Wednesday, January 22, 2014

Insight p. 548


形而上学的論争を識別するための五つ(六つ)の二分法(dichotomies)

Insight p. 548

 

 

0
非存在
単純な誤り
 
 
存在
 
 

 

超越的存在
神学
 
 
比例的存在
 
 

 

我々に関係する物事
常識
 
 
物事の相互関係
 
 

 

科学
諸科学
 
 
形而上学
形而上学
 

 

空虚な命題
 
 
 
根拠付けられた命題
 
 

 

反立脚点
 
 
 
立脚点
 
 

 

Saturday, January 18, 2014

Dalle Confessioni alla Lumen fidei

Dalle Confessioni alla Lumen fidei

Il filo di Agostino Tra Ratzinger e Bergoglio

di LEONARD O LUGARESI


All'inizio della terza parte dell'enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto,
come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (...). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede.
«La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attvita missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico.
Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l'immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un'accezione sempre un po' illuministica, e — nell'esistenza quotidiana — a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile. Ci manca l'esperienza della luce come dono e quella dell'ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l'antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell'enciclica (n. 4), ma per farlo oc-
corre dunque comprendere che tale luce non è quella di un'immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po' come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci "illuminati", ma nel senso proprio del participio passato del verbo,
non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l'oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell'ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell'intendere l'immagine della luce della fede, si coglie mag
giormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall'enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant'Agostino — scrive Papa Francesco — troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell'orizzonte della fede. (...) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo
verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un'immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l'illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam,
non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da "illuminati", nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e iintendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione
del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione dall'una all'altra, per cui letteralmente si capovolge l'orientamento della vita? Agostino ce lo mostra esemplarmente nell'ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che
possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i "cristianisti"
senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia. Ma Vittorino è un uomo seria-
mente preoccupato del suo destino, che sa — come dice splendidamente Agostino — «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all'amico dicendogli semplicemente:
«Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri). Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l'offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la ce-rimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si
mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2,5).
L'attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su
uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l'antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di illuminazione" (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il
tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (...)
Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro,
non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via
per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di
profilarsi in certi recenti dibattiti intra ecclesiali.








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Messa a Santa Marta

Messa a Santa Marta
Cosi fan tutti

La "mondanità spirituale" è una tentazione pericolosa perché "ammorbidisce il cuore" con l'egoismo e insinua nei cristiani un "complesso di inferiorità" che li porta a uniformarsi al mondo, ad agire "come fanno tutti" seguendo "la moda più divertente". È un invito a vivere la "docilità spirituale" senza "vendere" la propria identità cristiana quello espresso da Papa Francesco nella messa celebrata venerdì 17 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta.
Come nei giorni scorsi, per la sua riflessione il Pontefice ha preso spunto dalla lettura liturgica tratta del primo libro di Samuele. "Abbiamo visto - ha spiegato - come il popolo si era allontanato da Dio, aveva perso la conoscenza della parola di Dio: non la sentiva, non la meditava". E "quando non c'è la parola di Dio - ha detto - il posto viene preso da un'altra parola: la parola propria, la parola del proprio egoismo, la parola delle proprie voglie. E anche la parola del mondo".
Meditando quanto narrato nel libro di Samuele "abbiamo visto - ha proseguito - come il popolo, allontanato dalla parola di Dio, aveva sofferto quelle sconfitte" che avevano provocato tantissimi morti e lasciato "vedove e orfani". Erano "le sconfitte" di un popolo che "si era allontanato" dalla strada indicata dal Signore.
Allontanarsi da Dio, ha notato il Pontefice, significa perciò imboccare una strada che inevitabilmente "porta a quello che abbiamo sentito oggi (1 Samuele 8, 4-7.10-22a): il popolo rigetta Dio. Non solo non sente la parola di Dio, ma lo rigetta" e finisce per dire: "possiamo governarci da noi stessi, siamo liberi e vogliamo andare su questa strada".
Samuele, ha proseguito il Papa, "soffre per questo e va dal Signore. E il Signore, con quel buon senso che ha", suggerisce a Samuele: "Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro".
In sostanza, ha spiegato il Papa, "il Signore lascia che il popolo continui ad allontanarsi da lui", facendogli fare "esperienza" di cosa significhi questo distacco. "E Samuele - ha detto ancora il Pontefice - prova a convincerli e dice tutte queste cose che abbiamo sentito, che farà il re con loro, con i loro figli, con le loro figlie". Eppure, nonostante gli avvertimenti, "il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele" e chiese di avere "un re come giudice".
E qui, ha spiegato il Papa, c'è "la frase" decisiva, "la chiave di interpretazione" per comprendere la questione. Risponde infatti il popolo a Samuele: "Saremo anche noi come tutti i popoli". È questo il loro primo pensiero, "la prima proposta: un re che sia "nostro giudice", come avviene per tutti i popoli". Una richiesta - ha affermato il Pontefice - motivata da un fatto: si erano "dimenticati che loro erano un popolo eletto. Un popolo del Signore. Un popolo scelto con amore, portato avanti dalla mano" di Dio, proprio "come il papà porta il bambino". Hanno "dimenticato tutto questo amore" e vogliono diventare come tutti i popoli.
Questo desiderio - ha detto ancora il Papa - "tornerà come tentazione nella storia del popolo eletto. Ricordiamo il tempo dei Maccabei, quando loro hanno negoziato l'appartenenza come popolo eletto per essere come tutti gli altri popoli. È una vera insurrezione. Il popolo si ribella contro il Signore". E questa, ha puntualizzato, "è la porta che si apre verso la mondanità: come fanno tutti. Con i valori che abbiamo ma come fanno loro"; e non invece "come tu che mi hai eletto mi dici di fare". La conseguenza pratica è che "rigettano il Signore dell'amore, rigettano l'elezione. E cercano la strada della mondanità".
Certo, ha precisato il Papa, "è vero che il cristiano deve essere normale, come sono normali le persone. Questo lo dice già la Lettera a Diogneto, nei primi tempi della Chiesa. Ma - ha avvertito - ci sono valori che il cristiano non può prendere per sé". Egli infatti "deve ritenere su di sé la parola di Dio che gli dice: tu sei mio figlio, tu sei eletto, io sono con te, io cammino con te". E "la normalità della vita esige dal cristiano fedeltà alla sua elezione". Questa sua elezione non deve mai "venderla per andare verso una uniformità mondana: questa è le tentazione del popolo e anche la nostra".
Papa Francesco ha messo in guardia dalla tentazione di dimenticare "la parola di Dio, quello che ci dice il Signore" per rincorrere invece "la parola di moda". E ha commentato: "Anche quella della telenovela è di moda! Prendiamo quella: è più divertente!". Questo atteggiamento di "mondanità", ha precisato, "è più pericoloso perché è più sottile"; mentre "l'apostasia", cioè "proprio il peccato della rottura col Signore", si vede e si riconosce chiaramente.
Di più: dire che "saremo anche noi come tutti i popoli" rivela il fatto che essi "si sentivano con un certo complesso di inferiorità per non essere un popolo normale. E la tentazione è lì, è dire: noi sappiamo cosa dovremo fare, che il Signore stia tranquillo a casa sua!". Quello in fondo era il loro pensiero, che non si discosta "dal racconto del primo peccato", cioè dalla tentazione di prendere la propria strada e di sapere già da soli come "conoscere il bene e il male".
"La tentazione - ha scandito il Pontefice - indurisce il cuore. E quando il cuore è duro, quando il cuore non è aperto, la parola di Dio non può entrare". Non a caso Gesù ha detto "a quelli di Emmaus: stolti e tardi di cuore!"; avendo "il cuore duro, non potevano capire la parola di Dio".
Proprio "la mondanità ammorbidisce il cuore". Ma gli fa "male". Perché, ha notato il Papa, "non è mai una cosa buona il cuore morbido. Buono è il cuore aperto alla parola di Dio, che la riceve. Come la Madonna che meditava tutte queste cose in cuor suo, dice il Vangelo". Ecco dunque la priorità: "ricevere la parola di Dio per non allontanarsi dell'elezione".
"Nella preghiera all'inizio della messa - ha ricordato il Pontefice - abbiamo chiesto la grazia di superare i nostri egoismi", in particolare quello di voler fare la propria volontà. Papa Francesco ha suggerito, in conclusione, di rinnovare al Signore la richiesta di questa grazia. E di invocare anche "la grazia della docilità spirituale, cioè di aprire il cuore alla parola di Dio". Per "non fare come questi nostri fratelli che hanno chiuso il cuore perché si erano allontanati da Dio e da tempo non sentivano e non capivano la parola di Dio". Che "il Signore ci dia la grazia - ha auspicato - di un cuore aperto per ricevere la parola di Dio", per "meditarla sempre" e per "prendere la vera strada".


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Wednesday, January 15, 2014

Vescovi corrotti

Messa del Papa a Santa Marta

Osservatore romano mercoledì 15 gennaio 2014

E l’anziano Eli, poveretto, non aveva niente da fare. La guardava e pensava: questa
è un’ubriaca. E la disprezzò. Lui era il rappresentante della fede», colui
che avrebbe dovuto insegnare la fede, ma «il suo cuore non sentiva bene
e disprezzò questa signora. Le dice: vai via, ubriaca!».
«Quante volte il popolo di Dio — ha constatato il Santo Padre — si
sente non ben voluto da quelli che devono dare testimonianza, dai cristiani,
dai laici cristiani, dai preti, dai vescovi!».
Nel brano della scrittura, ha osservato il Pontefice, i suoi figli non
si vedono, ma erano quelli che gestivano il tempio. «Erano briganti.
Erano sacerdoti — ha detto — ma briganti. Andavano dietro al potere
e dietro ai soldi; sfruttavano la gente, approfittavano delle elemosine e
dei doni. Dice la Bibbia che prendevano i pezzi più belli dei sacrifici
per mangiare loro. Sfruttavano. Il Signore li punisce forte, questi due!».
Per il Papa essi rappresentano «la figura del cristiano corrotto, del laico
corrotto, del prete corrotto, del vescovo corrotto.Approfittano della
situazione, del privilegio della fede, di essere cristiani. E il loro cuore finisce
corrotto.

Monday, January 13, 2014

Categories of being Insight p. 545

Categories of being Insight p. 545

第4章
単語表現が意味するものは、
「実体」(例:人間、馬)
「量」(例:2ペーキュス、3ペーキュス)
「質」(例:白い、文法的)
「関係」(例:二倍、半分、より大きい)
「場所」(例:リュケイオン、市場)
「時」(例:昨日、昨年)
「体位」(例:横たわっている、坐っている)
「所持」(例:靴を履いている、武装している)
「能動」(例:切る、焼く)
「受動」(例:切られる、焼かれる)
のいずれかである。

中心的可能態 形相 現実態
接合的可能態 形相 現実態

原子
分子
細胞
有機体
頭脳
意識

存在の大いなる連鎖 Great Chain of Being. 参照

鉱物 植物 動物

物質 精神
経験的残滓 地震の神戸

区別と関係

親子は年をとっても関係は変わらない。

本来的指示 外来的指示

形相因 形相的効果
質料因
作用因
目的因







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Friday, January 10, 2014

Information and the Nature of Reality

Information and the Nature of Reality
From Physics to Metaphysics

Appunti di lettura

information → laws of physics → matter. p. 3

It almost seems that it is to the potential, rather than the actual, that reality should be attributed at the most fundamental level. Yet can there be poten- tialities without the actual? The potentialities here are not indef- inite: they are quantified in various ways depending on the kind of field in question. Going from Aristotelian matter to the materialism of the early modern period involved a move from an indefinite poten- tial, constrained eventually only in terms of quantity, to spatially extended, and indisputably actual, hard massy particles. From these particles to the 'matter' of present-day physics could be described as a move back again to potentiality, although no longer indefinite. p. 33

Mind-body
A non- reductive solution is still called for. p. 36

Finally, one must add the name of perhaps the greatest Western metaphysician of the twentieth century, Alfred North Whitehead. Whitehead was the first major metaphysical thinker to write his system after the breakthroughs of Einstein's theories of special and general relativity. His Process and Reality (1929) is meant to be an empirically sensitive work, a response to scientific develop- ments in physics and cosmology that is continually open to revision. But commentators have also recognized that Whitehead's proposals are deeply reliant on something like a Leibnizian atomism. p. 49

As a result of this philosophical quagmire, most theologians have abandoned the idea that God exists necessarily. p. 66

The God hypothesis is not contradicted by any, and is quite strongly supported by some, of the speculations of contemporary information theory. So my conclusion is that the ultimate ontological reality is indeed information, but that infor- mation is ultimately held in the mind of God, and such a hypoth- esis expresses one of the most coherent and plausible accounts of the nature of ultimate reality that is available to us in the modern scientific age. p. 299

Accordingly, an informa- tional universe would have to wend its way narratively between the two extremes of absolute noise and absolute redundancy. p. 311

リダンダンシー 冗長性






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