.
[24] Bellah si riferisce a “basso ostinato” (in italiano nell’originale), la metafora musicale usata da Maruyama Masao. Cf. Maruyama Masao, ‘The structure of Maturigoto: the basso ostinato of Japanese political life’ in Themes and Theories in Modern Japanese History, eds. S. Henny and J.-P. Lehmann, Athlone Press, London, 1988. Fosco Maraini parla di “qualcosa di monolitico” che sta al fondo di tutti i cambiamenti. Cf. Fosco Maraini, Japan; Patterns of Continuity, Kodansha, Tokyo, 1971.
[25] Mia traduzione da: R. N. Bellah, Imagining Japan. The Japanese Tradition and its Interpretations, University of California Press, 2003, p. 7 passim.
[26] Mia traduzione da: J.F. Billeter, Contre François Jullien, Allia, Paris 2006, p. 63. Cf. F. Jullien, Figures de l’immanence. Pour une lecture philosophique du Yi King, Grasset, Paris, 1993.
[27] Mia traduzione da B. Lonergan. Insight. A Study of Human Understanding, Longmans, London, 1957, p. 729.