Saturday, September 24, 2005

Intelligent design

Albert Einstein was once quoted grappling with the same human experience: “We are in the position of a little child entering a huge library filled with books in many languages. The child knows someone must have written those books. It does not know how. It does not understand the languages in which they were written. The child dimly suspects a mysterious order in the arrangement of the books but doesn’t know what it is. That, it seems to me, is the attitude of even the most intelligent human being toward God. We see the universe marvelously arranged and obeying certain laws but only dimly understand these laws. Our limited minds grasp the mysterious force that moves the constellations.”

Friday, September 23, 2005

Circa il Conclave

Caro Severino,

ho letto anch’io, sulla pagina del Corriere questo resoconto del Conclave. Sul Corriere si dice che il diario verra’ pubblicato per esteso su “Limes”, una rivista che io non conosco.

Bisogna dire che sembra molto verosimile e i conti tornano, pero’ in assenza di ulteriori documentazioni io credo di poter mantenere dei grossi dubbi.
Primo, il segreto riguarda il prima, durante e dopo il Conclave, e non vale autoassolversi dicendo
che il dopo e’ meno grave, perche influisce di meno. Questo anonimo cardinale (se tale e’) non deve farsi illusioni, se il giuramento ha un senso, credo che fara meglio a perfezionare le sue conoscenze in merito all’aspetto morale dei giuramenti.
Secondo, se nonostante il giuramento un cardinale da in pasto alla stampa (a meno che non l’abbia dimenticato sul treno) una cosa del genere, anche a costo della salvezza della sua anima, deve avere dei motivi molto particolari, una specie di agenda politica. Dal che si puo desumere anche i suoi interessi…(cui prodest).
Terzo, c’e’ gente bravissima a scrivere romanzi che sembrano piu veri della realta’. Potrebbe trattarsi, quindi, non di un cardinale, ma di uno scrittore molto astuto che ha fatto bene i suoi calcoli, riuscendo cosi a costruire una nuova probabile ICONA ad uso e consumo dei cosiddetti cattolici progressisti (L’icona di Martini ormai e’ consunta), una specie di controaltare a papa Ratzinger, una bandiera dietro cui questi progressisti possono sentirsi giustificati per continuare a fare le loro battaglie (rimane da vedere se poi Bergoglio se la sentira’ di incarnare questa icona).
Certi giornalisti sanno essere molto scaltri, e se volevano un qualcosa per far diminuire (anche se di poco) agli occhi di certa gente la autorevolezza del papa attuale, questo diario sembra fatto apposta. In un paese come l’Italia in cui tutto viene politicizzato, anche la carta igienica, e’ difficile pensare che il papa la passi liscia. La gente ha sempre bisogno di credere in qualcosa, ma alla fine e’ alle persone che si finisce per credere. Che credenziali ha un cardinale che non ha il coraggio di uscire dall’anonimato? e chi e’ questo Lucio Brunelli? Non so! Chi vuol credere a costoro, faccia pure. Per quanto mi riguarda io conservo i miei dubbi.

Politicizzazione

(Corsera, venerdi 23 settembre 2005, p. 57)

Curioso . Dichiari che la triste malattia nazionale è la pervasività della politica e tutti si mettono a discutere quello che hai detto in termini politici! Sembra proprio che la politica sia l’unica cosa a cui i miei connazionali si appassionano o fingono di appassionarsi. E va bene. Restiamo per un momento sul terreno della politica. La nostra cultura ne è impregnata così tanto da avere una irresistibile tendenza a derealizzare qualsiasi argomento di discussione, trasformando le posizioni individuali in sintomi, effetti, riposizionamenti, segnali da decifrare. Il critico diventa un sottile politologo. Nell’intervista al Corriere del 14 settembre ho solo tentato di applicare in modo paradossale il bipolarismo alla nostra narrativa, ma al preciso scopo di liberarcene! Giocando con le categorie destra-sinistra volevo renderle inutilizzabili - al di fuori di un loro uso proprio - e scompaginare schieramenti letterari troppo convenzionali (probabilmente i romanzi italiani davvero inquieti, capaci di interrogare criticamente il presente, non vanno cercati là dove la collocazione politica dei loro autori ci spingerebbe a farlo). Qualcuno poi ha voluto proporre un teorema suggestivo ma dalle conseguenze devastanti: è legittimo esporre solo quelle idee che comportano gravi rischi personali. Applicato alla lettera ridurrebbe l’intera chiacchiera culturale nel nostro Paese a un imbarazzato silenzio. Non è tempo di rischi eroici né di scelte ineluttabili, e il coraggio fisico - salvo rare eccezioni - si ha occasione di provarlo solo negli sport estremi... La frase incriminata della mia intervista («sono anticomunista») va letta per intero («sono anticomunista e il capitalismo mi fa più orrore di prima»). Non l’ho pronunciata solo per l’ovvietà che ai comunisti il capitalismo non fa orrore per niente, e anzi ne condividono troppe cose. Né pensavo minimamente di compiere un gesto esemplare. Ma perché sono convinto che nel nostro Paese il comunismo rappresenti ancora una mitologia invadente, con la assurda pretesa di essere il pensiero unico della sinistra radicale. Mentre altri filoni di pensiero, anche limitandoci al ’900, nella critica dell’esistente ci appaiono assai più immaginativi e oltranzisti. Il fatto è che oggi il comunismo è vissuto perlopiù come fatto estetico, una elegante retorica capace, tra l’altro, di regalare una patina eccitante di estremismo. Ma il vero problema parafrasando Nicola Chiaromonte, è un altro: si esibiscono idee senza però le ragioni per averle. Ci si può impunemente dichiarare, che so, pacifisti, anche se i propri livelli di vita e di consumo spingono fatalmente verso guerre di conquista... E qui allora vorrei riaffermare il primato della letteratura sulla politica: non solo perché non aspira a controllare eventi e persone, ma perché ci mostra esattamente la relazione, in una esistenza concreta, tra le idee e le loro ragioni.
Filippo La Porta

Friday, September 16, 2005

Della dissimulazione onesta

Corsera 16 settembre 2005-09-16

Vale rifarsi a quel gioiello di profezia che è Della dissimulazione onesta del Torquato Accetto: l’arte della dissimulazione, quando non si identifica con la volgare menzogna, può essere un’arma preziosa per difendersi dall’oppressione dei potenti. A ben vedere, i nostri tempi sono simili al secolo di teatrali bugiardi che è il Seicento. Questi bugiardi sono le scorie della politica, infiltrate nella società. Il bersaglio. Viviamo in un Seicento «al finger sempre pronto e nell’ingannare accorto»: con Jago, falsario dell’amicizia, Don Giovanni, falsario dell’amore, Tartufo, falsario della devozione. «Io non sono quel che sono» proclama Jago, gran fabbro di calunnie. Coscienze instabili; lacerate se oneste; altrimenti tenebrose, vischiose e gaglioffe: «biecamente impaludate e avvolpinate, tra furberie e attentati». L’Accetto, che sensitivo. Ma, se questo fosse il bersaglio di un vero impegno, bisognerebbe affrontarlo senza arabescate formule anche nella vita delle ideologie. Per il resto, siamo ottimisti. Per l’eterosessualità in regresso, abbiamo le Miss Italia. Per lo sconcerto della letteratura, abbiamo i Festival di Mantova.
Alberto Bevilacqua

Lo scopo di un agire ne determina infatti l’essenza.

Emanuele Severino, Corsera 16 settembre 2005-09-16

U n popolo che non voglia vivere in sogno deve guardare l’intera configurazione storica del presente e, se vuole capirne il senso, deve decifrare il passato e il futuro del Pianeta. Per questo, sono d’accordo con Tommaso Padoa-Schioppa, che sul Corriere di domenica si augura che prenda piede «una disincantata osservazione delle tendenze di lungo periodo operanti nell’economia mondiale e nelle nostre società». Ma, se questo disincanto vuol esser radicale, è indispensabile introdurre un fattore ulteriore e decisivo, col quale debbono fare i conti gli individui e le diverse forme economico-sociali, quelle religiose comprese. Intendo riferirmi alla tecnica , guidata dalla scienza moderna. Proprio per questo, intendo riferirmi alla filosofia del nostro tempo, che, adeguatamente intesa, mostra l’inesistenza di ogni limite assoluto che la tecnica non possa oltrepassare - sì che i limiti dell’agire umano sono dati dal diritto «positivo» (cioè «posto», creato dall’uomo) e non da quello «naturale» (da ultimo, di ascendenza divina).
Capitalismo, democrazia, Cristianesimo, Islam, comunismo, nazionalismo (e anche le degenerazioni di queste categorie, come ad esempio il terrorismo islamico o la mafia) sono le forze che oggi si servono della tecnica per prevalere le une sulle altre - e ogni forma economico-sociale si inscrive in esse. Poiché la tecnica è ormai lo Strumento insostituibile per realizzare scopi, ognuna di queste forze evita di ostacolare le prestazioni di tale Strumento, ma anzi mira a rafforzarne sempre di più la potenza. Quando ciò accade - lo vado rilevando da decenni - queste forze finiscono col perdere di vista lo scopo che le caratterizza (ad esempio, per la democrazia lo scopo caratterizzante è la realizzazione di un mondo democratico), e finiscono con l’assumere come scopo il crescente potenziamento dello Strumento-tecnica. Finiscono cioè col diventare qualcosa di essenzialmente diverso da ciò che esse vogliono essere.
Lo scopo di un agire ne determina infatti l’essenza. Il mangiare che è presente nel mangiare per vivere è qualcosa di essenzialmente diverso dal mangiare che è presente nel vivere per mangiare. La democrazia che ha come scopo un mondo democratico è essenzialmente diversa dalla democrazia che, per prevalere, assume come scopo il crescente potenziamento dello Strumento che dovrebbe realizzare quel mondo. Lo stesso si dica del capitalismo, dell’Islam, del Cristianesimo, eccetera. La fondamentale «tendenza di lungo periodo» è appunto questo rovesciamento, dove lo Strumento diventa lo Scopo.
«Il futuro è aperto», cioè «più di un futuro può scaturire da uno stesso presente» - scrive Padoa-Schioppa. È una delle affermazioni centrali della filosofia del nostro tempo. Ma se non si sa come evitare il «rovesciamento» di cui ho parlato qui sopra, allora il futuro è notevolmente meno aperto. Questa conclusione può essere ulteriormente rafforzata. Mi limito ad una sola indicazione.
Ogni strumento si logora. Finisce con l’essere distrutto e sostituito.
Si logora, appunto, per realizzare ciò che deve logorarsi il meno possibile, cioè lo scopo dell’agire che si serve di tale strumento. Le forze sopra nominate, che intendono servirsi della tecnica per realizzare gli scopi da cui esse sono caratterizzate, non possono quindi non logorare la tecnica, assunta nel suo insieme come semplice strumento.
Nel suo insieme, la tecnica non è infatti una macchina tra le altre, e quindi sostituibile. Nel suo insieme, la tecnica non è oggi sostituibile da uno strumento più efficace. Quindi il suo logoramento riduce la capacità di realizzare gli scopi delle forze che della tecnica intendono servirsi. Tra mezzo e fine non c’è solidarietà, ma contraddizione. Appunto perché il mezzo, per rendere stabile il fine, deve logorarsi, e logorandosi determina l’instabilità del fine. Accade così che capitalismo, democrazia, Cristianesimo, Islam, eccetera, per rendere stabili i loro scopi, provvedano a logorare il meno possibile lo Strumento tecnica. Ma quando ciò accade, il loro scopo autentico non è più quello che esse credono di realizzare, ma è il logoramento minimo dello Strumento, e cioè, daccapo è il potenziamento crescente di tale Strumento. Sia «a destra» sia «a sinistra» si crede che le forze di cui abbiamo parlato, e persino gli individui e i gruppi sociali, abbiano la capacità di controllare la tecnica, cioè di servirsene come semplice mezzo. E mi sembra che anche Padoa-Schioppa condivida questa tesi. Ma, per reggersi, questa tesi non deve fare i conti con le considerazioni di sopra sviluppate? Certo, esse sono solo un cenno. D’altra parte, alle obiezioni che si possono loro rivolgere, già da tempo ho altrove risposto.

Thursday, September 15, 2005

Intelletuali prima fascisti e poi antifascisti

martedì, 13 settembre, 2005 Corsera


Il lungo oblio degli intellettuali prima fascisti e poi antifascisti
Solo durante la guerra si staccarono dal regime e poi tentarono di far dimenticare il loro passato

Paul Ricoeur ha scritto che contro l' odio distruttore c' è l' oblio che preserva. Ma l' oblio può placare le memorie individuali, non quella collettiva, che una società democratica deve conservare, se vuole mantenere e rafforzare la propria identità. La democrazia italiana non è più minacciata da nessun pericolo interno e possiamo scavare nel passato, pure in quello che abbiamo per lungo tempo rimosso, senza il timore di portare nuovo alimento alla pianta dei rancori e dell' odio. E fare luce così anche su tutti gli aspetti della pagina meno conosciuta della nostra storia: la transizione dal fascismo alla democrazia, attraverso una guerra che ci vide alleati della Germania nazista dal 1940 al 1943, prima del lungo e doloroso riscatto. Non sarebbe stato possibile assolvere a questo compito nei primi anni del dopoguerra: l' Italia doveva riacquistare credibilità sul piano internazionale, attenuando le proprie responsabilità. E far rimarginare rapidamente le sue ferite, per poter procedere alla ricostruzione. Queste esigenze politiche furono messe giustamente in primo piano. L' analisi storica poteva attendere. Ma ha atteso troppo. E questa è stata indubbiamente una grave colpa degli intellettuali, che, per la loro maggiore visibilità, si sono sentiti i più esposti all' accusa di avere accettato compromessi col regime, per viltà o conformismo. Attenzione però. Quello sugli intellettuali è un capitolo della storia del Paese Italia e riflettere sul loro ruolo significa ripensarla per intero, riappropriandosi anche di quella parte del passato che è stata rimossa o occultata. E non per trarne motivi d' irrisione o di scandalo, ma soltanto per capire. Non sarà facile. Gli storici dovranno riaprire album di famiglia, rimettere in discussione maestri, rinunciare a solidarietà di scuole. In parte, hanno già incominciato a farlo, ma in studi rigidamente specialistici e con troppe cautele. E anche così ne sono nate spesso furibonde polemiche. È facile prevedere che esse si accenderanno anche sull' ultima opera di Mirella Serri ( I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio, pagine 369, e 19,60). La Serri rileva che, per rendere possibile la redenzione degli intellettuali che erano stati fascisti, la sinistra adottò nel dopoguerra una chiave di lettura «prospettica», proiettata verso gli approdi del futuro: la collaborazione alla politica culturale del regime fu interpretata come «dissimulazione onesta», teorizzata su Primato, la rivista di Giuseppe Bottai, da Carlo Muscetta, che riprendeva l' omonimo trattato seicentesco di Torquato Accetto. Essa sarebbe stata resa possibile da una certa acquiescenza da parte del gerarca. Ma questa acquiescenza era strumentale. Bottai voleva servirsi di tutte le forze disponibili e perciò anche degli intellettuali che non erano fascisti, per realizzare un suo grandioso quanto velleitario disegno: «lavorare sul Nuovo ordine europeo - ricorda la Serri - e contrastare l' egemonia tedesca in questo campo», contrapponendo alla superiorità economica e militare tedesca il «primato» della cultura italiana. Il tema del Nuovo Ordine da costruire dopo la vittoria fu caro soprattutto a Carlo Morandi. La Serri riprende e svolge ampiamente, in maniera equilibrata e ben documentata, una tesi defeliciana: il passaggio dal fascismo all' antifascismo fu determinato nella maggioranza dei casi dall' esperienza della guerra. È una tesi valida sia per gli intellettuali che per il resto della popolazione. C' è un indubbio parallelismo tra l' evoluzione dell' opinione pubblica, studiata da Pietro Cavallo nel suo volume su Gli italiani in guerra (Il Mulino, 1997), e quella del ceto intellettuale ricostruita da Mirella Serri. Soltanto un pregiudizio ideologico può portare a negare che la nascita di un antifascismo di massa si verificò nella seconda metà del 1942 e fu dovuta alla guerra e alle sconfitte. Certo, si possono individuare differenti percorsi, individuali o di singoli gruppi. Ma vanno tutti studiati in stretto riferimento allo svolgimento delle vicende belliche. Sarebbe utile vedere se l' attacco di Hitler all' Unione Sovietica, cominciato il 22 giugno 1941, abbia segnato una svolta negli atteggiamenti degli intellettuali che scrivevano sulle riviste fasciste ed erano comunisti o lo sarebbero diventati. Se consideriamo alcune delle prese di posizione più sconcertanti, come la celebrazione dell' «estetica del carro armato» di Galvano Della Volpe nel momento in cui le truppe corazzate tedesche avanzavano su Calais, l' impegno pubblicistico e redazionale di Mario Alicata nelle riviste del regime e la pubblicazione su Primato, il primo maggio del 1941, di una copertina di Renato Guttuso celebrativa dei paracadutisti e della guerra, non possiamo fare a meno di rilevare che in quei mesi era ancora in vigore il patto di non aggressione tra l' Unione Sovietica e il Terzo Reich e sembrava perciò possibile una comune lotta «rivoluzionaria» contro il decadente Occidente borghese. Renato Guttuso pubblicò scritti e disegni su Primato anche dopo l' inizio della guerra contro l' Unione Sovietica. Nello stesso tempo s' iscriveva al Partito comunista e partecipava alla lotta clandestina. Negli anni Trenta il Pci aveva cercato di praticare l' «entrismo», ordinando ai suoi militanti di entrare nelle organizzazioni di massa, per sabotarle dall' interno. Ma il caso di Guttuso, e non è il solo, non è spiegabile con l' «entrismo». Forse capiremo di più soltanto quando avremo delle esaurienti biografie, documentate e non reticenti, di tutti i protagonisti delle vicende culturali di quegli anni. Fu Togliatti, nel 1944, subito dopo il suo ritorno in Italia, a dare vita a una politica di apertura verso gli intellettuali che erano stati fascisti. Non c' è dubbio che il partito comunista ne trasse molti vantaggi, soprattutto sul piano dell' immagine. Ma li pagò con la reticenza su quello che era realmente avvenuto negli anni dal 1938 al 1943: i militanti che erano stati in carcere o in esilio dovettero far mostra di avere combattuto la stessa battaglia di quelli che, volenti o nolenti, avevano collaborato al progetto di un Nuovo ordine europeo fascista. IL SAGGIO Mirella Serri rievoca gli anni dei Littoriali ] Nel saggio «I redenti» (Corbaccio), in libreria dopodomani, Mirella Serri ripercorre la parabola di numerosi intellettuali che collaborarono alla rivista «Primato» di Giuseppe Bottai, per passare poi dal fascismo all' antifascismo ] Tra i personaggi più famosi di cui si parla nel libro: Giulio Carlo Argan, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Renato Guttuso, Galvano Della Volpe, Carlo Morandi, Carlo Muscetta, Roberto Rossellini ] L' autrice insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all' Università di Roma Renato Guttuso nel maggio del 1941 disegnò, per la rivista «Primato» del gerarca Giuseppe Bottai, una copertina celebrativa dei paracadutisti
Lepre Aurelio

Wednesday, September 14, 2005

司教

「監督(司教)は、信仰に入って間もない人(ネオフトン)ではいけません。それでは、高慢になって悪魔と同じ裁きを受けかねないからです。」 (1テモテ3、6)


mh; neovfuton, i{na mh; tufwqei;" eij" krivma ejmpevsh/ tou' diabovlou.

Saturday, September 10, 2005

Identita' eccentrica dell'Europa

L'occidentale ha sempre alle spalle una CLASSICITA' esterna da imitare
ed una BARBARIE interna da sottomettere.

REMI BRAGUE, Il futuro dell'Occidente, Bompiani, 2005.

Sull'invidia

"Un cuore sereno e' vita per tutto il corpo, l'nvidia e' simile a un cancro per le ossa" (Proverbi 14, 30)

"La serenita' allunga i giorni della vita, tensione e rabbia accorciano la vita" (Siracide 30, 22-24)

"L'invidia e' una ammissione di inferiorita'" (Victor Hugo)


"Il primo sintomo del nostro fallimento e' l'invidia per il successo degli altri".