Monday, June 28, 2010

Santificazione o sfruttamento del basso clero?

Autore: A. Castegnaro
Titolo: Il prete: disagio e trasformazione. Ridare forma al presbiterio

Riferimento: Regno-att. n.12, 2010, p.414

Raccogliendo i frutti di molti studi e inchieste sul clero, Alessandro Castegnaro – presidente dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto (OSRET) – evidenzia il disagio dei preti in Italia. Si sentono spesso uomini «in trincea», chiamati a muoversi con prudenza, ma spesso da soli e senza il sostegno dell’istituzione e degli altri preti.
(...)
Ne emerge un quadro complesso di profonda trasformazione della Chiesa nelle sue figure istituzionali e nella vita comunitaria. Tale trasformazione in atto non può essere evitata: essa richiede da un punto di vista sia giuridico sia ecclesiale un accompagnamento interpretativo e un governo responsabile.

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Esiste oggi un serio problema di qualità delle relazioni
nella Chiesa. Esso ha due risvolti, uno dei quali riguarda
le relazioni di carattere verticale (con l’autorità)
e l’altro quelle di carattere orizzontale (tra preti, nel presbiterio).
Sul primo è difficile raccogliere opinioni chiare
tra i preti. Sui rapporti con l’autorità essi preferiscono
restare abbottonati e rifugiarsi su formulazioni moderate,
che alludono a rapporti «abbastanza» buoni con il
proprio vescovo. Tra i numerosi aspetti che si potrebbero
approfondire quello che forse è meno noto, ma che
genera molta sofferenza, è la mancanza di un sistema
chiaro di premi e di punizioni. Dalle indagini sul burnout
questa dimensione è risultata essere del tutto inesistente
(cf. RONZONI [a cura di], Ardere, non bruciarsi). I
riconoscimenti quando si è operato bene sembrano
mancare. Tutto è sempre dovuto. L’impegno profuso
non viene riconosciuto (e non solamente dall’autorità) e
l’apprezzamento non viene percepito.
Chi opera in modo
insoddisfacente, salvo casi estremi, è trattato allo stesso
modo, o così pare.
La questione del mancato apprezzamento
è particolarmente sentita nel rapporto tra parroci
e preti giovani alle prime esperienze, che si percepiscono
al di sotto delle attese sviluppate nei loro confronti
(qualcosa che avviene spesso anche negli istituti religiosi
e all’interno delle famiglie, nel rapporto genitori-figli).
Va detto che è tipico di tutte le organizzazioni istituzionalmente
altruistiche essere poco attente a riconoscere
l’apporto dei propri membri.
Il fine, l’ideale a cui sono
votate, assorbe tutte le altre considerazioni. È un
aspetto a cui si dovrebbe invece prestare attenzione.
Il giudizio critico espresso nei confronti del livello
delle relazioni negli ambienti ecclesiastici emerge con
particolare evidenza a proposito dei rapporti tra preti.
Esiste un certo numero di preti che non ha rapporti significativi
con i propri confratelli o che non li sente vicini
(circa uno su quattro).
Più in generale le relazioni si
sviluppano in funzione delle attività da svolgere e poco
in funzione dell’ascolto reciproco. Vi è la tendenza a
considerare più il ruolo che la persona. Alcuni preti parlano
di una «mentalità da caserma». Le relazioni sono
povere. C’è poca stima e la superficialità dei rapporti favorisce
il pregiudizio.
In tutto questo c’è molto di maschile
e una lettura di genere della problematica presbiterale
sarebbe molto utile. Un aspetto che mi ha sempre
colpito è che i preti, nei confronti dei propri confratelli,
si pongono in modo fortemente giudicante. La situazione
più diffusa è perciò la paura del giudizio. Parlare vuol
dire essere giudicati. Quello che fai viene visto dagli altri.
Introdurre cambiamenti nella propria vita, ad esempio
al fine di stare meglio, è difficile proprio a causa di
questa paura. Come si è espresso un prete: «Noi che siamo
i professionisti dell’accoglienza non facciamo altro
che giudicare»
. Molti preti pensano che non vi sia speranza
di cambiare le relazioni con i confratelli.
Si manifesta
un atteggiamento di sfiducia e di rinuncia, un desiderio
d’immobilità. E questo è un fatto grave.
È in questo quadro che si colloca la scarsa disponibilità
per la vita assieme ad altri preti che le ricerche documentano,
al di là di una dichiarata ma generica (e
probabilmente calante) valutazione positiva per le unità
pastorali. I preti non vogliono vivere con altri preti.
La
solitudine è ricercata anche perché è rassicurante: impedisce
che i confratelli osservino i propri disagi, quando
vi sono.

(...)
In effetti viene da chiedersi, o almeno
a me è successo di chiedermi, lavorando su questi
temi: ma c’è qualcuno che vuole bene al prete? Qual
è la comunità del prete? È il presbiterio? Può essere il
presbiterio?
(...)
L’immagine eucaristica del prete «mangiato»,
«spezzato», se non è vissuta con equilibrio – in quanto
ideale che esiste certo, ma non come «dovere» e figura di
ruolo da attuare qui e ora – rende difficile quel tanto di distanziamento
dal ruolo, quella sana distinzione tra persona
e ruolo sociale, che sono necessari per conservare il
proprio equilibrio e che sono tutt’altra cosa della spersonalizzazione.
Si ha la sensazione, invece, che alcuni vivano
tale distanziamento, il bisogno di proteggere il proprio
equilibrio personale, la ricerca di soluzioni che consentano
di vivere meglio, il rifiuto della sindrome del «bed at the
church», come prove della fragilità della propria vocazione
e che ciò li faccia soffrire.
(...)
Il modo in cui viene proposta ai preti l’immagine ideale,
come se l’adeguarsi a essa fosse un obbligo morale e non
un dono della grazia, d’altra parte, potrebbe essere anche
all’origine di quella ipertrofia del giudizio cui abbiamo accennato,
della mancanza di carità tra presbiteri. È come
se, nel momento in cui si diventa preti, le debolezze non
fossero più ammesse. L’immagine ideale non lascia spazio
a mediazioni e a incertezze. Tu sei prete! Per te tutto è dovuto!
La tua disponibilità o è totale o non è! Se sbagli ti
senti giudicato, anche se in forme nascoste. Se fai bene,
niente ti deve essere riconosciuto.
Ci sarebbe bisogno di
ascolto, di molto ascolto. Non è un caso che i preti, quando
si chiede loro di disegnare la figura ideale del vescovo
indichino innanzitutto la capacità di venire ascoltati.
(...)
Le questioni indicate sono ormai «mature», nel senso
che sono presenti da tempo. Hanno bisogno di essere affrontate
seriamente e per quello che sono: problemi che
hanno a che fare con l’umanità del prete e con la vita della
Chiesa in quanto sistema di relazioni, senza illudersi
che le soluzioni possano essere puramente di natura spirituale,
né che il controllo dei casi di più evidente deterioramento
personale possa bastare. I preti si attendono indicazioni
più chiare verso quali direzioni nuove s’intende
andare, anche dai loro vescovi; indicazioni in grado di fare
realmente i conti con i cambiamenti avvenuti nel contesto
socio-religioso e nel profilo spirituale del prete, e
con la situazione determinatasi in seguito alla contrazione
numerica dei presbiteri; soluzioni che evitino di cullarsi
nell’idea che qualche santo alla fine provvederà.

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Commento:

Se il "basso clero" trattasse la gente come vengono trattati dai loro superiori, un gran numero se ne sarebbe gia' andata.
Se non sbaglio anche il ruolo del vescovo o del superiore religioso e' una forma pastoralita'. Oltre a fare prediche ogni tanto dovrebbero anche dare l'esempio. o no?

Sunday, June 27, 2010

Integration of good and evil in the Mandala (cf. Jung)

[T]he refusal [of the supernatural] is no integration of good and evil. it is choice of constant rotation within a presently achieved flexible circle of ranges of schemes of recurrence, when the invitation to a supernaturally transformed finality is to transcend the circle to a new and higher integration effected by an 'otherwordly love'. Such a choice

{rests on man's proud content to be just a man, and its tragedy is that, on the present supposition of a supernatural solution, to be just a man is what man cannot be. If he would be truly a man, he would submit to the to the unrestricted desire and discover the problem of evil and affirm the existence of a solution and accept the solution that exists. But if he would be only a man, he has to be less. He has to forsake the openness of the pure desire; he has to take refuge in the counterpositions; he has to develop what counterphilosophies he can to save his dwindling humanism from further losses; and there will not be lacking men clear-sighted enough to grasp that the issue is between God and man, logical enough to grant that intelligence and reason are orientated towards God, ruthless enough to summon to their aid the dark forces of passion and of violence. }( B. Lonergan, Insight, p. 729)

This is not to negate, but to relativize, the mandala as symbol of the flexible circle of ranges of schenmes of recurrence. The mandala is a legitimate elemental symbolization of a temporary integration of the various dialectics of contraries that consolidate human development. It becomes demonic when it is willed as constant rotation, and so when it becomes the symbol of a consolidated resistance against the transformative dynamism of thye 'operator'.

(R.M. Doran, "Psychis Conversion and Lonergan's Hermeneutics", in: Sean E. McEvenue, Ben F. Meyer,Lonergan's hermeneutics: Its development and application, 1989, p. 163-164)

Etica della resistenza Sequeri

Un’immagine ricorrente torna nel dialogo sul male e sul patire fra l’autore
E. Garlaschelli, insegnante a Piacenza, e il teologo Pierangelo Sequeri: quella
del cameriere che viene ridicolizzato dal cliente. Emblema di quella gratuita violenza che uccide la pietà e mostra l’incapacità non solo di evitare il male, ma di riconoscerlo. La pura ribellione come la semplice rassegnazione davanti alla sofferenza non dicono la qualità dello scontro dell’umano con il suo limite.
«Non per caso il Figlio si consegna alla kenosi dopo essersi battuto contro la malattia, la sofferenza, il male, la morte e il peccato, cioè dopo aver testimoniato che la potenza di Dio è energia di contrasto, e che per esprimere questa energia di contrasto nei confronti del male… è necessario consegnarsi perché esso appunto non dilaghi».
Aver ricondotto il male alla semplice responsabilità personale ha portato la nostra
razionalità illuministica non tanto a smarrire il patimento del male stesso, ma a non riuscire più a esprimere il senso di un’ingiustizia che ci ha colpiti e scelti, di un abbandono che viola il nostro desiderio di vita.
È urgente tornare a imparare dai nostri sentimenti un’etica della resistenza. «È l’uomo che dice: anche se tutto dovesse andare male, io non cedo su questa convinzione, perché deve esserci una giustizia che alla fine fa tornare i conti, onora gli sforzi che l’uomo fa per corrispondere a questa bellezza inerente alla giustizia dell’esistere».
Resistere su questo scandalo è più importante che dire di essere ateo o credente.
La fede non è solo un richiamo a riconoscere il tragico, a portare il male e la sofferenza
quando siano inevitabili, a tenere aperta la radicale richiesta di senso che essi veicolano,
ma aggiunge «una cosa strepitosa e decisiva, perché con la stessa determinazione,
cioè facendone un precetto, invita a portare il male dell’altro».
Lorenzo Prezzi
LL ibri del mese / segnalazioni
I L R E G N O - AT T UA L I T À 1 0 / 2 0 1 0 332 XCIV

P. SEQUERI,
E. GARLASCHELLI,
L’UMANO PATIRE.
Conversazioni con
Pierangelo Sequeri,
Berti, Piacenza 2009,
pp. 88, € 7,00.
978887364167
I

Friday, June 25, 2010

Natural sciences human sciences

"The much-advertised cleavage between thinking in the sciences and the humanities does not exist. The hypothetico-deductive process is fundamental in both of them, as it is in all thinking that aspires to knowledge"

(E.D. Hirsch, Validity in Interpretation, New Haven: Yale Univ. Press, 1967, p. 264. Cited by Hugo Meynell, The Great Code and the Christian Faith, in: S. E. McEvenue, B. Meyer, ed., Lonergan's Hermeneutics. Its Development and Application, The Catholic University of America Press, Washington D.C., 1989, p. 69)

Sunday, June 20, 2010

Gesuiti Ed obbedienza (dall'Osservatore Romano di oggi)

Gesuiti Ed obbedienza

In un'assemblea cui partecipano membri di vari Ordini religiosi si discute dell'obbedienza. A un gesuita presente viene domandato: "Il vostro Ordine dà troppo peso all'obbedienza. Come riuscite a fare in modo che la si possa osservare?". Egli risponde: "È molto semplice: il superiore chiede al suo suddito che cosa voglia e poi glielo ordina". Dopo alcuni attimi di riflessione il membro di un altro Ordine obietta: "Ma vi sono anche religiosi che non sanno quello che vogliono. Che cosa bisogna fare con loro?". Il gesuita replica: "Li si fa superiori".


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Sunday, June 13, 2010

Problemi missionari

“Chi è il missionario oggi?”
di padre Piero Gheddo*

ROMA, venerdì, 11 giugno 2010 (ZENIT.org).- La famiglia è in crisi, siamo nel sottozero demografico. “l’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico”, dice il Presidente della Conferenza episcopale italiana, il card. Angelo Bagnasco (25 maggio 2010). Ci sono pochi bambini ed è inevitabile che diminuiscano i preti, le suore, i giovani che consacrano la loro vita a Dio e alla Chiesa. Gli istituti missionari vedono diminuire anche i missionari italiani, proprio negli anni in cui i vescovi dei territori missionari chiedono nuovo personale missionario (vedi l’articolo “Al Pime undici preti nuovi e nessun italiano” in ZENIT del 7 giugno scorso).
Si dice spesso che oggi il “missionario” ha fatto il suo tempo: la Chiesa è fondata in ogni parte del mondo e il compito della missione passa alle Chiese locali e alla comunione fra le Chiese. E’ una delle tante indebite assolutizzazioni del post-Concilio, che non corrisponde a verità: la realtà infatti dice tutto il contrario. Vorrei mi si spiegasse come mai il solo Pime, che è uno dei tanti istituti missionari, negli ultimi trent’anni è stato invitato a mandare missionari nei seguenti paesi in cui non eravamo presenti: Papua Nuova Guinea (ci siamo andati nel 1981), Taiwan (nel 1986), Cambogia (nel 1990), Messico (nel 1991), Colombia (ma era da poco iniziata la missione in Messico e non siamo andati), Algeria (nel 2006); e l’Istituto ha rifiutato altri inviti da Corea del Sud, Malesia (Borneo), Kazakhistan, Angola, Etiopia, Libia, Senegal, ecc. (per non ricordarne diversi altri dell’America Latina).

Contra factum non valet argumentum, dicevano i latini: la realtà contraddice la teoria che il missionario è una figura d’altri tempi, non più attuale nella Chiesa. E’ vero che la missione alle genti è cambiata molto anche dal Concilio ad oggi, ma cambiano anche gli istituti missionari ed i missionari. Andando a servizio delle Chiese locali e dei loro popoli, cambia la formazione dei missionari e cambiano gli stessi istituti. Comunque a me pare che, proprio in questo tempo di globalizzazione (il mondo che diventa un piccolo villaggio), il missionario dovrebbe e potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo mantenesse, in Italia (e più in genere in Occidente), la sua identità, il suo carisma, la sua carica di entusiasmo evangelizzatore.

Questo oggi è il vero problema di noi missionari e istituti missionari. Chi è il missionario? Nell’opinione pubblica e nella stima comune eravamo gli inviati dalla Chiesa ad annunziare e testimoniare Cristo e fondare nuove comunità cristiane fra i popoli non cristiani: una figura fortemente rappresentativa della fede in Cristo portata agli estremi confini della terra. Oggi siamo un po’ di tutto. Dal tempo entusiasmante del Concilio Vaticano II (1962-1965), che aveva rilanciato con forza la missione universale, in pochi anni siamo precipitati nella confusione di idee del Sessantotto, rimanendo travolti dalle “mode culturali” del tempo. Viviamo nel “tempo dell’immagine”, noi missionari e il nostro “movimento missionario in Italia” non ce ne siamo ancora accorti. Ci siamo resi conto che la nostra “immagine” è decaduta? L’immagine del missionario si è a poco a poco politicizzata e siamo finiti in una marmellata di buonismo, che è diventato la cultura di base del popolo italiano. Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e di fedeltà al carisma, in Italia l’immagine del missionario cambia, secondo me non li rappresenta più.

Se guardo le riviste missionarie di quarant’anni fa, mi accorgo che gli articoli sulla missione, l’evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le novità delle giovani Chiese, l’annunzio di Cristo nelle culture, la presentazione di figure di missionari e delle loro esperienze, erano alla base delle riviste e dei libri missionari, si parlava spesso di vocazione missionaria a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani.

Oggi, se cerco nel volume “Bibliografia missionaria”, edito annualmente dalla Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana (la seguo da più di mezzo secolo), che monitora gli articoli dell’anno precedente, mi accorgo che di anno in anno diminuiscono le voci “missione”, “evangelizzazione”, “vocazione missionaria”; in compenso aumentano quelle che riguardano temi collaterali (pace nel mondo, sviluppo, aiuti internazionali, debito estero, ecc.).

Ci sono riviste che si dicono “missionarie” e di missionario hanno poco o nulla; “Centri culturali” di istituti missionari che nel corso di un anno organizzano molte conferenze, ma su temi della missione alle genti quasi niente e sui missionari in carne ed ossa nulla; librerie di istituti missionari che si suppone vendano libri missionari al pubblico, che in vetrina mettono tutt’altro; animatori missionari che parlano di “mondialità” e poco o nulla di “missione”; comunità di missionari che hanno perso l’entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della loro vocazione, spiazzati dall’indifferenza del mondo moderno. E potrei continuare. E’ una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che ci ha fatto perdere la nostra identità.

Sono convinto che non esiste nella mentalità comune del popolo italiano una figura più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e dell’ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati “integralisti” e per malinteso senso del “dialogo”, non osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi e affamati; siamo “a servizio della Chiesa locale” ma dimenticando che questo servizio dovrebbe essere soprattutto di animare missionariamente il gregge di Cristo; pensiamo di fare “animazione missionaria” denunziando e facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e altri temi certo positivi, ma che non sono “animazione missionaria”; in passato nelle solenni “veglie missionarie” alla vigilia della Giornata missionaria mondiale si sentivano le testimonianze dei missionari sul campo, preti, suore, fratelli, volontari laici, oggi capita di sentire che in alcune “veglie missionarie”, organizzate da “gruppi missionari”, si contesta la produzione delle armi o la privatizzazione delle acque e parlano esperti di questi temi. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la voce dello Spirito che li chiama a diventare missionari in marce di protesta come queste?

Indro Montanelli rifletteva bene la mentalità comune del suo tempo, quando mi diceva (collaboravo al suo “Il Giornale” e poi a “La Voce”): “Voi missionari siete tutti eroi”, io gli ribattevo che non è affatto vero, siamo uomini come gli altri con una vocazione particolare nella Chiesa. Ma oggi, quando il buon Dio ci manda dei testimoni autentici, i “santi” del nostro tempo da lanciare come “eroi positivi” per colpire l’immaginazione dell’opinione pubblica, l’animazione missionaria “unitaria” li dimentica per non “creare degli eroi” e non cadere nel “trionfalismo”.

Mi viene in mente padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), missionario comboniano medico di una facoltosa famiglia di industriali (l’industria del miele Ambrosoli) che ho visitato all’ospedale di Kalongo nell’Uganda travagliata dalla guerra. Al quale la rivista che dirigevo “Mondo e Missione” ha dedicato un servizio speciale (dicembre 1987, venti pagine) di Roberto Beretta e altri articoli. Una figura meravigliosa sulla quale è stata pubblicata una rapida biografia alla Emi e poco più; penso a Marcello Candia (1915-1983), anche lui figlio di un padre fondatore dell’industria chimica in Lombardia (all’inizio del Novecento), che dopo una vita da manager industriale vende tutto e va con i missionari in Amazzonia dove spende gli ultimi suoi 18 anni vivendo poveramente e costruendo, fra molti contrasti e opposizioni, opere sanitarie ed educative per i lebbrosi, i caboclos e gli indios: quando è morto (1983) le riviste missionarie gli hanno dedicato poco spazio e una ha scritto: “Ha costruito un ospedale in Amazzonia, ma questo è facile per lui che aveva molti soldi”, ignorando tutto della sua vita di autentico “martire della carità”; penso a padre Clemente Vismara (1897-1988), missionario in Birmania per 65 anni, che i vescovi locali hanno definito “il Patriarca della Birmania” (se Dio vuole sarà beatificato l’anno prossimo); e a tanti altri missionari veramente eroici.

Ma l’“animazione missionaria” non si accorge quasi nemmeno che questi santi del nostro tempo sono tra noi. Ripeto: non accuso nessuno, non è colpa di nessuno in particolare, è una deriva abbastanza generale (contro la quale però bisognerebbe reagire) che spiega molto bene perché il missionario sta perdendo la sua identità e la sua capacità di attrarre giovani e ragazze generosi, innamorati di Cristo, che danno la vita per portare Gesù ai popoli non cristiani. Ma noi missionari ci crediamo ancora davvero al nostro carisma? E dov’è l’entusiasmo per la nostra vocazione carismatica?

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Thursday, June 10, 2010

Tradition: like voting for the ancestors

G.K. Chesterton made a wonderful statement about tradition (I am talking about tradition with a lower case t): "Tradition means giving votes to the most obscure of all classes, our ancestors. It is the democracy of the dead. Tradition refuses to submit to the small and arrogant oligarchy of those who merely happen to be walking about."

「伝統とは、もっとも隠れた社会階級、我々の先祖に票を入れるようなことである。死者の民主政治である。伝統は、今現在ただ単にこの辺りでうろうろしている、態度が横柄(おおへい)な寡頭政治家に降伏しない。」(Chesterton)

Thursday, June 03, 2010

Analogia Barth, von Balthasar

Keith L. Johnson, Karl Barth and the Analogia Entis (T&T Clark Studies in Systematic Theology)

This is a fascinating new study challenging the classical view of Karl Barth's rejection of the Roman Catholic understanding of analogia entis. Many interpreters argue that Karl Barth's rejection of the Roman Catholic analogia entis was based upon a mistaken interpretation of the principle, and many scholars also contend that late in his career, Barth changed his mind about the analogia entis, either by withdrawing his rejection of it or by adopting some form of it as his own. This book challenges both views, and by doing so, it opens up new avenues for ecumenical dialogue between Protestants and Roman Catholics. In short, this book establishes that Barth did not make a mistake when he rejected the analogia entis and that he also never wavered on his critique of it; he did, however, change his response to it - not by breaking with his earlier thought, but by deepening it so that a true Christological dialogue could take place between Protestant and Roman Catholic theologians. This conclusion will be used to point the way to new terrain for ecumenical dialogue in contemporary discussions. "T&T Clark Studies in Systematic Theology" is a series of monographs in the field of Christian doctrine, with a particular focus on constructive engagement with major topics through historical analysis or contemporary restatement.

Non c'e' modello asiatico

In una intervista all'Asahi Shinbun (pag. 13) del 1 giugno 2010 , Tony Judt (Storico, prof. di Cambridge. Cf. "Postwar: A History of Europe since 1945") dice che non esiste modello asiatico globale alternativo a quello ocidentale.

Domanda: Si dice che il 21 secolo sara' il secolo dell'Asia, ma alcuni non sono daccordo. Tu come la pensi?

Risposta: "Non penso che si sia un 'modello asiatico'. In Cina il modello economico non assicura i diritti degli individui e delle imprese. Al breve termine puo' funzionare, ma nel lungo periodo non puo' diventare un modello globale. Cina e Giappone sono molto diversi, non e' pensabile un modello sino-giapponese. Quando La Boeing, IBM e Microsoft creano qualche prodotto nuovo, prima di tutto contrallano se il prodotto e' compatibile con i regolamenti riguardanti la salute, la sicurezza e il monopolio, non della Cina o degli USA, ma dell'EU. L'EU non e' una grossa economia, ma e' una economia florida. L'Europa e' importante. Bisogna dire che l'importanza economica e quella geopolitica si sono differenziate. Il centro geopolitico si trasferira' nel Pacifico, i centri economici diventeranno molti."
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