Friday, November 26, 2010

Jullien Cina e universalita'

F. Jullien, De l'universel de l'uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Fayard, Paris 2008, trad. it. L'universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. XI+190, ISBN 978-88-420-8775-5

"[P]rendiamo in considerazione una cultura che non si affida ad alcuna Rivelazione, ma la cui capacita' di integrazione e di accentramento ideologico e' talmente forte da spingerla a identificarsi con il centro del mondo e a considerare i propri valori pienamente imitabili ed esportabili senza limite alcuno. Sto parlando della Cina: una cultura che 'non si pone neanche' la questione della possibile universalita' dei propri valori. Ma potremmo anche considerare il caso della Cina insieme a quello del Giappone, cosi' da mettere in luce l'uno attraverso l'altro. Due casi opposti, e tuttavia in entrambi ci si dispensa dal porre la 'questione' dell'universale: in uno l'universalita' culturale risulta scontata, nell'altro incongrua. Il Giappone non vi presta attenzione poiche' si compiace della propria specificita' locale che rivendica facendo appello alla sua insularita', al suo clima, ai suoi terremoti, alle sue pianure strette tra le montagne e alle sue coste frastagliate (fudo/yamato, ecc): si considera una terra dal destino unico, distinta dalle altre e protetta dagli dei. Riluttante a intaccare il proprio sentimento di coesione interna, quando e' chiamata a riconoscere la propria dipendenza culturale dal suo imponenete vicino essa riscopre la sua coscienza identitaria attraverso un confronto continuo. Il Giappone, dal punto di vista dei suoi stessi abitanti, e' una cultura del singolare: la questione dell'universale la lascia indifferente.
La Cina invece, nel suo estendersi lungo grandi fiumi e vaste pianure, incontra le proprie province di frontiera ma non scorge mai veri e propri limiti al proprio impero (se non il mare). Sente a tal punto la propria cultura come globale da ritenere questa globalita' un dato di fatto naturale e da non avvertire la necessita' di un concetto di universale che la rivendichi. Lo spazio che assegna a se stessa e' tutto lo spazio che si estende "Sotto il cielo" (tian xia) e "dentro ai quattro mari", fino alle estremita' del globo; il potere del suo sovrano si estende sull'intero genere umano. Di lui viene detto che "Il Figlio del Cielo e' senza eguali", nessuno puo' essere messo sul suo stesso piano e "nessuno, tra i quattro mari, puo' riceverlo seguendo i riti dell'ospitalita'" poiche' tutto "sotto il cielo" e' "sua dimora" e "non v'e' per lui luogo esterno ove recarsi" (Xunzi, inizio del capitolo "Junzi"). Quindi, "qualunche siano le frontiere che attraversa e i paesi in cui va", "non si puo' dire che vi si rechi, poiche' egli e' ovunque a casa sua"...


Gia' nella piu' antica raccolta di poesie cinesi, lo 'Shijing', si legge: "Universalmente sotto il cielo/ non vi e' nulla che non sia terra del Re" (Xiaoya, "Bei Shan" 溥天之下、莫非王土). Cio' che qui traduciamo con "universale" ('bo', ripreso oltre con 'pu') significa "che non puo' incontrare limiti" o anche "infinitamente esteso": non aspira, in senso stretto, al dover essere, ma non immagina neanche delle restrizioni all'affermazione di se'. L'iperbole non esprime qui l'invocazione di una necessita', bensi il non-sospetto di una possibile alterita' (esteriorita'). Non affifando la propria legittimazione ad alcun verbo sacro - non rivendicando quindi alcun Messaggio, ne' richiamandosi ad alcuna grande Epopea - la Cina antica non percepisce se stessa come predestinata, ne' tantomeno come provilegiata: e' semplicemente l'unica civilta' da essa stessa (ri)conosciuta. Dal suo punto di vista, tutto cio' che la circonda semplicemente non ha ancora avuto accesso alla civilta', in quanto non e' ancora "sinizzato".

Thursday, November 25, 2010

Crisostomo agnelli e lupi

Seconda Lettura Giovedi seconda sett. 25 Novembre

Dalle «Omelie sul vangelo di Matteo» di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 33,1.2; PG 57,389-390)

Se saremo agnelli vinceremo, se lupi saremo vinti

Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell'aiuto del pastore. Egli non pasce lupi, ma agnelli. Per questo se ne andrà e ti lascerà solo, perché gli impedisci di manifestare la sua potenza.
È come se Cristo avesse detto: Non turbatevi per il fatto che, mandandovi tra i lupi, io vi ordino di essere come agnelli e colombe. Avrei potuto dirvi il contrario e risparmiarvi ogni sofferenza, impedirvi di essere esposti come agnelli ai lupi e rendervi più forti dei leoni. Ma è necessario che avvenga così, poiché questo vi rende più gloriosi e manifesta la mia potenza. La stessa cosa diceva a Paolo: «Ti basta la mia grazia, perché la mia potenza si manifesti pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Sono io dunque che vi ho voluto così miti.
Per questo quando dice: «Vi mando come agnelli» (Lc 10,3), vuol far capire che non devono abbattersi, perché sa bene che con la loro mansuetudine saranno invincibili per tutti.
E volendo poi che i suoi discepoli agiscano spontaneamente, per non sembrare che tutto derivi dalla grazia e non credere di esser premiati senza alcun motivo, aggiunge: «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt 10,16). Ma cosa può fare la nostra prudenza, ci potrebbero obiettare, in mezzo a tanti pericoli? Come potremo essere prudenti, quando siamo sbattuti da tante tempeste? Cosa potrà fare un agnello con la prudenza quando viene circondato da lupi feroci? Per quanto grande sia la semplicità di una colomba, a che le gioverà quando sarà aggredita dagli avvoltoi? Certo, a quegli animali non serve, ma a voi gioverà moltissimo.
E vediamo che genere di prudenza richieda: quella «del serpente». Come il serpente abbandona tutto, anche il corpo, e non si oppone pur di risparmiare il capo, così anche tu, pur di salvare la fede, abbandona tutto, i beni, il corpo e la stessa vita.
La fede è come il capo e la radice. Conservando questa, anche se perderai tutto, riconquisterai ogni cosa con maggiore abbondanza. Ecco perché non ordina di essere solamente semplici o solamente prudenti, ma unisce queste due qualità, in modo che diventino virtù. Esige la prudenza del serpente, perché tu non riceva delle ferite mortali, e la semplicità della colomba, perché non ti vendichi di chi ti ingiuria e non allontani con la vendetta coloro che ti tendono insidie. A nulla giova la prudenza senza la semplicità.
Nessuno pensi che questi comandamenti non si possano praticare. Cristo conosce meglio di ogni altro la natura delle cose. Sa bene che la violenza non si arrende alla violenza, ma alla mansuetudine.

Friday, October 15, 2010

カトリック中央協議会. 「カトリック風日本教」

がんばれ中央協!
傑作(2)
2005/11/23(水) 午後 4:11

はなはだ残念なことであるが、心ある人々の間では、日本のカトリック教会の公式メディアに対する評価は極めて低い。

教会の公文書を日本語に翻訳して出版するのはカトリック中央協議会(中央協)の役目なのだが、重要な文書が翻訳されず日本の信徒に伝わらないままになっているケースが多々あり、口さがない人たちから「自分たちに都合の悪い文書は隠している」と陰口を叩かれるほどだ。
中央協に処理能力がないわけではない。前教皇ヨハネ・パウロ2世の使徒的書簡『おとめマリアのロザリオ』は、公布されてから何とたったの3ヶ月で日本語訳が出版されている。そんなことだから、翻訳するしないを決めるに当たって何か作為(情報統制)があると勘ぐられることにもなるのだろう。


キリスト教をよく知らない人のために説明してみよう。カトリック教会を一つの会社だとする。本社がローマにあり、全社的な意思決定はそこで行われる。全社員に関わる社内規定が改正されることになり、本社は各支社に通知を送るのだが、日本支社ではその通知を握りつぶしてしまい、社員に伝えていない、ということだ。もし本当だとすれば、大変な問題なのである。

このように噂されるような状況では、「カトリック風の日本教会」ではなく「本当のカトリック」を知りたい人や、神・教会・教皇と一致した信仰生活を求める人は、海外のメディアに頼るしかないのかもしれない。IT時代の今では、教皇庁のHPや海外のカトリック公式サイトに誰でもアクセスできる。しかし、外国語を解さない人は情報弱者のまま取り残されている。


ただし、中央協の名誉のためにも言っておくが、最近では改善の兆しもあるとも言われている。

公布されてから何年もたっているとはいえ、2000年に改正された『ローマ・ミサ典礼書の総則』が昨年に出版されたことも評価すべきだろう。あくまで「暫定版」だとはいえ、日本のミサがカトリック教会の本当のミサからいかに逸脱しているか、信徒が気付くきっかけともなりかねない本を、中央協が出版したのだから。

最近の話題では、典礼秘跡聖省の「聖体の年」を送るための提案“The Year of the Eucharist - Suggestions and Proposals”の抜粋が、中央協のページに日本語で掲載された。
その中には、聖体について「とくにトリエント公会議と第2バチカン公会議、最近の教導権の文書」を学ぶべきだとか、「聖体行列は・・・とくに大切である」とか、神学校では「ラテン語とグレゴリオ聖歌、およびそれらに由来する伝統的祈り」を教えるべきだとか、およそ日本の風潮と正反対のことが提言として挙げられている。
いや実に、そのとおりに実行されれば、日本の教会と世界との隔たりも少しは小さくなることだろう。

決して多くはない人数で膨大な業務をこなしているであろう中央協も大変だとは思うが、是非これからは日本の正統信仰再生のために、聖庁の正確な情報をもっと伝えてほしいものだ。


Viva Papa(教皇聖下万歳)! がんばれ日本! がんばれ中央協!


http://blogs.yahoo.co.jp/agnus_d_vir/17277018.html

Sunday, October 03, 2010

Uso della Dottrina Sociale della Chiesa

ROMA, sabato, 2 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, nell'aprire sabato 25 settembre a Trieste la presentazione del Secondo Rapporto sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato da Cantagalli.


* * *

Abbiamo fissato la formula riassuntiva del secondo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo con questa espressione: “La Dottrina sociale della Chiesa segno di contraddizione”. Ed è proprio questa espressione che vorrei chiarire con voi, perché così facendo penso di chiarire il senso globale di questo Rapporto.

Vorrei partire ricordandovi quando ha scritto Benedetto XVI il 10 marzo 2009 nella Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre: «Il vero problema in questo nostro momento della storia é che Dio sparisce dall´orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l´umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più. Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo».

Questo è, a mio avviso e ad avviso dei Redattori del Rapporto, il punto discriminante due modi di intendere la Dottrina sociale della Chiesa: come etica condivisa per accompagnare il mondo oppure come strumento per aprire un posto di Dio nel mondo. Il Rapporto mette in evidenza che quando la Dottrina sociale della Chiesa viene intesa in questo secondo modo – come uno strumento per aprire un posto di Dio nel mondo – c’è una reazione del mondo e c’è anche una reazione nella Chiesa. Il mondo non accetta e non accettano nemmeno tanti nella Chiesa. Una Dottrina sociale della Chiesa intesa come una proposta laica con cui dialogare con il mondo, viene accettata, perché rischia di essere innocua. Ma una Dottrina sociale che considerasse il Cristianesimo non solo utile ma anche indispensabile per la costruzione di una società veramente umana, come dice il n. 4 della Caritas in veritate, sarebbe combattuta fuori e dentro la Chiesa.

(...)
I due livelli del fatto che la Dottrina sociale della Chiesa è oggi “segno di contraddizione” – quello esterno e quello interno alla Chiesa - vanno collegati insieme.

Le incertezze nel rapporto con il mondo non solo non fanno bene al dialogo con il mondo ma producono anche divisioni dentro la Chiesa.

E’ per questo che, tra l’altro, si assiste ad un preoccupante indebolimento nella capacità degli episcopati di compattare i cattolici dietro ai loro insegnamenti su temi di morale pubblica, specialmente nei paesi occidentali, ove è più forte l’ondata di ritorno dentro la Chiesa delle divisioni nei rapporti con il mondo.

Non è vero che si possa essere divisi su temi di morale pubblica fondamentale come la vita e la famiglia e che si possa contemporaneamente essere uniti sul piano della fede.

L’onda di ritorno produce anche divisioni e incertezze nella fede.

La vocazione dell’uomo è, infatti, una sola e non ci si può dividere nella concezione teologica su cosa significhi difesa del creato e mantenere la stessa fede nel Creatore. Per lo stesso motivo per cui la Dottrina sociale della Chiesa è educazione alla fede, essa diventa diseducazione alla fede quando non vissuta ed applicata nel giusto spirito.

Durante il 2009 Benedetto XVI ha tenuto importanti insegnamenti su come debba interpretarsi la Scrittura, di cui riferiamo nel capitolo sul magistero sociale del Santo Padre nel Rapporto. Egli ha sostenuto che non si legge adeguatamente la Scrittura se non la si interpreta dentro la tradizione viva della Chiesa, se non la si considera come un tutto e se non si tengono insieme tutte le verità della fede cattolica.

Allo stesso modo possiamo dire che non si vive adeguatamente la Dottrina sociale della Chiesa se non la si inserisce dentro la tradizione viva della Chiesa, se non la si considera come un tutto e se non si tengono insieme tutte le verità della proposta cristiana. Questo, con ogni probabilità, non eliminerà il suo essere “segno di contraddizione”, che le appartiene in virtù della croce di Cristo, ma le consentirà di dialogare meglio con il mondo e, soprattutto, di educare alla fede piuttosto che dividere i cattolici tra di loro.

Friday, October 01, 2010

たらいからたらいに移るちんぷんかんぷん

たらいからたらいに移るちんぷんかんぷん

小林一茶

盥(たらい)から盥とは
産まれた時の産湯の盥に浸かり
亡くなった後に湯灌で体を清められる盥のことです。

結局人生とは
盥で始まり盥で終わる
その間のことはあっという間のちんぷんかんぷん・・・

かつて江戸後期の俳人・小林一茶は、次のような辞世の句を残した。
 「たらいからたらいへ移る ちんぷんかんぷん」
 最初の「たらい」は赤ん坊を洗う「産湯」であり、次の「たらい」は、死んだ人の体を洗い清める「湯潅」のことである。人生とはたらいからたらいへ移るだけのもので、ちんぷんかんぷんだと彼は言ったのである。

Thursday, September 30, 2010

Cristianesimo e civilta' giuridica europea

Verita' e storicita' non necessariamente si escludono l'una con l'altra, ma, al contrario, continuamente si richiamano, perche' una Verita' astorica non toccherebbe gli uomini, che sono al contrario storici, mentre gli uomini a loro volta, cercano di non rimanere nel caos e nella violenza, ma di interpretare i fatti per trovare in essi una ragione, un bene e un male, un giusto e un ingiusto come l'intera storia della filosofia del diritto dimostra. L'Autore (N. IRTI, La tenaglia. In difesa dell'ideologia politica, Roma-Bari, Laterza, 2008) non ci conduce alla ( necessita' di una) Rivelazione, ma osserva molto pertinentemente che le tecniche non possono giustificare i fini che si pongono, e che dunque la giustificazione razionale di essi deve essere trovata altrove.
(...)
Il principio di lettura, se vogliamo la chiave ordinatrice, la password di questo criptato file che e' l'esistenza, non puo' appartenere soltanto all'esistenza stessa, proprio per la necessita' che cosi' avrebbe di essere spiegato di nuovo: e questo non e' un gioco di parole, ma un'esigenza logica.
(...)
La nostra ragione e' come una ragnatela: essa tesse i percorsi sinuosi delle logiche umane, disegnando cosi' reti nelle quali "intrappolare" le cose della vita, per comprendere il loro posto, il loro significato nell'insieme. Ma, proprio come una ragnatela si appoggia su punti ad essa esterni per reggersi, cosi' i nostri ragionamenti richiedono di poggiarsi su punti-forza esterni ad essi: essi si chiamano principi, e sono appunto gli inizi del nostro ragionare, proprio come gli assiomi della geometria, che non sono dimostrati, ma rendono possibile ogni dimostrazione. E "assioma" [gr: AXIOMA] significa letteralmente "degno di fede", di affidamento, di fiducia: esso e' un salto nel buio, una proposizione a cui aderiamo senza dimostrarla. (...) Sara' poi la congruita' o meno dei ragionamenti a partire da essi, e cioe' la loro rispondenza alla realta', a verificare. o a falsificare, i ragionamenti stessi. Infatti la nostra ragione non e' misura delle cose, ma al contrario le cose misurano la verita' o falsita' dei nostri ragionamenti (Cfr. Summa Theol., I-II, q.91, a. 3: Non ratio est mensura rerum, sed potius e converso.)


Quaderno N°3740 del 15/04/2006 - (Civ. Catt. II 105-208 )
Articolo
IL CRISTIANESIMO E LA CIVILTÀ GIURIDICA EUROPEA
Ottavio De Bertolis S.I.
Molti aspetti della cultura giuridica occidentale derivano dalle concezioni presenti nel diritto canonico: il rifiuto della sacralità del potere umano, e quindi la distinzione tra sfera religiosa e sfera politica; il concetto di persona come soggetto di relazione, che ha la sua radice nella Trinità; l’uguale dignità, e quindi la libertà di tutti a livello di individui e di popoli, per la presenza in ciascuno dello stesso Spirito di Cristo. In ogni caso il dato di fede non impone norme al legislatore civile, ma propone valori. L’Autore è professore nella Facoltà di diritto canonico della Pont. Università Gregoriana (Roma).

© Civiltà Cattolica pag.145-156

Proprio il problema della competenza delle competenze, ossia l'inevitabile storico dissidio tra potere secolare e spirituale, e' cio' che dimostra che "il nostro specifico ordinamento occidentale liberal-democratico e cresciuto in simbiosi e dialettica con uno specifico ordinamento morale" (P. PRODI, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 1998, 463).
Qui stanno le radici della de-magnificazione del potere e dello sviluppo successivo delle liberta' costituzionali, Il che significa che per la sopravvivenza della nostra civilta' occidentale liberale e costituzionale e' necessario che la querelle sulla competenza delle competenze rimanga come tale: se infatto ci limitiamo "alla giustizia come ordinamento positivo e' la stessa civilta' liberale a soccombere" (p. 482).

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Truth 'and historicity' are not necessarily mutually exclusive with each other, but on the contrary, continually refer to each other, because a non-historical truth would not touch human beings, who are otherwise historical beings, while men in turn, try not to get into chaos and violence, but to interpret the facts to find reason in them, both good and evil, justice and injustice as the whole history of philosophy of law shows. The author (IRTI N., La tenaglia. In difesa dell'ideologia politica, Roma-Bari, Laterza, 2008 ) does not lead us to (the necessity of a) Revelation, but notes very pertinently that the techniques can not justify the ends posed, and therefore the rationale for them must be found elsewhere.
(...)
The principle of reading, if you want the ordering key, the password of this encrypted file and that is existence, can not' belong only to the same existence, because then that would have to be explained again, and this is not 'a play on words, but a requirement of logic.
(...)
Our reason is like a spider web: it weaves the winding paths of human logic, drawing so many networks in which "trap" the things in life, to understand their place, their meaning across. But, just like a spider web is supported by external stand point to it, so our reasonings require to be based on points-force external to them: they are called principles, and are just the beginning of our thinking, just as the axioms of geometry, which are not proven, but make possible every demonstration. And "axiom" [gr: Axiom] literally means "worthy of faith, reliance, trust: it is a leap in the dark, a proposition to which we adhere without proof. (...) Then fairness or otherwise of the reasonings from them, and that means 'their correspondence to reality', what will verify or lalsify the argument itself. In fact, our reason is not 'measure of things, but otherwise things measure the truth or falsity of our reason (cf. Summa Theol., I-II, q.91, a. 3: Non ratio est mensura rerum , sed potius e converso.)


Quaderno No. 3740 of 15/04/2006 - (Civ. Catt. II 105-208)
Article
CHRISTIANITY AND CIVILIZATION OF EUROPEAN LAW
Ottavio De Bertolis S.I.
Many aspects of Western legal culture derived from the concepts in the canon law: the rejection of the sacredness of human power, and thus the distinction between the religious sphere and political sphere, the concept of a person as a subject of the relation, which has its roots in the Trinity; the equal dignity, and therefore the freedom of everyone at the level of individuals and peoples, because of the presence in each of the same Spirit of Christ. In any case, the content of faith does not impose rules on civil law, but suggests values. The author is a professor in the Faculty of Canon Law of the Pont. Gregorian University (Rome).

© Catholic Civilization pag.145-156

It is exactly the question of competence of competences, that is the inevitable historic split between secular and spiritual power, that shows that "our particular Western liberal-democratic order and raised in symbiosis and dialectic with a specific moral order" (P . PRODI, A story of justice, Bologna, Il Mulino, 1998, 463).
Here are the roots of the de-magnification of power and the subsequent development of constitutional freedom which means that for the survival of our Western liberal constitutional civilization it is required that the controversy concerning the powers of powers remain as such because, when the we simply limit ourselves to "positive law and justice" 'liberal civilization itself' will succumb" (p. 482).

Saturday, September 25, 2010

Postcolonial studies

Amselle, Jean-Loup, Il distacco dall’Occidente
Meltemi, Roma 2009, pp. 252, € 24,00, ISBN 978-88-8353-688-5
Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010

Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità

Indice - L'autore - Link

Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.

Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.

La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.

Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.

Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).

In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.

Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.

A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.
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Introduzione

1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale

Conclusione

Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia

Bibliografia

Indice dei nomi propri

L'autore

Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).

Link

Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:
http://www.meltemieditore.it/PDFfiles/ildistaccodalloccidente_interviste.pdf

Postcolonial studies

Amselle, Jean-Loup, Il distacco dall’Occidente
Meltemi, Roma 2009, pp. 252, € 24,00, ISBN 978-88-8353-688-5
Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010

Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità

Indice - L'autore - Link

Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.

Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.

La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.

Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.

Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).

In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.

Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.

A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.
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Introduzione

1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale

Conclusione

Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia

Bibliografia

Indice dei nomi propri

L'autore

Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).

Link

Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:
http://www.meltemieditore.it/PDFfiles/ildistaccodalloccidente_interviste.pdf

Thursday, September 16, 2010

Ermeneutica delle sacre scritture

September 14, 2010, 9:00 PM New York Times
The Meaning of the Koran
By ROBERT WRIGHT

Robert Wright on culture, politics and world affairs.

TAGS:

JIHAD, SACRED TEXTS, THE KORAN

Test your religious literacy:

Which sacred text says that Jesus is the “word” of God? a) the Gospel of John; b) the Book of Isaiah; c) the Koran.

The correct answer is the Koran. But if you guessed the Gospel of John you get partial credit because its opening passage — “In the beginning was the word, and the word was with God” — is an implicit reference to Jesus. In fact, when Muhammad described Jesus as God’s word, he was no doubt aware that he was affirming Christian teaching.

Extra-credit question: Which sacred text has this to say about the Hebrews: God, in his “prescience,” chose “the children of Israel … above all peoples”? I won’t bother to list the choices, since you’ve probably caught onto my game by now; that line, too, is in the Koran.

I highlight these passages in part for the sake of any self-appointed guardians of Judeo-Christian civilization who might still harbor plans to burn the Koran. I want them to be aware of everything that would go up in smoke.

But I should concede that I haven’t told the whole story. Even while calling Jesus the word of God — and “the Messiah” — the Koran denies that he was the son of God or was himself divine. And, though the Koran does call the Jews God’s chosen people, and sings the praises of Moses, and says that Jews and Muslims worship the same God, it also has anti-Jewish, and for that matter anti-Christian, passages.

The regrettable parts of the Koran — the regrettable parts of any religious scripture — don’t have to matter.
This darker side of the Koran, presumably, has already come to the attention of would-be Koran burners and, more broadly, to many of the anti-Muslim Americans whom cynical politicians like Newt Gingrich are trying to harness and multiply. The other side of the Koran — the part that stresses interfaith harmony — is better known in liberal circles.

As for people who are familiar with both sides of the Koran — people who know the whole story — well, there may not be many of them. It’s characteristic of contemporary political discourse that the whole story doesn’t come to the attention of many people.

Thus, there are liberals who say that “jihad” refers to a person’s internal struggle to do what is right. And that’s true. There are conservatives who say “jihad” refers to military struggle. That’s true, too. But few people get the whole picture, which, actually, can be summarized pretty concisely:


Bay Ismoyo/Agence France-Presse — Getty Images
Reading the scripture.
The Koran’s exhortations to jihad in the military sense are sometimes brutal in tone but are so hedged by qualifiers that Muhammad clearly doesn’t espouse perpetual war against unbelievers, and is open to peace with them. (Here, for example, is my exegesis of the “sword verse,” the most famous jihadist passage in the Koran.) The formal doctrine of military jihad — which isn’t found in the Koran, and evolved only after Muhammad’s death — does seem to have initially been about endless conquest, but was then subject to so much amendment and re-interpretation as to render it compatible with world peace. Meanwhile, in the hadith — the non-Koranic sayings of the Prophet — the tradition arose that Muhammad had called holy war the “lesser jihad” and said that the “greater jihad” was the struggle against animal impulses within each Muslim’s soul.

Why do people tend to hear only one side of the story? A common explanation is that the digital age makes it easy to wall yourself off from inconvenient data, to spend your time in ideological “cocoons,” to hang out at blogs where you are part of a choir that gets preached to.

Makes sense to me. But, however big a role the Internet plays, it’s just amplifying something human: a tendency to latch onto evidence consistent with your worldview and ignore or downplay contrary evidence.

This side of human nature is generally labeled a bad thing, and it’s true that it sponsors a lot of bigotry, strife and war. But it actually has its upside. It means that the regrettable parts of the Koran — the regrettable parts of any religious scripture — don’t have to matter.

After all, the adherents of a given religion, like everyone else, focus on things that confirm their attitudes and ignore things that don’t. And they carry that tunnel vision into their own scripture; if there is hatred in their hearts, they’ll fasten onto the hateful parts of scripture, but if there’s not, they won’t. That’s why American Muslims of good will can describe Islam simply as a religion of love. They see the good parts of scripture, and either don’t see the bad or have ways of minimizing it.

So too with people who see in the Bible a loving and infinitely good God. They can maintain that view only by ignoring or downplaying parts of their scripture.

For example, there are those passages where God hands out the death sentence to infidels. In Deuteronomy, the Israelites are told to commit genocide — to destroy nearby peoples who worship the wrong Gods, and to make sure to kill all men, women and children. (“You must not let anything that breathes remain alive.”)

As for the New Testament, there’s that moment when Jesus calls a woman and her daughter “dogs” because they aren’t from Israel. In a way that’s the opposite of anti-Semitism — but not in a good way. And speaking of anti-Semitism, the New Testament, like the Koran, has some unflattering things to say about Jews.

Devoted Bible readers who aren’t hateful ignore or downplay all these passages rather than take them as guidance. They put to good use the tunnel vision that is part of human nature.

All the Abrahamic scriptures have all kinds of meanings — good and bad — and the question is which meanings will be activated and which will be inert. It all depends on what attitude believers bring to the text. So whenever we do things that influence the attitudes of believers, we shape the living meaning of their scriptures. In this sense, it’s actually within the power of non-Muslim Americans to help determine the meaning of the Koran. If we want its meaning to be as benign as possible, I recommend that we not talk about burning it. And if we want imams to fill mosques with messages of brotherly love, I recommend that we not tell them where they can and can’t build their mosques.

Of course, the street runs both ways. Muslims can influence the attitudes of Christians and Jews and hence the meanings of their texts. The less threatening that Muslims seem, the more welcoming Christians and Jews will be, and the more benign Christianity and Judaism will be. (A good first step would be to bring more Americans into contact with some of the overwhelming majority of Muslims who are in fact not threatening.)

You can even imagine a kind of virtuous circle: the less menacing each side seems, the less menacing the other side becomes — which in turn makes the first side less menacing still, and so on; the meaning of the Abrahamic scriptures would, in a real sense, get better and better and better.

Lately, it seems, things have been moving in the opposite direction; the circle has been getting vicious. And it’s in the nature of vicious circles that they’re hard to stop, much less reverse. On the other hand, if, through the concerted effort of people of good will, you do reverse a vicious circle, the very momentum that sustained it can build in the other direction — and at that point the force will be with you.

Postscript: The quotations of the Koran come from Sura 4:171 (where Jesus is called God’s word), and Sura 44:32 (where the “children of Israel” are lauded). I’ve used the Rodwell translation, but the only place the choice of translator matters is the part that says God presciently placed the children of Israel above all others. Other translations say “purposefully,” or “knowingly.” By the way, if you’re curious as to the reason for the Koran’s seeming ambivalence toward Christians and Jews:

By my reading, the Koran is to a large extent the record of Muhammad’s attempt to bring all the area’s Christians, Jews and Arab polytheists into his Abrahamic flock, and it reflects, in turns, both his bitter disappointment at failing to do so and the many theological and ritual overtures he had made along the way. (For a time Muslims celebrated Yom Kippur, and they initially prayed toward Jerusalem, not Mecca.) That the suras aren’t ordered chronologically obscures this underlying logic.

Successo o Fedelta'

Si può paradossalmente dire che il vero successo del cristiano è l'accettazione del suo insuccesso; il Signore non ti richiede tanto il successo quanto la fedeltà.

Friday, August 20, 2010

サン・ロレンソ教会:400年ミサ 「友好深める契機に」日韓信徒ら参列 /長崎  ◇禁教令中に日朝で建立  

サン・ロレンソ教会:400年ミサ 「友好深める契機に」日韓信徒ら参列 /長崎
 ◇禁教令中に日朝で建立

 豊臣秀吉の朝鮮出兵に伴い長崎に連行された朝鮮人が1610年に長崎に建てたと伝わる「サン・ロレンソ教会」の献堂400年記念ミサが10日、長崎市のカトリック中町教会で開かれ、日韓両国の信徒ら約100人が参列した。禁教令の中で朝鮮人と日本人が協力して建立したとされ、関係者は「日韓併合100年の今年、改めて両国の友好関係を深める契機に」と語った。

 カトリック長崎大司教区によると、当時日本に連行された朝鮮人が、キリスト教が盛んな長崎で信徒となり、当時「高麗町」と呼ばれた地に教会を建てた。その際、日本人からも浄財が寄せられたという。江戸幕府の弾圧で1620年に教会は破壊され、教会の正確な跡地は現在不明だが、文献などから現在の長崎市伊勢町周辺と推定されている。

 ミサは、サン・ロレンソ教会の歴史を調べている在日韓国人信徒の趙健治さん(66)=対馬市=がカトリック長崎大司教区に呼び掛けて実現。日韓両国の司祭が執り行い、高見三明カトリック長崎大司教(64)は、朝鮮出兵や日韓併合に触れ「日韓の歴史は友好と対立の繰り返しだった。一司教として心からおわびしたい。ミサを機に、許しと和解による平和な関係を築いていくべきだ」と呼び掛けた。【錦織祐一】

Sunday, August 15, 2010

Cultura e Religiosita' nel Giappone moderno

La riflessione su natura e identità
segna la differenza tra la cultura e la religiosità orientale e occidentale
Due mondi a confronto sulla parola «Io»

Pubblichiamo una sintesi della conferenza tenuta dall'Ambasciatore del Giappone presso la Santa Sede al Circolo di Roma in occasione dell'incontro intitolato "Culture and Religiosity in Modern Japan".

di Kagefumi Ueno

Almeno tre elementi distinguono, dal punto di vista filosofico, il cristianesimo dalla religiosità nipponica e tre le parole-chiave: "ego", "natura" e "assolutizzazione". È ben netta la distinzione tra il concetto di ego buddhista-shintoista e quello monoteista occidentale. Anche il modo di concepire la natura in oriente è sostanzialmente diverso da quello occidentale: per i giapponesi la natura è divina e da riverire, sentimento non condiviso dagli occidentali. In terzo luogo, la mentalità religiosa dei giapponesi li porta a essere molto meno propensi degli occidentali a credere in valori assoluti.
Due parole sull'ego. In quale modo il concetto religioso tradizionale nipponico dell'ego si differenzia dal punto di vista occidentale? Semplificando, i buddhisti-shintoisti credono che, per raggiungere la vera libertà spirituale, ci si debba liberare da tutti i karma o desideri dell'ego e da connessi interessi, dalla speranza e, in ultima istanza, dall'ego. L'espressione liberare/buttar via implica l'idea di rinuncia, di azzeramento. Parafrasiamo. La vera libertà o Realtà assoluta si raggiungono solo abbandonando l'ego, annullando la propria identità. L'uno e l'altra dovrebbero integrarsi con Madre natura.
Diversamente, le religioni monoteistiche sembrano basarsi sull'assunto che gli esseri umani siano divinità in "miniatura", creati a somiglianza dell'immagine divina. Il fine di avvicinarsi il più possibile alla divinità li porta a raffinare, a consolidare, a elevare fino alla perfezione l'ego. L'idea di disfarsi dell'ego neppure li sfiora.
In breve i monoteisti, tendendo a ingigantire se non a rendere perfetto l'ego, sono massimalisti. Non occorre una particolare immaginazione per capire che l'ego così inteso è ritenuto inviolabile, sacro. Al contrario, i buddhisti-shintoisti, per raggiungere la Realtà Ultima puntano a minimizzare, ad azzerare l'ego. Sono minimalisti. Persino il concetto della propria dignità o onore va allontanato. Lungi dal considerarsi mini-divinità, non cercano la perfezione per meglio avvicinarsi alla divinità. Questo sarebbe infatti un desiderio, sorta di karma da rigettare. In termini di immagine, mi figuro l'ego occidentale come una palla grande, solida, aurea, da tenere sempre lucida. L'ego buddhista, invece, lo immagino simile all'aria o al gas, privo di forme, sostanza elastica e difficile - impossibile - da lucidare.
Secondo la religiosità nipponica, l'essere umano non deve limitarsi solo a rinunciare al karma, ai desideri e all'ego. Dovrebbe raggiungere il distacco dal pensiero logico. In fondo, per l'homo japonicus, la religiosità è quel regno da cui sono banditi anche il lògos, il pensiero logico, l'approccio deduttivo. In particolare per i seguaci del Buddhismo Zen tradizionale, persino valori opposti come Bene e Male vanno trascesi. Allo stadio spirituale più profondo della religiosità buddhista non ci sono più santità, verità, giustizia, male, bellezza. Persino la speranza, non più stampella a cui aggrapparsi, è da evitare. La libertà ultima si raggiunge grazie alla passività assoluta. I buddhisti credono che il distacco dai desideri sia necessario per guardare l'eternità. Nell'universo, non vi è nulla di eterno o di assoluto. Ogni essere è transitorio, in altri termini relativo. La Realtà ultima risiede nel "vuoto/nulla", o nell'ambiguità.
Per introdurvi allo spirito della filosofia orientale che insegna il distacco dal lògos, vorrei segnalarvi alcune espressioni proprie del Buddismo Zen: "Molti è uno. Uno è molti"; "Essere è non essere"; "Essere è Mu (nulla). Mu è essere"; "La Realtà è Mu. Mu è la realtà"; "Ogni cosa viene dal Mu e viene assorbita nel Mu. Una volta distaccati dalla "visione della ragione", si trascendono valori opposti come il bene e il male. La libertà ultima si ottiene grazie alla passività assoluta. Alla fine, lo spirito sarà come un albero o una pietra.
Passiamo al secondo elemento: la natura. Per gli occidentali, il divino è nel creatore, non nella natura da lui creata. Per i buddhisti-shintoisti, invece, la divinità risiede nella natura stessa, autogenerata. Assente il concetto di un creatore esterno all'universo, fuori dal nulla. La divinità permea Madre natura e tutto quel che abbraccia, esseri umani, flora, rocce, fontane: ogni cosa. Per i buddhisti-shintoisti, non esiste realtà ultima fuori della natura. In altri termini, la divinità è intrinseca alla Natura stessa.
Per l'homo japonicus, esseri umani e Natura sono intimamente uniti, inseparabili e non indipendenti. In quest'ottica, vorrei fare un commento usando un'espressione alla moda quale simbiosi o convivenza con la natura. Parole care agli ecologisti. A dire il vero questo termine veicola un concetto che, ai miei occhi, si tinge di arroganza, di antropocentrismo oserei dire, in quanto gli esseri umani si considerano alla pari con la natura. Secondo la religiosità nipponica tradizionale, gli esseri umani sono sottomessi alla natura. Lei dovrebbe essere la vera protagonista. A loro spetterebbe un ruolo umile, che non può aspirare a uno status di uguaglianza con la natura. L'uomo dovrebbe ascoltare con attenzione le voci della natura, accettandone con umiltà il dominio.
Vista su questo sfondo, in termini di amore e di rispetto verso la Natura o gli animali, la cultura giapponese appare particolarmente profonda e ricca. Per tradizione a tutt'oggi il popolo giapponese tratta con rispetto e con spirito religioso la Natura e gli animali. Significativamente Higashiyama Kaii, noto paesaggista, ha detto una volta in una intervista televisiva di aver acquisito con la maturità la consapevolezza che la natura talvolta gli parli. Ne avverte la voce, ne percepisce il sentimento. In quell'occasione l'artista arrivò ad aggiungere che il suo lavoro di pittore della natura non è opera sua, ma della Natura stessa. In modo simile Munakata Shiko, famoso incisore su legno, dichiarò alla tv che quando con spirito calmo si dedicava al suo lavoro, si sentiva ispirato proprio dallo spirito del legno che andava incidendo. Così - aggiunse - il lavoro effettivo non era lui a compierlo, ma lo spirito del legno!
Enrique Gómez Carrillo, giornalista guatemalteco che da Parigi scriveva articoli per giornali latino-americani, nel 1912 scrisse El Japón heroico y galante, libro destinato a essere per i successivi cinquant'anni una delle più popolari "guide" sul Giappone per i latinoamericani. Osservava: "I giapponesi amano la natura e la amano con animo religiosissimo. Sin dalla tenera età viene insegnato ai bambini come amare piante e insetti. Un amore che non è mera intesa o affetto. Sanno percepire il cuore melanconico dei ramoscelli, l'agonia delle piante, le sofferte lacrime lasciate scorrere dai grandi alberi. Ragazzi e ragazze vivono in stretta sintonia con le piante". E ancora: "I temi poetici preferiti dai giapponesi attengono allo stato effimero dell'essere, allo scorrere delle stagioni, al mormorio dei ruscelli, al sussurrio di fiori e di alberi, alle rocce ammantate di muschio e così via, piuttosto che alla gloria delle grandi gesta dell'uomo". Le sue osservazioni mettono a fuoco con acutezza la cosmo-visione nipponica.
Siamo al terzo elemento: l'assolutizzazione dei valori. Alla luce della mentalità religiosa buddhista-shintoista appena abbozzata i giapponesi non amano aggrapparsi ad alcun valore assoluto. Non credono né in una giustizia assoluta né in un male assoluto. Per loro ogni essere è, in sostanza, relativo; ogni valore, intendo valore positivo, è possibile finché non collide con altri valori. In caso di collisione, nessun particolare valore andrebbe considerato assoluto a spese degli altri. Perché? Semplicemente perché il senso più profondo della loro filosofia religiosa vuole che niente di assoluto esista nell'universo. Esiste solo l'impermanente. Diamo ora uno sguardo alla religiosità nipponica attraverso lo spettro del pre-moderno, moderno e post-moderno per chiederci: la civiltà giapponese contemporanea è post-moderna?
Nel passato - o almeno fino a tutto il XIX secolo - in ogni angolo del mondo si credeva che la modernizzazione delle nazioni si potesse realizzare solo in società dalla religiosità monoteistica cristiana. La rilevante modernizzazione del Giappone smonta questo assunto. Molte nazioni non cristiane si sono modernizzate, sull'esempio nipponico. Di conseguenza il loro emergere confuta il presunto legame tra modernizzazione e monoteismo. Appare chiaro che l'approccio politeistico, animista o panteista non comporta un regresso, se paragonato all'approccio monoteistico.
In particolare in Giappone, modernità e forme di approccio scientifico, tecnologico-razionale non solo coesistono con la mentalità panteistica e animista, considerata pre-moderna, ma ne escono rinvigorite, rafforzate. Insisto: molti prodotti nipponici di alta tecnologia sono programmati, disegnati, prodotti e commercializzati da persone che hanno più o meno la mentalità e la religiosità appena illustrata. Anzi, il livello di tecnologia o di qualità del design viene accresciuto dall'unione delle due diverse componenti: mentalità scientifica e mentalità animista.
Ad esempio, molte ditte nipponiche, quando si installano nuovi macchinari nei loro stabilimenti, invitano sacerdoti shintoisti a officiare cerimonie rituali, per auspicare un corretto funzionamento dei macchinari. Allo stesso modo, si compiono riti di ringraziamento verso lo spirito dei macchinari, prima di demolirli. Anche in campo edilizio, i costruttori si affidano a rituali shintoisti per impetrare la sicurezza dei futuri lavori con una cerimonia all'aria aperta.
In definitiva, nel Giappone contemporaneo, la mentalità pre-moderna panteistico-animista e la moderna alta tecnologia sono strettamente connesse. Si potrebbe definire la civiltà contemporanea nipponica un ibrido di pre-modernità e di modernità. Quindi assolutamente post-moderna!
Ho provato a concentrarmi sulla dimensione filosofica mettendo in luce le differenze tra oriente e occidente. Ritengo tuttavia che, a livello pratico, le due religiosità abbiano un certo terreno comune. Provo ad accennarlo.
Circa ottant'anni fa, Gandhi, uno dei padri fondatori dell'India moderna, inseriva il "commercio senza moralità" tra i sette peccati sociali. Gli altri sei da lui evidenziati erano: la politica senza principi, la ricchezza senza lavoro, il divertimento senza coscienza, la conoscenza senza carattere, la scienza senza moralità e la religione senza sacrificio. Anche il Papa e la Santa Sede in numerosi messaggi hanno ripetutamente condannato l'assenza di considerazioni morali da parte di molti leader del mondo degli affari.
In Giappone voci simili si sono alzate ad esempio, tra economisti di orientamento buddhista. Nelle ultime decadi, infatti, alcuni economisti hanno cominciato a utilizzare la filosofia buddhista in analisi di tipo economico, fondando la nuova disciplina chiamata economia buddhista. Ho il piacere di tracciare le linee del pensiero-base foggiante questa "nuova" economia.
Gli economisti buddhisti criticano in generale il neo-liberalismo che ha dominato le politiche economiche delle più grandi potenze mondiali nelle ultime decadi, aggravando la disuguaglianza economica, l'ingiustizia, il predominio assoluto del profitto, il deterioramento dell'ambiente a livello globale. Sebbene vi siano punti di vista divergenti tra gli economisti dalla visione buddhista, credo che tutti condividano otto concetti chiave come comune denominatore. Tali concetti sono: rispetto della vita, non-violenza, chisoku ("sapersi accontentare"), kyousei ("capacità di convivere assieme"), semplicità, frugalità, altruismo, sostenibilità, rispetto della diversità.
Ad esempio, l'economista tedesco Ernest Friedrich Schumacher, uno dei padri fondatori di questa economia, autore del celebre Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, mette particolarmente in luce chisoku e semplicità. Allo stesso modo Wangari Maathai, ambientalista keniota premio Nobel per la Pace 2004, crede in una filosofia simile a quella dell'economia buddhista. Nota per la sua attività a favore della Mottainai-Campaign che punta a far conoscere a livello internazionale le tre r (Ri-usa, Riduci e Ricicla), alcuni anni fa durante un suo soggiorno in Giappone l'ambientalista ebbe modo di conoscere il termine mottainai che in sostanza significa: "Mai gettare le cose minime in quanto anch'esse sono portatrici di valori intrinseci".
A quel punto Wangari Maathai ebbe l'ispirazione di condurre una nuova campagna alla luce dell'approccio mottainai ovvero delle tre "r" da diffondere in tutto il mondo. Secondo l'ambientalista, volendo proteggere e preservare l'ambiente, lo spirito di Mottainai è indispensabile. Inutile dire che questo spirito è in sintonia con il pensiero base dell'economia buddhista che si batte per politiche che portino al distacco da un approccio che privilegi solo lo sviluppo; distacco da una produzione basata sul petrolio; istituzione di un nuovo meccanismo internazionale che abolisca ogni forma di violenza. Potrebbe essere un'idea interessante organizzare un dialogo in questo campo tra economisti di orientamento sia buddhista sia cattolico.
In conclusione, semplifico il mio messaggio. Permettetemi di definire il buddhismo-shintoismo come un "sushi spirituale" e il cristianesimo come "spaghetti spirituali". Da quanto ho detto, è evidente che il "sushi spirituale" e gli "spaghetti spirituali" hanno sapori distinti tra loro. Vorrei però aggiungere che entrambi sono squisiti.



(©L'Osservatore Romano 14 agosto 2010)

Tuesday, August 03, 2010

La fede non può fare a meno della ragione

La fede non può fare a meno della ragione
Abramo e i filosofi


di Inos Biffi
Non di rado si sente da parte di teologi o di pensatori "spirituali" esaltare il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" (Esodo, 4, 5; Matteo, 22, 32), conosciuto nel suo rivelarsi mediante la storia della salvezza, e invece considerare con sospetto e indifferenza il "Dio dei filosofi", conosciuto attraverso l'esercizio della ragione.
Spesso, anzi, si dubita che il riconoscimento dell'esistenza di Dio possa essere un traguardo della ragione; e, in ogni caso, il Dio così raggiunto per tale via, sarebbe un Dio freddo e anonimo, imprigionato nei concetti; insomma, un "Motore immobile", senza affetto e cura per l'uomo, che, a sua volta, non potrebbe realmente amarlo ed entrare in una viva relazione con lui.
Si tratta di solito dei medesimi teologi che, convinti e almeno in certa misura conniventi dell'attuale crisi della metafisica, com'è chiamata, sono scettici o indifferenti rispetto all'affermazione del Vaticano i, là dove si dichiara che "Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza dalla luce della ragione umana, a partire dalle realtà create" (Costituzione Dei Filius, 2).
Certamente, non si può mettere in dubbio la diversità incomparabile tra la conoscenza del "Dio di Abramo", rivelato dalla "narrazione" di Gesù Cristo, suo Figlio, in particolare nel mistero della sua morte e risurrezione, e la conoscenza di Dio raggiunta dall'itinerario della ragione.
La prima è l'esito della condiscendenza di Dio, che manifesta per grazia il suo intimo e inarrivabile mistero. La seconda è raggiunta con l'itinerario della mente umana che arriva a Dio per via di una rigorosa analisi critica dell'esperienza degli enti, che non hanno in sé il fondamento del loro esserci, ma rimandano alla sublimis veritas - come dice san Tommaso - di un Essere in cui essenza ed esistenza coincidono.
Il teologo non rimuove e non abroga mai la radicale struttura "teologica" della ragione, né pone in alternativa, e meno ancora in contraddizione, il Dio dei filosofi e il "Dio di Abramo". La ragione non si aggiunge dall'esterno al disegno salvifico di Dio. Essa, infatti, è inclusa nel soprannaturale, essendo stata creata per mezzo di Cristo, in lui e in vista di lui e, come tutto l'uomo, risanata dalla redenzione. Di più: proprio per l'intima capacità della ragione di giungere a una prima e fondamentale immagine di Dio, può avere un primo senso lo stesso linguaggio teologico della Rivelazione.
Abbiamo detto del "Motore immobile": questo viene normalmente frainteso e disdegnato. In realtà il "Motore immobile" predica l'esistenza di un Essere, Atto puro, che possiede ogni perfezione. Immobilità non significa affatto fredda indifferenza, così come "Motore" non equivale a una anonima meccanicità.
Il senso è tutt'altro: si vuol affermare che non siamo più di fronte agli enti imperfetti, frammentari ed effimeri della nostra esperienza, ma a un Essere, sottratto a qualsiasi inquietudine e mutamento, che sta all'origine di ogni perfezione. Un Essere in grado di creare, cioè di "dare l'essere" mentre negli enti "non ci può essere nulla che non provenga da Dio, che è la causa universale dell'essere nella sua totalità" (Summa Theologiae i, 45, 2 c).
Se si nega la possibilità "teologica" della ragione, questa stessa si trova su un "sentiero interrotto": alla fine a trovarsi bloccata, per poi risultare inevitabilmente e completamente negata, è la ragione medesima. Una ragione atea equivale, alla fine, a una non-ragione.
Nella Summa contra Gentiles (i, 4) Tommaso afferma: "Quasi tutta la riflessione filosofica ha come termine la conoscenza di Dio ". Certo, non vi si può arrivare, se non "con l'impegno di uno studio laborioso", "che pochi vogliono affrontare per amore della scienza".
Per altro, la filosofia di san Tommaso scorre tutta tra questi due poli: da un lato, la persona umana, che è il desiderio supremo dell'universo, senza la quale esso sarebbe insignificante e, dall'altro, Dio, "sommo fastigio della ricerca umana", che libera l'uomo dalla sua invivibile solitudine e impossibile speranza.
Non si esaltano, quindi, la teologia e la sua originalità deprimendo la ragione e particolarmente quella "teologica". Alla base di questa persuasione, è una concezione "depressa" della ragione stessa, e si dimentica che, in una cultura in cui l'intelletto sia disanimato, anche la teologia si trova fatalmente vacillante, affidata alle volubilità dell'affetto e agli affanni del desiderio, che, senza l'intelletto che ne illumini l'oggetto, non possono essere riscattate dall'arbitrio.
Lo dimostra la storia stessa della teologia, e sintomaticamente quel filone che, nella sua forma completamente deviata, ha prodotto l'eresia della Riforma, dove la fede è intesa come l'antitesi della ragione.
In realtà, a ben vedere, il segno della completa sanità della ragione è la sua possibilità di giungere ad affermare Dio sulle tracce delle creature e nella forma dell'analogia.
Ma è il caso di aggiungere, da un lato, che bisogna riacquistare il valore imprescindibile dei concetti e delle definizioni, senza di cui ogni pensiero e ogni discorso si sfascia e si scioglie nella con-fusione, e nulla più si tiene insieme.
C'è chi aborrisce i concetti aridi. Veramente, un concetto non è arido né umido, né grasso né magro: è semplicemente la via imprescindibile e mirabile con cui l'uomo comprende e comunica, per quel che può, ben sapendo che nessuna "realtà" è esauribile dall'intelletto, e specialmente la realtà di Dio, che nessuna definizione sarà mai in grado di comprendere, se non per analogia.
Dall'altro lato va quindi sottolineata la convinzione di san Tommaso secondo il quale, in accordo col Damasceno (De fide orthodoxa, i, 4), "noi di Dio non possiamo sapere ciò che è, ma solo ciò che non è" (Summa Theologiae, i, 2, 2, ob. 2); e infatti "al termine della nostra conoscenza noi conosciamo Dio come il non-conosciuto, dal momento che la mente raggiunge il vertice della sua conoscenza di Dio, quando arriva ad avvertire che la sua essenza sta al di sopra di tutto quello che è in grado di conoscere lungo il cammino di questa vita; resta così ignota la sua essenza, e tuttavia si sa che egli esiste" (In Librum Boethii de Trinitate, i, 1, 2, 1m).
Quindi nessuna pretenziosità del concetto a "imprigionare" Dio in categorie umane. Del resto, qualsiasi genere di realtà "oltrepassa" sempre i confini della sua definizione. I teologi che deplorano i concetti freddi e aridi e aborriscono le definizioni, si compiacciono di richiamare che Dio è amore ed è bellezza, e quindi, liberi dal disturbo dei concetti, possono coltivare il dialogo col pensiero non credente.
Certamente, Dio è amore, che tocca la facoltà del bonum ed è bellezza, che attiva la facoltà del pulchrum. Ma per essere percepito come amore e come bellezza bisogna che Dio sia colto nel suo "essere" ed esserci, e quindi appaia nella sua obiettiva verità capace di riscattare dall'arbitrio.
Solo allora può rivelarsi la prerogativa di Dio di essere originariamente amore e bellezza: amore, in cui si risolve tutto il Bonum e che può divenire termine di desiderio; bellezza, in cui si risolve tutto il Pulchrum e che può divenire oggetto di ammirazione. Ed è il caso di osservare che, se soltanto "il Dio di Abramo" rivela la storia concreta e compiuta di questo amore e di questa bellezza, anche il Dio dei filosofi è un Dio al quale essenzialmente appartengono queste sue prerogative.
Ma torniamo al sospetto "teologico" sui concetti, per rilevarne la superficialità e la connivenza con la diffusa e confusa cultura povera, dove è messa in dubbio l'innata capacità dell'intelletto umano di percepire l'essere e le implicazioni necessariamente in esso incluse, ossia i primi principi, l'applicazione dei quali è semplicemente la condizione di ogni pensiero e di ogni ragionamento.
Ciò che distingue l'uomo, e ne segna il carattere e la proprietà specifica, è esattamente questa sua facoltà di essere cosciente dell'"essere", di avvertire l'assoluta differenza tra essere e non essere, di stupirsi dell'essere stesso, di riconoscerne il mistero ineffabile. L'essere non è creato dall'uomo: né dal suo pensiero né dal suo affetto; l'uomo se lo ritrova "innanzi", avendo anzitutto coscienza del proprio essere.
Non è fuori luogo, a questo punto, rilevare quanto i "freddi" concetti nei primi concili, in epoca patristica, ben precedente l'influsso aristotelico e il fiorire della scolastica, abbiano efficacemente contribuito all'esposizione ortodossa della fede cattolica.
Si tratta di un linguaggio irrinunciabile, anche se può essere arricchito al fine di rilevare altri aspetti del mistero cristiano. Ma con un'attenzione: quella di non concepire Dio a immagine dell'uomo, ma l'uomo a immagine di Dio. Come, invece, sembrano fare quanti, per esempio, ritengono che, per avere una Trinità che sia amore, occorre usare un linguaggio moderno e caldo e, per non rassegnarsi a un Dio "impassibile", ma veramente misericordioso, si debba ammettere in lui una sofferenza, fatalmente interpretata a partire da come noi esperimentiamo l'amore nella forma della sofferenza.
Al riguardo non è difficile accorgersi di quale sia la patria di queste teorie. Siamo sempre nel contesto di una cultura largamente segnata dall'"ontofobia", o "paura dell'essere" e, alla fine, dell'"intelligenza", da cui un linguaggio emotivo e spumeggiante, che sembra più ricco di quello concettuale nel senso che è frondoso e sonoro. Per non dire della confusione che si viene creando parlando dell'essere che "accade": in realtà l'essere non "accade", ha una sua origine e giustificazione "teologica" nel libero atto creativo di Dio.
Un ultimo rilievo. Per ricordare l'affermazione, crederei poco nota, di san Tommaso, a proposito del compimento dell'adesione intellettiva dell'uomo a Dio in adesione di amore: "Nell'uomo due sono i mezzi con cui si può aderire a Dio, cioè l'intelletto e la volontà (...) Ma l'adesione dell'intelletto si compie con l'adesione della volontà, poiché è mediante la volontà che l'uomo in certo modo si acquieta in ciò che l'intelletto apprende (... ) Alla cosa a cui aderisce per amore, aderisce per se stessa (...) L'adesione a Dio per amore è il modo principale per aderire a lui" (Summa contra Gentiles, iii, 116).
Come s'è visto, il tema del "Dio dei filosofi" e del "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe" domanda di essere affrontato con rigore critico, senza lasciarsi prendere da facili e immediate emozioni, che snobbano o sottovalutano il percorso teologico della ragione, nella convinzione che il Dio della Rivelazione lo renda superfluo e insignificante, se pure non dannoso. Se si ritiene la ragione dell'uomo incapace di pensare realmente Dio come pienezza di essere e di perfezione, come Creatore e fonte di ogni essere, neppure sarebbe possibile una sensata accoglienza del "Dio di Abramo", che è la Trinità Santissima, ma non è un "altro Dio", e che si è manifestato nella storia della salvezza, con l'incarnazione, la passione e la risurrezione di Gesù Cristo, dov'è offerta un'immagine divina insospettabile e assolutamente inattingibile alla ragione dell'uomo, ma solo disponibile per grazia alla sua fede.

Osservatore 3 agosto


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Taize': storia e identita'

2 agosto 2010
IL RICORDO
Taizé e l'Europa dei monaci (Avvenire)

Settant’anni fa, la mattina del 20 agosto 1940, frère Roger arrivava a Cluny in bicicletta. Aveva venticinque anni. Era partito da Ginevra per cercare un posto dove stabilirsi. Lungo la strada aveva visitato alcuni luoghi, ma non vi si era fermato. Era attratto da Cluny, di cui conosceva la storia, però pensava che vi avrebbe trovato solo le rovine di un antico monastero. Fu stupito nello scoprire a Cluny una cittadina. Là un notaio, mastro Bourgeon, lo informò che c’era una casa in vendita a dieci chilometri, nel paese di Taizé. Riprese la bicicletta e vi si recò immediatamente. Così è cominciata la storia della nostra comunità. Settant’anni di Taizé: sono ben pochi rispetto ai mille e cento di Cluny! Ecco perché frère Roger diceva: «La comunità di Taizé è solo un piccolo germoglio innestato sul grande albero della vita monastica, senza il quale non potrebbe vivere». Era consapevole che non per caso era stato condotto a Cluny e poi sulla collina di Taizé. Ecco che cosa ha scritto: «Indubbiamente c’è un senso nel fatto che il nostro paese sia posto fra Cluny e Cîteaux. Da una parte c’è Cîteaux, rianimata da un cristiano notevole: san Bernardo. San Bernardo fa presentire tutto l’ardore riformatore che esploderà nel XVI secolo. Rifiuta qualsiasi compromesso di fronte all’assoluto evangelico. Ha il senso dell’urgenza. Dall’altra parte c’è Cluny, la grande tradizione benedettina che ha umanizzato tutto ciò che toccava. Cluny, con il suo senso della misura, della comunità visibile edificata nell’unità». Poi Frère Roger prosegue: «Fra gli abati di Cluny figura quel cristiano notevole che fu Pietro il Venerabile, così umano e che aveva a cuore la carità e l’unità. Più avanti rispetto alla mentalità del suo tempo, accoglie e offre rifugio ad Abelardo, che l’opinione generale condanna». Radicata in terra cluniacense, la nostra comunità ha tratto ispirazione dalla lunga esperienza dei monaci di Cluny. Non ha tentato di imitare Cluny, ma ha voluto trovare la propria strada. L’eredità spirituale di Cluny sarebbe stata troppo pesante per la nostra piccola comunità. Per questo, negli anni Sessanta, frère Roger aveva declinato la proposta del prefetto di Saône-et-Loire e del vescovo di Autun di sgomberare per trasferire la comunità tra le mura dell’abbazia di Cluny. Taizé doveva trovare la propria strada. La nostra comunità si è lasciata ispirare anche dalla gioia e dalla semplicità di san Francesco d’Assisi. È stata segnata anche dalla profondità della spiritualità di sant’Ignazio di Loyola, portata sulla nostra collina dalle Sorelle di Sant’Andrea. Qual è allora l’ispirazione che i fratelli di Taizé hanno ricevuto da Cluny? Vorrei citare tre punti. Innanzitutto l’accento posto sulla bellezza della preghiera comunitaria. La bellezza della liturgia, del luogo di preghiera, del canto, apre il cuore a una relazione personale con Dio. Fare di tutto per aiutare giovani e meno giovani a scoprire tale relazione personale con Dio è certamente una priorità nel nostro ministero. Il secondo punto è l’importanza data alla trasfigurazione. Questa festa celebrata in Oriente è stata introdotta in Occidente nel XII secolo dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile. Perché è tanto importante? Nel Vangelo il racconto della trasfigurazione mostra Gesù sul monte, in preghiera, in grande intimità con Dio. Una voce si fa sentire ai discepoli: «Questi è il mio Figlio prediletto». Il mistero di Gesù appare davanti ai loro occhi: la sua vita consiste nella relazione d’amore con Dio Padre. Quando, nella preghiera, guardiamo la luce del Cristo trasfigurato, essa a poco a poco ci diventa interiore. Il mistero di Cristo diventa il mistero della nostra vita. Ciascuno di noi è anche il figlio prediletto di Dio. Come Gesù, possiamo anche noi abbandonarci a Dio. E in cambio Dio trasfigura la nostra persona, corpo, anima e spirito. Allora anche le fragilità e le imperfezioni diventano una porta attraverso la quale Dio entra nella nostra vita. Attraverso lo Spirito Santo, Cristo penetra ciò che ci inquieta di noi stessi, tanto che le oscurità sono chiarite. Il terzo punto è la grande capacità dei monaci di Cluny di superare le frontiere in Europa. C’erano monasteri dappertutto. L’esempio di Cluny ci insegna che l’Europa si costruisce anche a partire da una vita interiore, da una vita di fede. Noi fratelli siamo stati condotti, senza averlo previsto, a vivere quotidianamente un’apertura internazionale. E insieme a giovani di tutti i continenti ricerchiamo quelle fonti interiori che permettono di vivere come una sola famiglia umana, nonostante le differenze di cultura. I monaci di Cluny rimangono i testimoni che, nella storia, talvolta sono bastate poche persone per far pendere la bilancia dalla parte della pace. A cambiare il mondo non sono tanto le azioni spettacolari, bensì la perseveranza quotidiana nella preghiera, nella pace del cuore e nella bontà umana.

Meditazione tenuta domenica 2 maggio all’abbazia di Cluny
(traduzione di Anna Maria Brogi)
di frère Alois, priore di taizé

Simboli italiani

2 agosto 2010
IDEE
Quanti brutti monumenti per celebrare l'Unità (Avvenire )


Le due quadrighe bronzee poste ai due estremi dei propilei del Vittoriano di Roma, più noto come Altare della Patria, e che si stagliano alte sul cielo di Roma, sono dedicate all’Unità della Patria e alla Libertà dei cittadini. L’illustre, immenso, imperdonabile "coso marmoreo" progettato nel 1884 dall’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi e inaugurato nel 1911 è in qualche modo il monumento culminante e riassuntivo di un complesso iter ideologico e simbolico: quello del Risorgimento, dell’Unità nazionale e dei valori che si vollero loro attribuire. La solenne e mostruosa sfida alla basilica di San Pietro, che i romani non hanno mai amato e che hanno ferocemente battezzato – a causa della sua forma – "la macchina da scrivere", doveva essere originariamente un omaggio al sovrano dell’Unità, Vittorio Emanuele II: ma divenne si può dire da subito il vero e proprio Altare della religione laica della patria, simboleggiata da due monumenti in qualche modo concorrenti, in qualche altro complementari ma anche reciprocamente estranei: la grande statua bronzea del sovrano dell’Unità a cavallo e, scolpita sul basamento marmoreo che la sostiene, l’immagine della dea Roma rappresentata come una marmorea, armata Minerva, affiancata dai bassorilievi del Lavoro e dell’Amor patrio. Bisogna notare che la dea Roma non poteva identificarsi immediatamente nella tradizionale immagine dell’Italia cinta della "corona merlata" sulla fronte della quale rifulge una stella: due belle e floride donne entrambe, cinte di classico peplo, ma caratterizzate dalla corona simbolo di sovranità civica e di libertà l’una, dal marziale elmo a tre creste l’altra. L’Italia materna e feconda, Cerere-Demetra; e Roma sapiente e marziale, Minerva-Atena. Libertà, Lavoro, Fecondità, Opulenza, valori di pace, l’una; Vittoria, Volontà, Conquista, valori di guerra, l’altra. Due differenti, contrastanti programmi simbolicamente evocati: eppure già ambiguamente, forse addirittura contraddittoriamente e paradossalmente intrecciati già fino da quello che con l’Inno di Garibaldi si considerava l’inno nazionale per eccellenza: quello di Mameli. Goffredo Mameli rappresenta infatti la patria che, ridestata da un lungo sonno (Ri-sorgimento, appunto: ma quando si sarebbe addormentata?), si cinge immediatamente dell’Elmo di Scipio, eredità romana e repubblicana, mentre la Vittoria deve "porgerle la chioma". Tale Vittoria però non viene proposta come liberatrice contro un oppressore, come in omaggio alle battaglie risorgimentali ci si aspetterebbe, ma pegno di conquista, in quanto Iddio l’avrebbe creata "schiava di Roma". In ultima analisi, quindi, Italia e Roma vengono a coincidere. Un’immagine confermata dall'Inno di Garibaldi, con la sua "resurrezione laica" («Si scopron le tombe / si levano i morti / i martiri nostri / son tutti risorti») nella quale gli eroi della patria sono a loro volta classicamente evocati come cinti d’alloro. La simbolica dell’unità e della libertà, durante l’intero arco dell’Ottocento e nella stessa prima metà del Novecento, si era ispirata più o meno in tutta l’Europa (Gran Bretagna e Russia comprese) all’antichità soprattutto greca (specie in Germania), ma anche romana repubblicana, per il tramite della Rivoluzione francese che aveva canonizzato l’uso dei simboli-chiave dell’unità e della sovranità popolare (il fascio littorio), della forza e della vittoria (le fronde e le corone di querce e d’alloro), dell’ideale di libertà e di sapienza (la stella a cinque punte, con allusione antropocentrica alla figura dell’"Uomo di Vitruvio"), della liberazione dalla tirannia (il "berretto frigio" dei liberti e il pugnale di Bruto). L’età napoleonica aveva mantenuto grosso modo la medesima simbolica, facendo significativamente scomparire il pugnale e mettendo da parte il berretto frigio per sostituirli con l’aquila imperiale, segno di autorità e di dominio.

Tale cammino simbolico era stato sostenuto dall’affermarsi di una cultura e di un’estetica: quelle del Neoclassicismo, maturate durante l’età illuministica e sostenute da una più o meno implicita volontà di obliterazione dei simboli religiosi cristiani in generale, cattolici in particolare, nel nome dell’affermarsi del "teismo" filosofico (l’affermazione di un principio "divino" sottostante al cosmo e alla natura, ma non identificantesi nel Dio personale e creatore di Abramo) e dei fondamentali culti della Ragione e della Natura. Il Romanticismo, affermatosi nel primo Ottocento, si era configurato come una forte reazione a quei simboli e a quei valori: il cristianesimo era tornato in auge e una nuova estetica, quella neogotica, si era opposta a quella neoclassica. Si trattava in fondo di due estetiche "ideologiche" volte entrambe al passato, ma con una connotazione avvertita come polemicamente opposta: al neoclassicismo sentito e interpretato anche come neopaganesimo si contrapponeva il neogotico in quanto arte "della fede" e "delle cattedrali", intrinsecamente cristiana. Anche all’interno dell’organizzazione che fin dal Settecento era stata la fucina delle idee di progresso, di libertà, di emancipazione civile e di umanitarismo, la massoneria, quel conflitto estetico-simbologico si era fatto avvertire: e si era espresso in un affiancarsi di simboli desunti dall’antichità greco-romana (come appunto le corone di querce, di alloro e della "sapienziale" acacia) ad altri che richiamavano a un teismo collegato tuttavia alla Bibbia in quanto la mitologia massonica non poteva separarsi dal mito della costruzione del Tempio di Salomone (quindi il triangolo raggiante al cui centro era raffigurato l’Occhio divino, con una suggestione desunta dall’antico Egitto, e ancora sia la piramide, sia le Tavole della legge mosaica) e ad altri ancora che sottolineavano la devozione degli adepti, (sempre nel nome della "costruzione del Tempio") al lavoro e al progresso (la stella a cinque punte simbolo della luce della Ragione umana, il compasso, la squadra dei costruttori). Il nostro Risorgimento, attraverso le organizzazioni carbonare prima e mazziniane poi – in vario contatto con le logge massoniche – ereditò questa varietà simbolica e l’adattò alle sue necessità con una quantità di non sempre coerenti e anzi talora ambigue variabili. Carbonari e mazziniani, organizzatori anche di sodalizi di artigiani e di lavoratori, trasferirono nel linguaggio simbolico del nascente movimento operaio i simboli massonici che si riferivano alla "Grande Opera", come appunto compasso e squadra, originariamente dotati di valore iniziatico. La stessa passò da simboli dell’umano intelletto indipendente dalla luce del Sole divino (simbolo quindi di una visione del mondo etsi Deus non daretur) a simbolo di libertà e delle "mirabili sorti e progressive" dell’umanità, cui più tardi il socialismo avrebbe fornito anche il suo colore simbolico, il rosso: e anche le insegne del "quarto stato", la falce dei contadini e il martello degli operai, si affiancarono e col tempo si contrapposero a compasso e squadra sentite come simboli di produzione e di lavoro "borghesi", ma sempre nel quadro sintattico di un immaginario i modelli del quale rimanevano massonici. Infine il fascio littorio, simbolo fondamentale della repubblica giacobina come tale adottato da mazziniani e da garibaldini, divenne l’emblema principale di quanti ispiravano all’unità repubblicana liberata da qualunque presupposto cristiano. Simboli tragicamente opposti e paralleli, la croce e il fascio, entrambi rinvianti al sacrificio della vita e alla resurrezione: la prima al martirio del Cristo morto e risorto; il secondo alla punizione dei traditori della patria e alla decapitazione dei tiranni, dal sangue dei quali scaturisce l’unità e la libertà del popolo. La Repubblica romana del 1849 assunse a suo simbolo, mazzinianamente concepito, l’aquila di una Roma privata del papa che serrava fra gli artigli un fascio simbolo della Repubblica. Tale simbolo sarebbe passato, del 1943, alla Repubblica sociale italiana che rivendicava in tal mondo un’origine mazziniana finalmente liberata e depurata dall’inquinamento monarchico e sabaudo.

In effetti, l’eterogeneità e l’ambiguità del Risorgimento italiano si era espressa, fino dagli anni Venti dell’Ottocento, nell’adozione di una pluralità di simboli difficilmente compatibili tra loro. Le élites patriottiche avevano sempre mostrato di volersi riallacciare all’antichità classica sottolineando però – secondo modelli ch’erano già danteschi e petrarcheschi, ma che dal Foscolo al Leopardi erano stati reinterpretati – che l’Italia era la "figlia primogenita di Roma" e rivendicando pertanto le glorie dell’antica repubblica dei Bruti e degli Scipioni. Ci comportava una certa estraneità dalla moda neogotica che invadeva intanto l’Europa: al tempo stesso, però, il Risorgimento italiano recuperava anch’essa, come si vede nell’architettura e nell’urbanistica ottocentesca, nel nome delle libertà dei Comuni e della lotta contro lo "straniero" (ad esempio la Lega lombarda contro il Barbarossa). Gli stessi simboli più propriamente cristiani, se non cattolici, entravano in qualche modo nella panoplia risorgimentale: nel 1848, la Prima guerra d’indipendenza venne interpretata in un primo tempo – giobertianamente e nel nome di Pio IX – come "crociata": e una croce figurava come insegna sulle coccarde dei volontari e perfino al centro del tricolore verde-bianco-rosso riesumato dai tempi della Repubblica cisalpina e poi italiana del Bonaparte e rivendicato come bandiera nazionale dal Regno di Sardegna, che tuttavia l’aveva caricato dello scudo sabaudo, la cui croce d’argento in campo vermiglio aveva origine da una concessione onorifica che l’Ordine dei cavalieri di Rodi (poi di Malta) avevano accordato al conte di Savoia Amedeo VI in ricordo della difesa di Rodi da lui eroicamente condotta contro i turchi a metà Trecento. Mentre quindi il fascio littorio campeggia sovrano sui monumenti e le lapidi repubblicane, mazziniane, artigiane e operaie di tutto l’Ottocento e del primo Novecento italiani (e di fasci è decorato il monumento equestre di Garibaldi al Gianicolo), molte sono le occasioni ufficiali in cui, nel nome dell’unità tra casa Savoia e movimento garibaldino come origini dell’unità e della libertà della patria, scudo monarchico e fascio repubblicano vengono effigiati insieme. Mussolini aveva originariamente ripreso dal mazzinianesimo e dal garibaldinismo il fascio giacobino (in una forma che si vede bene nella lapide commemorativa di Felice Cavallotti posta nel palazzo comunale di Forlì, che il giovane Benito ben conosceva): ma a partire dal 1925, cioè dall’anno del consolidamento del governo fascista in regime, la forma del simbolo di partito andò mutando: l’ascia simmetrica al centro del fascio di verghe, caratteristica del giacobinismo, si andò cambiando in un’ascia asimmetrica "romana", posta lateralmente alle verghe, e l’oggetto assunse connotati "archeologici" e romani. In altri termini, l’origine giacobina veniva ripudiata e il simbolo-chiave del regime, divenuto simbolo dello Stato-partito, si ricollegava direttamente alla romanità. Questo viaggio a ritroso del patriottismo unitario italiano divenuto nazionalismo e, nella prospettiva già dei Corradini e dei Marinetti, colonialismo e imperialismo, si era tradotto esteticamente in una progressiva "romanizzazione" dell’archeologia e dell’urbanistica. La Roma capitale postrisorgimentale e umbertina aveva assunto in un primo momento uno stile eclettico ispirato al cinque-seicentismo risorgimentale e barocco, in linea con il tono prevalente della Roma dei papi: di tale scelta era stato arbitro un architetto di genio, Camillo Boito. Ma cultura decadentistica di fin de siècle ed estetica anticlericale e anticristiana dei circoli massonici dominati da personaggi come Ernesto Nathan e Augusto Reghini avevano progressivamente imposto la scelta "romana". L’Altare della Patria ne è il compendio: eretto in modo da addossarsi alla collina del Campidoglio obliterandone completamente e irreversibilmente il carattere cristiano sancito dallo splendido complesso ecclesiale e conventuale di Santa Maria in Aracoeli, l’abbagliante mostruosità di marmo e di bronzo consacrata a un re che la Chiesa aveva scomunicato e alla dea Roma s’imponeva ora al centro dell’Urbe, con la sua mole la forma della quale rimandava all’Ara di Pergamo custodita nel museo di Berlino e all’Altare della dea Fortuna della città di Palestrina, l’antica Penestre divenuta rocca dei Colonna. Il Vittoriano era programmaticamente concepito come un Antivaticano, un centro sacrale laicistico, patriottico e neopagano contrapposto a quello cattolico e papale. L’asse urbano di Roma, già incentrato sulla linea cristiana Laterano-Vaticano (dunque Esquilino-Gianicolo), si spostava ora su quella pagana Campidoglio-Aventino: il "risanamento" dell’area tra Campidoglio e Colosseo, con la sistemazione archeologica dei Fori imperiali e l’apertura della trionfale via che congiungeva piazza Venezia all’anfiteatro Flavio e ch’era la quinta scenografica delle liturgie imperiali di regime, avrebbe completato l’opera. Nel 1920, i legionari fiumani di D’Annunzio, ispirandosi a un quadro di David (il pittore ufficiale di Napoleone) ed equivocandone una scena di giuramento, avevano inventato il "saluto romano". Nel 1933 l’ex agitatore libertario e socialista divenuto il Duce (un epiteto peraltro ereditato da Garibaldi e da D’Annunzio, salutava appunto "romanamente" la statua di Giulio Cesare all’inizio dei Fori imperiali. L’eredità di Roma era pienamente recuperata: ma quella era la Roma imperiale, che con il repubblicanismo giacobino non aveva più nulla a che fare.

Lo stesso non si poteva tuttavia dire per la simbolica cristiana e cattolica. Nonostante i rapporti qua e là tesi tra Chiesa e Stato, il regime aveva attuato al Conciliazione. Nel 1921, la salma del Milite ignoto aveva avuto esequie solenni – sia pur non religiose – in Santa Maria degli Angeli prima di essere riposta nel sacello ai piedi della marmorea dea Roma, al centro dell’Altare della Patria: e la lapide che sigilla il sepolcro del soldato sconosciuto simbolo di tutti i caduti della guerra 1915-1918 reca incisa una piccola croce. Col fascismo, all’interno del monumento – dove dal 1930 si erano ricavati i locali della cripta e del Museo del Risorgimento –, il sarcofago del Milite ignoto sarebbe diventato, all’interno, l’altare di una cappella nel quale, in quello stile romano-ravennate che il romagnolo Mussolini prediligeva (e che aveva scelto anche per la sua pur modesta cappella di famiglia, nel cimitero di Predappio), campeggiavano i mosaici raffiguranti i santi-militari protettori delle Forze armate. Nel 1937, per il quindicesimo anniversario della fondazione della Milizia fascista, l’ateo mangiapreti divenuto Duce del fascismo ascoltava in solenne inappuntabilità la messa celebrata sull’Altare della Patria. Il ciclo era compiuto: si concludeva l’itinerario simbolico che saldava gli inconciliabili simboli dell’antichità pagana, del giacobinismo anticristiano, del Risorgimento anticlericale, della monarchia sabauda tradizionalmente devota alla Vergine madre di Dio e scomunicata dal 1870, dell’Italietta massonica, della rivoluzione nata da un movimento repubblicano e socialista divenuto nazionalista e guidata da un ateo divenuto Uomo della Provvidenza e che aveva restituito, come fu detto, «l’Italia a Dio e Dio all’Italia». Ai fedelissimi di una "religione civica " estetizzante e almeno in apparenza priva di compromessi con il cattolicesimo, Mussolini concedeva di costruirsi frattanto a spese dello Stato un nuovo, sontuoso Altare della Patria e santuario rituale attorno al vecchio e ormai vaneggiante Vate, là presso il Garda: il Vittoriale degli italiani, dal nome tanto simile al Vittoriano, nemmeno dal quale sono tuttavia del tutto assenti le tracce del cattolicesimo, sotto la forma delle are dei martiri o tra le pieghe delle allusioni erotiche e misticheggianti del culto a san Sebastiano e a san Francesco. Cacciatelo da qualunque porta volete, ma il nome del Cristo rientra sempre, nella storia d’Italia, a tutte le finestre. Il seguito di questa storia assurda e surreale, lo conosciamo. Eppure è storia: storia nostra. Con tutte le sue contraddizioni, che non abbiamo il diritto né d’ignorare, né di cancellare.
Franco Cardini

Wednesday, July 14, 2010

Tomismo e Scotismo

Prima della pausa estiva a Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha dedicato la sua ultima catechesi, mercoledì 7 luglio, al grande teologo e beato Giovanni Duns Scoto.

Ne ha parlato benissimo. Ma non ha mancato di rilanciare nei suoi confronti la critica che aveva già espresso nella memorabile lezione di Ratisbona del 12 settembre 2005: quella di esaltare a tal punto il primato della libertà e della volontà sulla ragione, da far pensare a un Dio puro Arbitrio, “che non sarebbe legato neppure alla verità e al bene”.

Un’idea di Dio che, a Ratisbona, il papa disse presente e influente anche nel pensiero islamico.

Ecco qui di seguito i due passaggi paralleli della critica di Benedetto XVI al volontarismo di Duns Scoto, a cui, ha detto, “la modernità è molto sensibile”..

Nella catechesi del 7 luglio 2010:

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Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione di tendenza volontaristica, che si sviluppò in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino, che segue sant’Agostino, la libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazione della volontà e dell’intelletto. Un’idea della libertà innata e assoluta collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non sarebbe legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta trascendenza e diversità di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio “logos”, che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente, come afferma Duns Scoto nella linea della teologia francescana, l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’amore del Dio “logos”. Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta, collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato.

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E nella lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006:

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Nel tardo Medioevo si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono la sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista, iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la “voluntas ordinata”. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che [...] potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (cfr. Concilio Lateranense IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come “logos” e come “logos” ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Efesini 3, 19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-”logos”, per cui il culto cristiano è “spirituale” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Romani 12, 1).