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Monday, July 06, 2015
Musica e verità
Musica e verità
Il grazie di Benedetto XVI a due atenei di Cracovia
Sono cresciuto nel salisburghese, segnato dalla grande tradizione di questa città. Qui andava da sé che le messe festive accompagnate dal coro e dall’orchestra fossero parte integrante della nostra esperienza della fede nella celebrazione della liturgia.
Rimane indelebilmente impresso nella mia memoria come, ad esempio, non appena risuonavano le prime note della Messa
dell’i n c o ro n a z i o n e di Mozart, il cielo quasi si aprisse e si sperimentasse molto profondamente la presenza del Signore. Accanto questo, tuttavia, era comunque già presente anche la nuova realtà del Movimento liturgico, soprattutto tramite uno dei nostri cappellani che più tardi divenne vice-reggente e poi rettore del Seminario maggiore di Frisinga.
Durante i miei studi a Monaco di Baviera, poi, molto concretamente sono sempre più entrato all’interno del Movimento liturgico attraverso le lezioni del professor Pascher, uno dei più significativi esperti del Concilio in materia liturgica, e soprattutto attraverso la vita liturgica nella comunità del seminario. Così a poco a poco divenne percepibile la tensione fra la participatio actuosa conforme alla liturgia e la musica solenne che avvolgeva l’azione sacra, anche se non la avvertii ancora così forte. Nella Costituzione sulla liturgia del concilio Vaticano II è scritto molto chiaramente:
«Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra» (114). D’altro canto il testo evidenzia, quale categoria liturgica fondamentale, la actuosa di tutti i fedeli all’azione sacra.
Quel che nella Costituzione sta ancora pacificamente insieme, successivamente, nella recezione del Concilio, è stato sovente in un rapporto di drammatica tensione.
Ambienti significativi del Movimento liturgico ritenevano che, per le grandi opere corali e financo per le messe per orchestra, in futuro ci sarebbe stato spazio solo nelle sale da concerto, non nella liturgia. Qui ci sarebbe potuto esser posto solo per il canto e la preghiera comune dei fedeli. D’altra parte c’era sgomento per l’impoverimento culturale della Chiesa che da questo sarebbe necessariamente scaturito. In che modo conciliare le due cose? Come attuare il Concilio nella sua interezza? Queste erano le domande che si imponevano a me e a molti altri fedeli, a gente semplice non meno
che a persone in possesso di una formazione teologica.
A questo punto forse è giusto porre la domanda di fondo: Che cos’è in realtà la musica? Da dove viene e a cosa tende?
Penso si possano localizzare tre “luoghi”da cui scaturisce la musica. Una sua prima scaturigine è l’esp erienza
dell’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore, si schiuse loro un’altra dimensione dell’essere, una nuova grandezza e ampiezza della realtà. Ed essa spinse anche a esprimersi in modo nuovo.
La poesia, il canto e la musica in genere sono nati da questo essere colpiti, da questo schiudersi di una nuova dimensione
della vita. Una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza, l’e s s e re toccati dalla morte, dal dolore e dagli abissi dell’esistenza. Anche in questo caso si schiudono, in direzione opposta, nuove dimensioni della realtà che non possono più trovare risposta nei soli discorsi.
Infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano. A maggior ragione è qui che è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi. Forse è possibile affermare che in realtà anche negli altri due ambiti —
l’amore e la morte — il mistero divino ci tocca e, in questo senso, è l’essere toccati da Dio che complessivamente costituisce l’origine della musica. Trovo commovente osservare come ad esempio nei Salmi agli uomini non basti più neanche il canto, e si fa appello a tutti gli strumenti: viene risvegliata la musica nascosta della creazione, il
suo linguaggio misterioso. Con il Salterio, nel quale operano anche i due motivi dell’amore e della morte, ci troviamo direttamente all’origine della musica della Chiesa di Dio. Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa.
A questo punto vorrei esprimere un pensiero che negli ultimi tempi mi ha preso sempre più, tanto più quanto le diverse
culture e religioni entrano in relazione fra loro. Nell’ambito delle più diverse culture e religioni è presente una grande letteratura, una grande architettura, una grande pittura e grandi sculture. E ovunque c’è anche la musica. E tuttavia in nessun altro ambito culturale c’è una musica di grandezza pari a quella nata nell’ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Händel, sino a Mozart, Beethoven e B ru c k ner. La musica occidentale è qualcosa
di unico, che non ha eguali nelle altre culture. Questo ci deve far pensare.
Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua sor-
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Honoris causa
Il 4 luglio a Castel Gandolfo il Papa emerito ha ricevuto il dottorato honoris causa da parte della Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia e dell’Accademia di Musica della stessa città. Facendo eccezione alla sua scelta di non ricevere onorificenze, Benedetto XVI ha accettato la proposta avanzata il 1° gennaio 2015 — dai rettori dei due atenei e dal cardinale Stanisław Dziwisz, metropolita di Cracovia e cancelliere dell’Università — come atto di omaggio a Giovanni Paolo II. Pubblichiamo quasi per intero il ringraziamento del Pontefice emerito.
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gente più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio. In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Gesù Cristo.
Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del Cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto l’incontro con la Verità, con il vero Creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è però anche chiaro che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla celebrazione sacra, al mistero della fede.
Se pensiamo alla liturgia celebrata da san Giovanni Paolo II in ogni continente, vediamo tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico; e vediamo anche come la grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa e in questo modo contribuisca sempre di
nuovo a darle forma. Non conosciamo il futuro della nostra cultura e della musica sacra. Ma una cosa è chiara: dove realmente avviene l’incontro con il Dio vivente che in Cristo viene verso di noi, lì nasce e cresce nuovamente anche la risposta, la cui bellezza proviene dalla verità stessa.
Friday, July 03, 2015
L’assoluto nell’istante
Cristianesimo e universalità L’assoluto nell’istante
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Anticipiamo uno stralcio dall’articolo «Uni-
versalità e cristianesimo in un’età secolariz-
zata» che uscirà sul numero 3/2015 di
«Vita e Pensiero», il bimestrale culturale
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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di ADRIANO FABRIS
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Per “salvare i fenomeni” dalla loro contingenza Platone ha l’universale. Lo ha posto in un mondo a parte, preliminare: il mondo delle idee. Si tratta del mondo
vero, cioè del mondo assoluto ed eterno, a cui si deve commisurare il mondo dell'esperienza. In questa prospettiva i fenomeni guadagnano certamente un punto di riferimento stabile. Lo guadagnano se risultano adeguati al mondo delle idee. Ma c’è un solo modo di ottenere questa adeguazione e di verificarla. E questo modo è conosciuto appunto dal filosofo. In Platone, dunque, la mediazione tra particolarità e universalità viene fissata una volta per tutte nella forma di un assorbimento
dell’elemento particolare, contingente, in una prospettiva universale ed eterna.
Rispetto a questa sussunzione del particolare nell’universale, rigida e unica, il cristianesimo propone un’altra via. È quella, per un verso, dell’incarnazione e, per altro verso, della redenzione. L’incarnazione è, per esprimerci in termini filosofici, l’assoluto che si fa contingente, ed entra nella storia. In tal modo non si ha una separazione definitiva tra storico ed eterno, che può essere governata solo attraverso l’adeguazione del primo al secondo (cioè subordinando il particolare
all’universale), ma si ha invece una relazione dinamica fra questi due livelli, che permette il loro collegamento anche se viene mantenuta fra di essi un’insup erabile differenza.
La redenzione, poi, è non solo il punto d’arrivo della salvezza, e dunque l’esperienza del recupero dell’eternità di ciò che è contingente, ma è anche il
cammino che l’essere umano è chiamato a percorrere per realizzare tutto questo. Di più. In tale cammino l’essere umano cerca di anticipare per quanto è possibi-
le, con le sue azioni e nei riti della comunità, la vita eterna nella propria stessa vita.
Sia l’incarnazione sia la redenzione non identificano dunque, in maniera indifferente, ciò che è assoluto e ciò che è contingente, ciò che è universale e ciò
che è particolare. Ma neppure separano una volta per tutte questi due livelli, o pongono tra di essi, come unica possibilità di collegamento, una subordinazione
e un assorbimento del particolare nell’universale. Ciò che mostra il cristianesimo, nella sua storia e nella sua dottrina, è invece l’idea che la relazione autentica
non si realizza eliminando le differenze.
E questo è possibile perché si tratta di una relazione dinamica, non già di un rapporto statico. In altre parole, nell’incarnazione ciò che è assoluto viene incontro a ciò che è contingente e lo abita. Ciò che è contingente, storico, risulta in tal modo santificato e impegnato a realizzare sempre di più, nella storia, la sua santificazione.
Perciò esso può indirizzarsi verso l’asso luto e intraprendere il cammino della redenzione. E in questa relazione l’assoluto resta assoluto e il contingente, pure,
rimane tale.
Se dunque il problema è di come intendere il rapporto tra particolare e universale senza ricadere né nell’i n d i f f e r e n za né nel fondamentalismo, la soluzione,
forse, può consistere in un modo diverso di comprendere la nozione stessa di “universalità”. Non si tratta di pensare separati universale e particolare. E nep-
pure di confonderli insieme. La loro relazione è il risultato di una mediazione, di un cammino. E la dinamica, il cammino che sono propri del passaggio dal
particolare all’universale. A partire da questo processo possiamo comprendere anche il concetto, tipicamente cristiano, di “missione”.
Ecco perché, se l’universalità è un processo e non un dato di fatto, invece che di universalità dobbiamo forse parlare, meglio, di una universalizzabilità.
Questo termine indica il modo in cui la particolarità della propria posizione può non già risultare, immediatamente, universale, o adeguata a una dimensione
universale, ma venire spinta a realizzarsi in maniera universale. E, per far questo, dev’essere disposta a confrontarsi con le posizioni altrui, deve esporsi a esse e da-
re testimonianza di sé di fronte a esse.
Deve farlo perché è consapevole che proprio nella sua particolarità, in virtù dell’incarnazione, c’è un aspetto che può essere universalizzato. Che spinge
all’apertura e non alla chiusura. Sempre tenendo conto, tuttavia, che il cristiano vive nel saeculum, ma non è del saeculum
Tuesday, September 30, 2014
Osservatore romano
Osservatore romano
Qualsiasi traduzione dal giappone-
se in una lingua occidentale deve
avere l'onestà di riconoscere un'im-
perfezione allusiva: non si dice mai
esattamente la stessa cosa nell'una e
nell'altra lingua. Infatti mentre le let-
tere dell'alfabeto, prese separatamen-
te, non hanno senso e non creano né
immagini né emozioni, ogni ideo-
gramma cinese, necessario per preci-
sare il significato dei tanti omofoni
esistenti nella lingua giapponese, tra-
smette all'occhio e alla mente infor-
mazioni che pur non avendo nulla a
vedere con il senso del testo sono co-
munque là e interpellano il lettore.
L'ideogramma an, ad esempio, pa-
ce in cinese e in associazione con
shin/cuore, tranquillità in giappone-
se, raffigura una donna sotto un tet-
to. In effetti, quando una madre è in
casa e se ne prende cura, tutta la fa-
miglia sta tranquilla. Il termine giap-
ponese Kotoba in italiano diventa pa-
rola, termine riduttivo rispetto all'ori-
ginale che si scrive, a meno di non
optare per i segni kana sillabici e so-
lo fonetici impossibilitati di esplicita-
re un significato, con due ideogram-
mi: uno significa "dire", l'altro signi-
fica "foglia". Dunque i due ideo-
grammi che assieme vogliono dire
parola/parole, sul piano del signifi-
cante loro proprio accostano le paro-
le alle foglie. E così per magia della
ipotiposi sui generis suggerita dagli
ideogrammi, le parole volant. Ma
hanno anche un peso. «Noi e Lei,
Padre, siamo un cuore solo!», le pa-
role di quell'umile donna piena di fe-
de dal poetico nome Yuri (giglio),
contraddicono il detto verba volant
come lo intendiamo di solito e, per
la profondità del loro significato so-
stanziato dalla fede, di fatto manent
in ognuno di noi.
Oggi, nella cattedrale di Ooura,
iPhoneから送信
Qualsiasi traduzione dal giappone-
se in una lingua occidentale deve
avere l'onestà di riconoscere un'im-
perfezione allusiva: non si dice mai
esattamente la stessa cosa nell'una e
nell'altra lingua. Infatti mentre le let-
tere dell'alfabeto, prese separatamen-
te, non hanno senso e non creano né
immagini né emozioni, ogni ideo-
gramma cinese, necessario per preci-
sare il significato dei tanti omofoni
esistenti nella lingua giapponese, tra-
smette all'occhio e alla mente infor-
mazioni che pur non avendo nulla a
vedere con il senso del testo sono co-
munque là e interpellano il lettore.
L'ideogramma an, ad esempio, pa-
ce in cinese e in associazione con
shin/cuore, tranquillità in giappone-
se, raffigura una donna sotto un tet-
to. In effetti, quando una madre è in
casa e se ne prende cura, tutta la fa-
miglia sta tranquilla. Il termine giap-
ponese Kotoba in italiano diventa pa-
rola, termine riduttivo rispetto all'ori-
ginale che si scrive, a meno di non
optare per i segni kana sillabici e so-
lo fonetici impossibilitati di esplicita-
re un significato, con due ideogram-
mi: uno significa "dire", l'altro signi-
fica "foglia". Dunque i due ideo-
grammi che assieme vogliono dire
parola/parole, sul piano del signifi-
cante loro proprio accostano le paro-
le alle foglie. E così per magia della
ipotiposi sui generis suggerita dagli
ideogrammi, le parole volant. Ma
hanno anche un peso. «Noi e Lei,
Padre, siamo un cuore solo!», le pa-
role di quell'umile donna piena di fe-
de dal poetico nome Yuri (giglio),
contraddicono il detto verba volant
come lo intendiamo di solito e, per
la profondità del loro significato so-
stanziato dalla fede, di fatto manent
in ognuno di noi.
Oggi, nella cattedrale di Ooura,
iPhoneから送信
Wednesday, June 18, 2014
Quattro giacche a fare i pali
Quattro giacche a fare i pali
di ENRICO REGGIANI
Come e più che in passato, con i mondiali brasiliani da poco iniziati, il ruolo letterario e culturale del calcio si impone al centro della scena globale. Potrebbe essere una loro conseguenza virtuosa, visto che sempre meno numerosi, fortunatamente,
sembrano essere gli epigoni di coloro che sdottora(va)no della sua irrilevanza (quando non addirittura della pericolosità). Se pare ormai condivisa l’idea che i “rituali” del calcio propongano la «descrizione di una battaglia» (Alessandro Dal Lago, 1990), ci si è anche spinti fino a considerarlo — non senza qualche acrobazia concettuale e analogica — sia «una buona allegoria del lavoro letterario» (Cristina Taglietti, 2009), sia uno strumento di espressione della vacuità del lavorio del critico: «La fedeltà bovina al testo, ai marchingegni narrativi, alle strutture sociologiche hanno reso la critica tediosa come le trasmissioni calcistiche sulle quali si fa un gran disquisire sulla differenza tra 4-3-3 e 4-3-1-2» (Alessandro Piperno, 2009).
Saranno pure tediose quisquilie tecniche queste ultime, ma l’affascinante e prestigiosa Premier League delle culture anglofone, in cui queste ultime sembrano contendersi il trofeo della miglior letteratura in lingua inglese, mostra la sua straordinaria vitalità proprio a partire dalle differenti denominazioni di schemi, ruoli, zone del campo, tattiche, strategie e via scorrendo le voci dell’enciclopedia calcistica e le loro declinazioni “glo calizzate”.
Ne fanno fede, ad esempio, la miracolosa concentrazione di un’identità nazionale inclusiva che si respira in termini quali bafana bafana (entusiastico soprannome della nazionale sudafricana, traducibile come “Avanti, ragazzi!Avanti, ragazzi!”, interpretato spesso anche alla luce della forte inflessione comunitaria del concetto africano di ubuntu) o la fantasiosa intuizione personale
del giornalista Tony Horstead, al quale si deve la differente origine e vicenda del nomignolo dei Socceroos , evidentemente
modellato su kangaroo con immediato e costante successo, durante una serie di partite giocate dalla nazionale australiana nel Vietnam del Sud nel 1967.
Tanto fascinoso è l’intreccio tra pallone e parole che bisogna poi fare anche i conti con l’inesauribile cornucopia di citazioni
leggendarie che vengono catturate in rete e colà replicate senza posa e verifica.
Due, su tutte, meritano menzione in questa sede per il rilievo dei loro presunti autori e per l’efficacia di quanto comunque esprimono: «Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in novanta minuti», che la maggioranza dei citanti riferisce alla penna di George Bernard Shaw (o è del mitico allenatore Bob Paisley?), oppure «Il calcio è un elemento fondamentale della cultura
contemporanea», che a detta di molti sarebbe frutto della mente sapiente e sorprendente di Thomas S. Eliot! Alcune prosaiche e pignole verifiche incrociate negli scritti di entrambi i giganti letterari menzionati smentiscono tali monumentali paternità: ma chi scrive è prontissimo a ricredersi e attende con impazienza circostanziate e risolutive indicazioni bibliografiche.
È invece di paternità sicura l’idea che «è un segno distintivo di tutta la nostra epoca moderna che le masse sono mantenute quiete grazie alle battaglie. Lo sono, però, perché si tratta della simulazione di una battaglia; pertanto la maggioranza di noi sa ormai che il sistema dei partiti è stato popolare solo nel senso in cui è popolare un football match». Così Chesterton (nel sedicesimo
capitolo della Breve Storia dell’Inghilterra , 1917). Verrebbe da chiedergli: nel senso di partita di association football, il
calcio inglese, o di rugby football ? Accontentiamoci della lungimirante premonizione chestertoniana, ma, come si intuisce agevolmente, si tratta di differenza di non poco conto, anche sul piano delle implicazioni simboliche, nel quadro della cultura nazionale inglese.
Di autore altrettanto certo è anche uno splendido distico che conclude un testo poetico intitolato Dovessero splendere
lanterne, composto nel 1935: «La palla che lanciai giocando nel parco /Ancora non ha raggiunto il suolo». È tipica delle folgoranti corde creative del genio tumultuoso di Dylan Thomas (1914-1953), del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, questa capacità di combinare poeticamente esperienze antropologiche ed epistemologiche in apparenza incompatibili e spesso sbrigativamente indicate come “s u r re a l i - stiche”: passato e presente, terra e cielo, individuo e comunità, regola condivisa e libertà individuale, potenza e atto, intenzione e incoscienza, silenzio e parola. Fu una dote, questa, davvero caratteristica del poeta gallese, la cui totalizzante simultaneità non può non richiamare al lettore attento la “bellezza pezzata” del meraviglioso Gerard Manley Hopkins, suggerendo persino la necessità di una più attenta valutazione dell’influenza esercitata sulla poesia di Thomas —
che si definiva un “sacro fattore” — dal grande codice biblico, dalla sua frequentazione giovanile delle chiese gallesi, nonché da una sua attrazione incompiuta e tutta da sondare nei confronti della fede cattolica.
Profondamente radicato in Hopkins è, senza dubbio, anche il poeta irlandese Seamus Heaney, scomparso di recente, al quale si deve il conclusivo, ampio frammento calcistico (in senso gaelico, ahimé, ma chi lo cita si augura che bellezza e pertinenza possano giustificare la licenza): «Con quattro giacche a fare i quattro pali / marcammo il campo, e basta. Aree e corner / presenti come la-
titudine / e longitudine sotto gobbe e cardi, / da convenire o contestare solo /al bisogno. Poi scegliemmo le squadre /varcando la linea che l’appello / dei nomi tracciava tra di noi. / Ragazzi urlanti da squarciar la gola, / la luce muore e loro vanno avanti, / il gioco ormai si gioca nella testa; / la palla vera presa a calci arriva / pesante come in sogno; il fiato corto / nel buio, le scivolate sull’erba / hanno un suono di sforzo in altro mondo... / Era veloce e costante, un gioco / senza necessità di avere fine.
/ Un qualche limite era stato oltrepassato, / c’era rapidità, progresso e non fatica, / un tempo extra, libero e imprevisto”
(Marcamenti. I, traduzione di Gilberto Sacerdoti). Libero — come scrisse Joseph Ratzinger, in occasione dei Mondiali in Sudafrica nel 2010 — nel segno della «disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e l’intesa nell’obbedienza alla regola
Osservatore Romano mercoledì 18 giugno 2014
di ENRICO REGGIANI
Come e più che in passato, con i mondiali brasiliani da poco iniziati, il ruolo letterario e culturale del calcio si impone al centro della scena globale. Potrebbe essere una loro conseguenza virtuosa, visto che sempre meno numerosi, fortunatamente,
sembrano essere gli epigoni di coloro che sdottora(va)no della sua irrilevanza (quando non addirittura della pericolosità). Se pare ormai condivisa l’idea che i “rituali” del calcio propongano la «descrizione di una battaglia» (Alessandro Dal Lago, 1990), ci si è anche spinti fino a considerarlo — non senza qualche acrobazia concettuale e analogica — sia «una buona allegoria del lavoro letterario» (Cristina Taglietti, 2009), sia uno strumento di espressione della vacuità del lavorio del critico: «La fedeltà bovina al testo, ai marchingegni narrativi, alle strutture sociologiche hanno reso la critica tediosa come le trasmissioni calcistiche sulle quali si fa un gran disquisire sulla differenza tra 4-3-3 e 4-3-1-2» (Alessandro Piperno, 2009).
Saranno pure tediose quisquilie tecniche queste ultime, ma l’affascinante e prestigiosa Premier League delle culture anglofone, in cui queste ultime sembrano contendersi il trofeo della miglior letteratura in lingua inglese, mostra la sua straordinaria vitalità proprio a partire dalle differenti denominazioni di schemi, ruoli, zone del campo, tattiche, strategie e via scorrendo le voci dell’enciclopedia calcistica e le loro declinazioni “glo calizzate”.
Ne fanno fede, ad esempio, la miracolosa concentrazione di un’identità nazionale inclusiva che si respira in termini quali bafana bafana (entusiastico soprannome della nazionale sudafricana, traducibile come “Avanti, ragazzi!Avanti, ragazzi!”, interpretato spesso anche alla luce della forte inflessione comunitaria del concetto africano di ubuntu) o la fantasiosa intuizione personale
del giornalista Tony Horstead, al quale si deve la differente origine e vicenda del nomignolo dei Socceroos , evidentemente
modellato su kangaroo con immediato e costante successo, durante una serie di partite giocate dalla nazionale australiana nel Vietnam del Sud nel 1967.
Tanto fascinoso è l’intreccio tra pallone e parole che bisogna poi fare anche i conti con l’inesauribile cornucopia di citazioni
leggendarie che vengono catturate in rete e colà replicate senza posa e verifica.
Due, su tutte, meritano menzione in questa sede per il rilievo dei loro presunti autori e per l’efficacia di quanto comunque esprimono: «Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in novanta minuti», che la maggioranza dei citanti riferisce alla penna di George Bernard Shaw (o è del mitico allenatore Bob Paisley?), oppure «Il calcio è un elemento fondamentale della cultura
contemporanea», che a detta di molti sarebbe frutto della mente sapiente e sorprendente di Thomas S. Eliot! Alcune prosaiche e pignole verifiche incrociate negli scritti di entrambi i giganti letterari menzionati smentiscono tali monumentali paternità: ma chi scrive è prontissimo a ricredersi e attende con impazienza circostanziate e risolutive indicazioni bibliografiche.
È invece di paternità sicura l’idea che «è un segno distintivo di tutta la nostra epoca moderna che le masse sono mantenute quiete grazie alle battaglie. Lo sono, però, perché si tratta della simulazione di una battaglia; pertanto la maggioranza di noi sa ormai che il sistema dei partiti è stato popolare solo nel senso in cui è popolare un football match». Così Chesterton (nel sedicesimo
capitolo della Breve Storia dell’Inghilterra , 1917). Verrebbe da chiedergli: nel senso di partita di association football, il
calcio inglese, o di rugby football ? Accontentiamoci della lungimirante premonizione chestertoniana, ma, come si intuisce agevolmente, si tratta di differenza di non poco conto, anche sul piano delle implicazioni simboliche, nel quadro della cultura nazionale inglese.
Di autore altrettanto certo è anche uno splendido distico che conclude un testo poetico intitolato Dovessero splendere
lanterne, composto nel 1935: «La palla che lanciai giocando nel parco /Ancora non ha raggiunto il suolo». È tipica delle folgoranti corde creative del genio tumultuoso di Dylan Thomas (1914-1953), del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, questa capacità di combinare poeticamente esperienze antropologiche ed epistemologiche in apparenza incompatibili e spesso sbrigativamente indicate come “s u r re a l i - stiche”: passato e presente, terra e cielo, individuo e comunità, regola condivisa e libertà individuale, potenza e atto, intenzione e incoscienza, silenzio e parola. Fu una dote, questa, davvero caratteristica del poeta gallese, la cui totalizzante simultaneità non può non richiamare al lettore attento la “bellezza pezzata” del meraviglioso Gerard Manley Hopkins, suggerendo persino la necessità di una più attenta valutazione dell’influenza esercitata sulla poesia di Thomas —
che si definiva un “sacro fattore” — dal grande codice biblico, dalla sua frequentazione giovanile delle chiese gallesi, nonché da una sua attrazione incompiuta e tutta da sondare nei confronti della fede cattolica.
Profondamente radicato in Hopkins è, senza dubbio, anche il poeta irlandese Seamus Heaney, scomparso di recente, al quale si deve il conclusivo, ampio frammento calcistico (in senso gaelico, ahimé, ma chi lo cita si augura che bellezza e pertinenza possano giustificare la licenza): «Con quattro giacche a fare i quattro pali / marcammo il campo, e basta. Aree e corner / presenti come la-
titudine / e longitudine sotto gobbe e cardi, / da convenire o contestare solo /al bisogno. Poi scegliemmo le squadre /varcando la linea che l’appello / dei nomi tracciava tra di noi. / Ragazzi urlanti da squarciar la gola, / la luce muore e loro vanno avanti, / il gioco ormai si gioca nella testa; / la palla vera presa a calci arriva / pesante come in sogno; il fiato corto / nel buio, le scivolate sull’erba / hanno un suono di sforzo in altro mondo... / Era veloce e costante, un gioco / senza necessità di avere fine.
/ Un qualche limite era stato oltrepassato, / c’era rapidità, progresso e non fatica, / un tempo extra, libero e imprevisto”
(Marcamenti. I, traduzione di Gilberto Sacerdoti). Libero — come scrisse Joseph Ratzinger, in occasione dei Mondiali in Sudafrica nel 2010 — nel segno della «disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e l’intesa nell’obbedienza alla regola
Osservatore Romano mercoledì 18 giugno 2014
Wednesday, February 12, 2014
L’attimo in cui furono divise le acque
L’attimo in cui furono divise le acque
mercoledì 12 febbraio 2014 L’OSSERVATORE ROMANO
Pubblichiamo l’editoriale apparso su «Avvenire» dell’11 febbraio.
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di PIERANGELO SEQUERI
Quell’attimo da brivido, che sembrò asciugare il tempo, durò davvero un attimo. Il popolo di Dio — dobbiamo dirlo — fu il primo a riaversi. Intanto che i dottori discutevano, nel tempio e fuori del tempio, il senso della fede incominciò a far circolare un’aura di rispetto, di ammirazione, di comprensione e di riconoscenza, così spontanea e avvolgente, che anche i dottori smisero di agitarsi e incominciarono a riflettere. Per un attimo, la sobria compostezza dell’annuncio non ci era apparsa come il chiaro segno della sua meditata ispirazione: prima patita, poi accolta e infine risolta nella pacificazione dello Spirito. Per un attimo, l’umiltà del gesto ci ha sgomentati — e persino mortificati — come fosse un’umiliazione del ministero petrino, invece che l’esaltazione della sua integra restituzione alla Chiesa che il Signore guida. Per un attimo, la serena determinazione di quell’atto estremo — atto di magistero e di ministero del Papa pur esso, non dimentichiamolo — ci è apparso come un gesto di umana e comprensibile liberazione dai pesi. Invece, era l’i m p revedibile audacia della libertà cristiana; la quale riprende interamente su di sé, per non gravarla sul ministero ecclesiale, la fragilità del vaso di creta in cui tutti portiamo il mistero.
Nella realtà, uno scenario di altissima tensione, polarizzato intorno alla casa di Pietro, veniva improvvisamente contrastato e persino stravolto — da un ultimo appello di Pietro alla Chiesa intera.
La sua potenza drammatica era tutta nello scarto fra i toni e il gesto. Le parole erano miti e minime, sull’orlo del silenzio che ne sarebbe seguito. Il gesto sollevava la montagna e le intimava di gettarsi nel mare.
L’audacia impensata del gesto profetico di Papa Benedetto XVI consegnava apertamente alla Chiesa la testimonianza della durezza e dell’urgenza di un’ora che non poteva più essere rimandata.
La Chiesa non può più limitarsi a custodire se stessa, al riparo dal vento e dal fuoco di Dio. Intanto, l’affettuoso minimalismo del congedo, che si disponeva a onorare la continuità della sua intercessione nella forma di una presenza trasfigurata e discreta, incominciava a rischiarare le ombre con la serenità dei suoi modi. E inaugurava, proprio così, l’inedita continuazione “monastica” del ministero di un Papa “emerito”: pura presenza testimoniale e invisibile intercessione orante. Ministero della conferma della fede che si prolunga spiritualmente, e senza interferenza alcuna, con altri mezzi. Mediazione nascosta, certo, ma anche — e da subito — fedeltà di una presenza che toglie ogni pretesto per gli ingenerosi moralismi dei grilli parlanti. Il servitore dei servi della Chiesa
non fugge. Si ritrae, quando il Signore chiama, per spianare la strada — in perfetta obbedienza — a colui che il Signore ha destinato alla successione di Pietro.
Nella luce dell’integrità che il gesto ha conservato, e dell’esuberanza di eventi che n’è seguita, la sua ispirazione ci persuade, ogni giorno che passa, della portata storica e teologica del suo carisma e della sua promessa.
Abbiamo imparato qualcosa, sul ministero petrino nella Chiesa, che forse avevamo dimenticato.
In quanto eredità personalmente consegnata dal Signore, per l’edificazione della Chiesa, il ministero di Pietro non è proprietà identitaria, ma bene comune.
Non lo si occupa come padroni, ma come servitori. In quel gesto, che ha riaperto la storia alla Chiesa, abbiamo imparato qualcosa anche sul Papa Benedetto XVI, che ancora non avevamo capito.
(E chi ha orecchie per intendere, ha occhi per vedere, adesso).
Da quell’attimo, in cui furono divise le acque, è già passato un intero anno. La potenza di quel gesto, che ha sfidato, per amore della Chiesa, l’i n c o m p re n s i o n e mondana dei sapienti e degli intelligenti, ha miracolosamente rischiarato la strada per il popolo di Dio che stava fra le ombre.
Ma non ha mancato di colpire — almeno per un attimo — lo sguardo smaliziato e incredulo dei potenti della terra, che si sono sentiti tanto meno agili nello slancio e nel rinnovamento.
Un mite e colto sacerdote bavarese, dopo aver istruito e confermato anche da Papa la fede della Chiesa fra le acque, ha suonato infine, con il suo congedo dal ministero supremo, la campana del risveglio per la Chiesa del terzo millennio. Il suo rintocco è risuonato come un colpo di maglio per ogni requisizione proprietaria del ministero ecclesiale, madre di tutte le sue corruzioni:
dell’autorità nel privilegio, del mistero nell’intrigo, del carisma nella carriera. In un lampo di silenzio attonito, durato circa mezz’ora, il fondamentalismo religioso e la condiscendenza mondana, che insidiano gli aspiranti leader della comunità, nella Chiesa, si sono scoperti nudi e vuoti di legittimazione. Ora tocca davvero al popolo di Dio, e ai suoi capi, muoversi all’altezza di
quel gesto.
mercoledì 12 febbraio 2014 L’OSSERVATORE ROMANO
Pubblichiamo l’editoriale apparso su «Avvenire» dell’11 febbraio.
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di PIERANGELO SEQUERI
Quell’attimo da brivido, che sembrò asciugare il tempo, durò davvero un attimo. Il popolo di Dio — dobbiamo dirlo — fu il primo a riaversi. Intanto che i dottori discutevano, nel tempio e fuori del tempio, il senso della fede incominciò a far circolare un’aura di rispetto, di ammirazione, di comprensione e di riconoscenza, così spontanea e avvolgente, che anche i dottori smisero di agitarsi e incominciarono a riflettere. Per un attimo, la sobria compostezza dell’annuncio non ci era apparsa come il chiaro segno della sua meditata ispirazione: prima patita, poi accolta e infine risolta nella pacificazione dello Spirito. Per un attimo, l’umiltà del gesto ci ha sgomentati — e persino mortificati — come fosse un’umiliazione del ministero petrino, invece che l’esaltazione della sua integra restituzione alla Chiesa che il Signore guida. Per un attimo, la serena determinazione di quell’atto estremo — atto di magistero e di ministero del Papa pur esso, non dimentichiamolo — ci è apparso come un gesto di umana e comprensibile liberazione dai pesi. Invece, era l’i m p revedibile audacia della libertà cristiana; la quale riprende interamente su di sé, per non gravarla sul ministero ecclesiale, la fragilità del vaso di creta in cui tutti portiamo il mistero.
Nella realtà, uno scenario di altissima tensione, polarizzato intorno alla casa di Pietro, veniva improvvisamente contrastato e persino stravolto — da un ultimo appello di Pietro alla Chiesa intera.
La sua potenza drammatica era tutta nello scarto fra i toni e il gesto. Le parole erano miti e minime, sull’orlo del silenzio che ne sarebbe seguito. Il gesto sollevava la montagna e le intimava di gettarsi nel mare.
L’audacia impensata del gesto profetico di Papa Benedetto XVI consegnava apertamente alla Chiesa la testimonianza della durezza e dell’urgenza di un’ora che non poteva più essere rimandata.
La Chiesa non può più limitarsi a custodire se stessa, al riparo dal vento e dal fuoco di Dio. Intanto, l’affettuoso minimalismo del congedo, che si disponeva a onorare la continuità della sua intercessione nella forma di una presenza trasfigurata e discreta, incominciava a rischiarare le ombre con la serenità dei suoi modi. E inaugurava, proprio così, l’inedita continuazione “monastica” del ministero di un Papa “emerito”: pura presenza testimoniale e invisibile intercessione orante. Ministero della conferma della fede che si prolunga spiritualmente, e senza interferenza alcuna, con altri mezzi. Mediazione nascosta, certo, ma anche — e da subito — fedeltà di una presenza che toglie ogni pretesto per gli ingenerosi moralismi dei grilli parlanti. Il servitore dei servi della Chiesa
non fugge. Si ritrae, quando il Signore chiama, per spianare la strada — in perfetta obbedienza — a colui che il Signore ha destinato alla successione di Pietro.
Nella luce dell’integrità che il gesto ha conservato, e dell’esuberanza di eventi che n’è seguita, la sua ispirazione ci persuade, ogni giorno che passa, della portata storica e teologica del suo carisma e della sua promessa.
Abbiamo imparato qualcosa, sul ministero petrino nella Chiesa, che forse avevamo dimenticato.
In quanto eredità personalmente consegnata dal Signore, per l’edificazione della Chiesa, il ministero di Pietro non è proprietà identitaria, ma bene comune.
Non lo si occupa come padroni, ma come servitori. In quel gesto, che ha riaperto la storia alla Chiesa, abbiamo imparato qualcosa anche sul Papa Benedetto XVI, che ancora non avevamo capito.
(E chi ha orecchie per intendere, ha occhi per vedere, adesso).
Da quell’attimo, in cui furono divise le acque, è già passato un intero anno. La potenza di quel gesto, che ha sfidato, per amore della Chiesa, l’i n c o m p re n s i o n e mondana dei sapienti e degli intelligenti, ha miracolosamente rischiarato la strada per il popolo di Dio che stava fra le ombre.
Ma non ha mancato di colpire — almeno per un attimo — lo sguardo smaliziato e incredulo dei potenti della terra, che si sono sentiti tanto meno agili nello slancio e nel rinnovamento.
Un mite e colto sacerdote bavarese, dopo aver istruito e confermato anche da Papa la fede della Chiesa fra le acque, ha suonato infine, con il suo congedo dal ministero supremo, la campana del risveglio per la Chiesa del terzo millennio. Il suo rintocco è risuonato come un colpo di maglio per ogni requisizione proprietaria del ministero ecclesiale, madre di tutte le sue corruzioni:
dell’autorità nel privilegio, del mistero nell’intrigo, del carisma nella carriera. In un lampo di silenzio attonito, durato circa mezz’ora, il fondamentalismo religioso e la condiscendenza mondana, che insidiano gli aspiranti leader della comunità, nella Chiesa, si sono scoperti nudi e vuoti di legittimazione. Ora tocca davvero al popolo di Dio, e ai suoi capi, muoversi all’altezza di
quel gesto.
La lezione di Charles de Foucauld
La lezione di Charles de Foucauld
In un testo scritto nel 1953 da Giovanni Battista Montini
L’OSSERVATORE ROMANO mercoledì 12 febbraio 2014
Per comprendere queste pagine bisognerà avere qualche conoscenza della singolare figura di asceta e di mistico da cui traggono ispirazione, di Carlo de Foucauld, o, come ormai è chiamato dai suoi seguaci, Carlo di Gesù. Eremita missionario era divenuto dopo essere stato ufficiale dell’e s e rc ito coloniale francese, e dopo essersi convertito a fervore di vita cristiana, ammaestrato e affascinato dal misterioso incanto del deserto africano; poi pellegrino in Terra Santa, si fa trappista, vagante dall’Armenia a Roma, lascia l’ordine per ritornare in Palestina, e di là ripassare in Fran-cia, donde, ordinato Sacerdote, ritorna in Africa, ormai sua patria spirituale, e vi consuma anni di poverissima vita, assistendo, nomade lui stesso, le tribù musulmane; si stabilisce poi nell’oasi di Tamanrasset, nello Hoggar, per terminare l’anelante sua carriera terrena assassinato, su la porta del suo eremitaggio, da quegli stessi ai quali aveva portato, pieno e benefico, l’umile dono della sua amicizia: questo fu il primo dicembre del 1916.
Una vita così varia e tormentata, così vagabonda e insieme così tranquilla, solitaria ed avida d’incontri spirituali, agitata da molteplici esperienze e strane avventure e resa da esse ognor più semplice e raccolta, così gradatamente spoglia di tutto e insieme progressivamente ricca di bontà e di amore, sconcertante e avvincente, spunta come un tenue lume fra le mille luci fatue del nostro
secolo, e a mano a mano ch’essa si allontana nel tempo diviene un faro, e segna un cammino.
Questo cammino è ora percorso dal Padre Renato Voillaume, Priore Generale dei Piccoli Fratelli di Gesù, che esorta con questi scritti spirituali le sue umili comunità, le “fraternità”, che dallo spirito di Carlo di Gesù derivano recente origine. Nasce così un volume di spiritualità che viene ad arricchire la letteratura religiosa d’un notevolissimo contributo.
Più che un trattato, più che un libro questa collezione di scritti occasionali è un documento di vita religiosa scaturita dall’esempio coraggioso e meraviglioso dell’asceta del Sahara, e sta a provare la perenne capacità della Chiesa cattolica a generare autentici seguaci di Cristo, creando stupore e gaudio per la singolarità del fenomeno religioso ch’esso descrive, suscitando inquietudine e fascino
per la profondità e la semplicità spirituale ch’esso richiama, e offrendo un codice di ascesi evangelica, spinta da un lato ad espressioni primitive e genuine della tradizione monastica, innestata dall’altro nelle più elementari condizioni d’esistenza e d’attività di umili classi sociali.
L’opera tratta una quantità di questioni riguardanti la perfezione religiosa, le virtù che le sono proprie, la povertà e la carità specialmente, la santificazione alimentata dalla celebrazione delle feste liturgiche, i grandi temi dell’ascetica e della mistica, l’analisi dell’anima umana assetata d’unione con Dio, e guidata dalle lezioni evangeliche al servizio e all’amore del prossimo, all’abnegazione di sé, alla visione del mondo e della vita nel grande e lucido quadro della sapienza del Maestro divino: il lavoro e la preghiera, il silenzio e la parola, la solitudine e la socialità, il nascondimento e l’amicizia, il valore del tempo e quello dell’eternità, la libertà di spirito e l’obb edienza facile e spontanea, la conoscenza delle miserie umane e la stima dell’uomo, la tranquillità e il coraggio, l’arte di soffrire e insieme di godere, l’indipendenza dal mondo e l’ansia di salvarlo, il distacco
dalle creature e la capacità di gustarne il linguaggio e la bellezza, e tanti altri temi, diversi e ricondotti ad armonia interiore, ricorrono in queste pagine e dimostrano quella larga informazione dottrinale e quella personale esperienza che danno ad un libro credito e interesse non comune.
Su tante cose potranno i dotti discutere e gli esperti commentare; non vogliamo qui dare un giudizio. Bastino intanto a raccomandare il volume all’attenzione dei lettori italiani alcune circostanze che possono aprirgli la via ad una favorevole accoglienza.
La povertà innanzitutto della maggior parte del Clero italiano: essa ha bisogno di provvidenze, di cui ora non è qui dato discorrere; ma essa è di per sé tale veste, che altra migliore non potrebbe essergli riconosciuta per qualificare ammirabile il suo quotidiano disinteresse e per disporlo all’esercizio del suo ministero nella forma più propizia a renderlo convincente e a dargli dignità e merito d’autenticità evangelica. Essa può quindi, così considerata, fare della più umile e spoglia vita ecclesiastica un esercizio di santità, che facilmente troverà nelle pagine del libro confortanti analogie, interpretazioni appropriate, esempi calzanti.
E il beneficio d’una simile esortazione alla santità attinta dalla povertà sarà anche maggiore, se un’intenzione, altrettanto moderna che urgente, di evangelizzazione del popolo s’aggiunga a quella del distacco dai beni materiali; l’intenzione cioè che apre gli occhi su lo stato d’abbandono spirituale di larghissimi strati di popolazioni sia urbane che rurali, e che spinge nei suburbi religiosamente
più desolati, nei centri di lavoro e di traffico più profani, nelle campagne più remote dal campanile l’apostolo della società presente, non più imperniata sul tempio e su Dio, ma su l’utilizzazione del mondo e su l’uomo. Anche per questa avventurosa penetrazione pastorale, che fa del prete e del laico desiderosi della sal-vezza del prossimo degli autentici missionari, la scuola delle Fraternità di Carlo de Foucauld offre magnifiche lezioni di coraggio, di saggezza, di carità E mostra in esempi, che hanno il paradossale aspetto dell’eroismo abituale come all’evangelizzazione della dottrina e della grazia debba essere previa, o concomitante l’evangelizzazione della vita di chi predica e personifica Cristo. Davanti al lettore esterefatto passano visioni lontane, troppo spesso confinate nel campo della reminiscenza e della fantasia: sono gli apostoli, mandati da Gesù, al loro primo esperimento annunciatore del regno di Dio, «sine pera, sine calceamentis » (Luca, 22, 35); sono le strane figure dei primi eremiti, esuli volontari nel deserto, precursori del futuro cenobio e del futuro villaggio cristiano; sono i fraticelli medioevali che vanno ornati di povertà e di letizia a ristorare nel mondo la speranza dell’era cristiana; sono i pellegrini ardimentosi che traversano continenti ed oceani per recare la buona novella ai lidi più lontani; e oggi sono finalmente i piccoli fratelli di Gesù, che vanno vagando ai margini delle opere già organizzate, delle città già costruite, della civiltà già stabilita, per farsi silenziosi e modesti pionieri dell’amore cristiano.
Questo istinto della più umile evangelizzazione oggi è diventata [così nell’originale] ideale, e dona ai seguaci di Carlo di Gesù il loro talento religioso: escono dalle abitudini comuni per conservare la tradizione evangelica; dimettono la veste dignitosa per assumere quella della fatica misera e dura; lasciano le comunità bene organizzate in collegi impersonali per creare piccoli nuclei di amici che lavorano, pregano, vivono insieme; ripudiano ogni distinzione esteriore per assimilarsi agli umili ceti sociali, ove hanno scelto di vivere; fanno della rinuncia, dell’abbassamento, della pazienza uno strumento di predicazione silenziosa, una possibilità di amicizia e di apostolato; ma conservano soprattutto nell’intimo del cuore e nel rifugio delle poverissime abitazioni un’assidua, un’ardente pietà di contemplativi e di adoratori, e ne traggono la difesa dalla volgarità circostante, la capacità di diffondervi l’ineffabile profumo di Cristo.
Quanti sacerdoti, quanti Religiosi e Religiose, quanti buoni fedeli, in un paese così povero di ricchezze economiche come l’Italia, e così ricco di patrimonio spirituale trascorrono la loro vita, e per generosa elezione e per forza di cose, in condizioni presso che analoghe a quelle che l’ardita vocazione dei piccoli Fratelli preferisce per lo sviluppo della propria spiritualità; quante anime perciò che anelano alla sequela del Maestro troveranno nelle pagine di Padre Voillaume la propria lezione di santità.
E perché ciò sia, mentre della miseria, della sofferenza, dell’abbiezione sociale si arma la negazione di Dio, il materialismo rivoluzionario, l’anticlericalismo politico, queste pagine sono offerte al pubblico cattolico italiano, come scuola come esempio di ben diversa trasfigurazione cristiana dell’umana fatica, in segno di coraggio e di speranza.
Quando René Voillaume chiamò il pro-segretario di Stato
Montini, dal 1937 sostituto della Segreteria di Stato, almeno dagli anni
della guerra aveva conosciuto la figura di Charles de Foucauld, il religioso
francese nato a Strasburgo il 15 settembre 1858 e assassinato a
Tamanrasset, nel Sahara algerino, il 1° dicembre 1916 dal quale avevano
poi tratto origine i Piccoli fratelli e le Piccole sorelle di Gesù, i cui
fondatori René Voillaume e Magdeleine Hutin incontrarono il sostituto
appunto verso la fine della guerra. L’alto prelato — che dal 29 novembre
1952 come pro-segretario di Stato per gli affari ordinari era alla
guida della Segreteria di Stato vaticana insieme a Domenico Tardini,
contemporaneamente nominato pro-segretario di Stato per gli affari
straordinari — nei primi mesi del 1953 venne richiesto dal fondatore e
priore generale dei Piccoli fratelli Voillaume di scrivere la prefazione
alla seconda edizione della traduzione italiana del suo Au coeur des
masses. La vie religieuse des Petits Frères du père de Foucauld. Il volume
era stato pubblicato in Francia nel 1950 e in seconda edizione due anni
dopo, e da poco era uscito in Italia con il titolo Come loro. La vita religiosa
dei Piccoli fratelli di Padre de Foucauld, Roma, 1952. Scritto nel
giugno successivo, il testo di Montini non fu mai pubblicato nell’originale
italiano. Lo presentiamo in questa pagina tratto da: Giovanni Maria
Vian, I santi di un papa moderno: le canonizzazioni di Paolo VI in
Santi del Novecento. Storia, agiografia, canonizzazioni, a cura di Francesco
Scorza Barcellona, postfazione di Franco Bolgiani, Torino, Rosenberg
& Sellier, 1998.
Saturday, February 08, 2014
Lonergan economista
La parte meno nota della riflessione del gesuita canadese
Lonergan economista
di MICHELE TOMASI
Il volume 21 dell'opera completa del gesuita Bernard Lonergan (1904-1984), Studi di economia. Primi saggi, pubblicato dall'editrice Città Nuova, è la prima traduzione italiana dei manoscritti di carattere economico che il teologo canadese ha composto negli anniQuaranta del ventesimo secolo.
Gli studiosi di Lonergan — che ha insegnato teologia dogmatica alla Gregoriana
per più di vent'anni — vanno riscoprendo ilruolo che la riflessione sull'economia ha
avuto durante tutta la sua attività accademica. Chi conosca Lonergan per i suoi contributi filosofici e teologici può rimanere stupito da queste pagine sull'economia, che presentano l'elaborazione di un modello di macroeconomia, una teoria economica di produzione, scambio e circolazione monetaria. Temi di solito lontani, dunque, dagli interessi e dai metodi della filosofia e della teologia ma, in questo caso, per nulla marginali nel percorso intellettuale lonerganiano e nemmeno frutto di un interesse passeggero e secondario. Di fronte ai problemi economici degli anni Trenta quando la depressione del 1929, prima grande crisi del capitalismo industriale, metteva a dura prova le conoscenze economiche che sembravano acquisite, ma che improvvisamente dimostravano di non riuscire più a fare presa su una realtà drammatica, Lonergan si applica a uno studio approfondito per tentare di comprendere la natura dell'economia e trovare una possibile via d'uscita dalla crisi. Ciò di cui egli sentiva il bisogno era una nuova e più fondata analisi della dinamica del sistema economico per poter proporre anche politiche economiche più efficaci.
A questo periodo, tra il 1940 e il 1944, risalgono i saggi che vengono offerti ora in traduzione italiana. For A New Political Economy (prima parte del presente volume) è il primo tentativo di Lonergan di affrontare la tematica economica in forma completa e sistematica. In esso troviamo il nucleo, il fondamento della sua analisi economica: l'analisi generale dei ritmi a cui pulsa la vita di ogni economia, la centralità della produzione rispetto a tutti gli altri ambiti, la distinzione tra i beni utilizzati per il consumo e quelli impiegati come fattori di produzione,
il collegamento tra cicli di produzione e circolazione monetaria in un'economia, la finalizzazione dell'economia al miglioramento del tenore di vita di tutti i membri di una popolazione.
Il testo non aveva del tutto soddisfatto l'autore, tanto che il suo lavoro continuò si-
no al 1944, anno in cui concluse la stesura di Circulation Analysis, riportato nella seconda parte del presente volume. Qui l'analisi si fa più precisa, con un maggior utilizzo dello strumento matematico e della formalizzazione logica, con minori rimandi alla situazione economica concreta e a esempi tratti dalla storia, ma con un maggiore sforzo di formalizzazione di un modello completo. Il destino di questo manoscritto ci spiega in parte perché il Lonergan "economista" rimase sconosciuto ai più. Lonergan cercò lettori qualificati per il suo lavoro in numerosi centri di ricerca, ma non incontrò nessun interesse o comprensione per la sua prospettiva di analisi. Decise quindi di mettere da parte i manoscritti e di abbandonare
gli studi economici.
Ciò non significa però che Lonergan abbia con questo abbandonato del tutto l'am-
bito dell'economia, come stanno a dimostrare i numerosi esempi tratti dalla vita economica e dalla sua interpretazione presenti nei suoi studi successivi, come anche il saggio tire dal saggio di Analisi della circolazione, nella speranza di una sua possibile ricezione. C'è da rimanere sinceramente stupiti dal suo livello di aggiornamento continuo in economia, come anche del fatto che un teologo e filosofo che soltanto pochi anni prima aveva portato a compimento il filone di
ricerca principale di quaranta anni di studi con il volume Method in Theology (traduzio-ne italiana Il Metodo in Teologia, Roma, Città Nuova, 2001), continui invece a seguire la letteratura macroeconomica dedicandosi alla lettura anche di saggi specialistici e scritti in maniera tecnica, oltre che a ponderosi volu-
mi di analisi culturale più qualitativa. A partire dal 1978, e fino alla morte (1984),
Lonergan tenne annualmente al Boston College il seminario Macroeconomics and Dialectic of History, per il quale il saggio del 1944, più volte rimaneggiato, costituiva uno dei testi di base.
I testi presentati testimoniano da un lato i multiformi interessi di Lonergan e la sua
capacità di penetrare in profondità la storia e la cultura del nostro tempo, e aggiungono dall'altro un tassello importante alla comprensione della sua opera complessiva.
Essi offrono anche uno sguardo sull'economia che vale la pena di conoscere e di studiare per se stesso, soprattutto nello stato di acuta crisi in cui versano le nostre economie. Anche se non facile da appropriare, scritta in linguaggio e con categorie d'analisi affatto originali, l'analisi economica di Bernard Lonergan suggerisce di percorrere vie inedite di ricerca. E indica la necessità e la fecondità di una nuova collaborazione tra economisti, filosofi e teologi, per comprendere la realtà e illuminare la natura dell'uomo e delle sue istituzioni per mezzo di una buona scienza economica, di un'adeguata filosofia e anche dei contenuti e degli ausili che provengono dalla Rivelazione e che, in ogni data cultura, sono mediati dalla teologia.
Osservatore Romano
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Lonergan economista
di MICHELE TOMASI
Il volume 21 dell'opera completa del gesuita Bernard Lonergan (1904-1984), Studi di economia. Primi saggi, pubblicato dall'editrice Città Nuova, è la prima traduzione italiana dei manoscritti di carattere economico che il teologo canadese ha composto negli anniQuaranta del ventesimo secolo.
Gli studiosi di Lonergan — che ha insegnato teologia dogmatica alla Gregoriana
per più di vent'anni — vanno riscoprendo ilruolo che la riflessione sull'economia ha
avuto durante tutta la sua attività accademica. Chi conosca Lonergan per i suoi contributi filosofici e teologici può rimanere stupito da queste pagine sull'economia, che presentano l'elaborazione di un modello di macroeconomia, una teoria economica di produzione, scambio e circolazione monetaria. Temi di solito lontani, dunque, dagli interessi e dai metodi della filosofia e della teologia ma, in questo caso, per nulla marginali nel percorso intellettuale lonerganiano e nemmeno frutto di un interesse passeggero e secondario. Di fronte ai problemi economici degli anni Trenta quando la depressione del 1929, prima grande crisi del capitalismo industriale, metteva a dura prova le conoscenze economiche che sembravano acquisite, ma che improvvisamente dimostravano di non riuscire più a fare presa su una realtà drammatica, Lonergan si applica a uno studio approfondito per tentare di comprendere la natura dell'economia e trovare una possibile via d'uscita dalla crisi. Ciò di cui egli sentiva il bisogno era una nuova e più fondata analisi della dinamica del sistema economico per poter proporre anche politiche economiche più efficaci.
A questo periodo, tra il 1940 e il 1944, risalgono i saggi che vengono offerti ora in traduzione italiana. For A New Political Economy (prima parte del presente volume) è il primo tentativo di Lonergan di affrontare la tematica economica in forma completa e sistematica. In esso troviamo il nucleo, il fondamento della sua analisi economica: l'analisi generale dei ritmi a cui pulsa la vita di ogni economia, la centralità della produzione rispetto a tutti gli altri ambiti, la distinzione tra i beni utilizzati per il consumo e quelli impiegati come fattori di produzione,
il collegamento tra cicli di produzione e circolazione monetaria in un'economia, la finalizzazione dell'economia al miglioramento del tenore di vita di tutti i membri di una popolazione.
Il testo non aveva del tutto soddisfatto l'autore, tanto che il suo lavoro continuò si-
no al 1944, anno in cui concluse la stesura di Circulation Analysis, riportato nella seconda parte del presente volume. Qui l'analisi si fa più precisa, con un maggior utilizzo dello strumento matematico e della formalizzazione logica, con minori rimandi alla situazione economica concreta e a esempi tratti dalla storia, ma con un maggiore sforzo di formalizzazione di un modello completo. Il destino di questo manoscritto ci spiega in parte perché il Lonergan "economista" rimase sconosciuto ai più. Lonergan cercò lettori qualificati per il suo lavoro in numerosi centri di ricerca, ma non incontrò nessun interesse o comprensione per la sua prospettiva di analisi. Decise quindi di mettere da parte i manoscritti e di abbandonare
gli studi economici.
Ciò non significa però che Lonergan abbia con questo abbandonato del tutto l'am-
bito dell'economia, come stanno a dimostrare i numerosi esempi tratti dalla vita economica e dalla sua interpretazione presenti nei suoi studi successivi, come anche il saggio tire dal saggio di Analisi della circolazione, nella speranza di una sua possibile ricezione. C'è da rimanere sinceramente stupiti dal suo livello di aggiornamento continuo in economia, come anche del fatto che un teologo e filosofo che soltanto pochi anni prima aveva portato a compimento il filone di
ricerca principale di quaranta anni di studi con il volume Method in Theology (traduzio-ne italiana Il Metodo in Teologia, Roma, Città Nuova, 2001), continui invece a seguire la letteratura macroeconomica dedicandosi alla lettura anche di saggi specialistici e scritti in maniera tecnica, oltre che a ponderosi volu-
mi di analisi culturale più qualitativa. A partire dal 1978, e fino alla morte (1984),
Lonergan tenne annualmente al Boston College il seminario Macroeconomics and Dialectic of History, per il quale il saggio del 1944, più volte rimaneggiato, costituiva uno dei testi di base.
I testi presentati testimoniano da un lato i multiformi interessi di Lonergan e la sua
capacità di penetrare in profondità la storia e la cultura del nostro tempo, e aggiungono dall'altro un tassello importante alla comprensione della sua opera complessiva.
Essi offrono anche uno sguardo sull'economia che vale la pena di conoscere e di studiare per se stesso, soprattutto nello stato di acuta crisi in cui versano le nostre economie. Anche se non facile da appropriare, scritta in linguaggio e con categorie d'analisi affatto originali, l'analisi economica di Bernard Lonergan suggerisce di percorrere vie inedite di ricerca. E indica la necessità e la fecondità di una nuova collaborazione tra economisti, filosofi e teologi, per comprendere la realtà e illuminare la natura dell'uomo e delle sue istituzioni per mezzo di una buona scienza economica, di un'adeguata filosofia e anche dei contenuti e degli ausili che provengono dalla Rivelazione e che, in ogni data cultura, sono mediati dalla teologia.
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Saturday, January 18, 2014
Dalle Confessioni alla Lumen fidei
Dalle Confessioni alla Lumen fidei
Il filo di Agostino Tra Ratzinger e Bergoglio
di LEONARD O LUGARESI
All'inizio della terza parte dell'enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto,
come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (...). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede.
«La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attvita missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico.
Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l'immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un'accezione sempre un po' illuministica, e — nell'esistenza quotidiana — a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile. Ci manca l'esperienza della luce come dono e quella dell'ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l'antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell'enciclica (n. 4), ma per farlo oc-
corre dunque comprendere che tale luce non è quella di un'immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po' come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci "illuminati", ma nel senso proprio del participio passato del verbo,
non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l'oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell'ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell'intendere l'immagine della luce della fede, si coglie mag
giormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall'enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant'Agostino — scrive Papa Francesco — troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell'orizzonte della fede. (...) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo
verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un'immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l'illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam,
non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da "illuminati", nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e iintendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione
del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione dall'una all'altra, per cui letteralmente si capovolge l'orientamento della vita? Agostino ce lo mostra esemplarmente nell'ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che
possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i "cristianisti"
senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia. Ma Vittorino è un uomo seria-
mente preoccupato del suo destino, che sa — come dice splendidamente Agostino — «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all'amico dicendogli semplicemente:
«Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri). Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l'offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la ce-rimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si
mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2,5).
L'attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su
uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l'antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di illuminazione" (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il
tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (...)
Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro,
non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via
per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di
profilarsi in certi recenti dibattiti intra ecclesiali.
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Il filo di Agostino Tra Ratzinger e Bergoglio
di LEONARD O LUGARESI
All'inizio della terza parte dell'enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto,
come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (...). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede.
«La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attvita missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico.
Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l'immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un'accezione sempre un po' illuministica, e — nell'esistenza quotidiana — a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile. Ci manca l'esperienza della luce come dono e quella dell'ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l'antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell'enciclica (n. 4), ma per farlo oc-
corre dunque comprendere che tale luce non è quella di un'immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po' come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci "illuminati", ma nel senso proprio del participio passato del verbo,
non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l'oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell'ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell'intendere l'immagine della luce della fede, si coglie mag
giormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall'enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant'Agostino — scrive Papa Francesco — troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell'orizzonte della fede. (...) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo
verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un'immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l'illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam,
non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da "illuminati", nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e iintendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione
del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione dall'una all'altra, per cui letteralmente si capovolge l'orientamento della vita? Agostino ce lo mostra esemplarmente nell'ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che
possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i "cristianisti"
senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia. Ma Vittorino è un uomo seria-
mente preoccupato del suo destino, che sa — come dice splendidamente Agostino — «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all'amico dicendogli semplicemente:
«Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri). Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l'offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la ce-rimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si
mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2,5).
L'attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su
uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l'antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di illuminazione" (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il
tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (...)
Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro,
non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via
per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di
profilarsi in certi recenti dibattiti intra ecclesiali.
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Messa a Santa Marta
Messa a Santa Marta
Cosi fan tutti
La "mondanità spirituale" è una tentazione pericolosa perché "ammorbidisce il cuore" con l'egoismo e insinua nei cristiani un "complesso di inferiorità" che li porta a uniformarsi al mondo, ad agire "come fanno tutti" seguendo "la moda più divertente". È un invito a vivere la "docilità spirituale" senza "vendere" la propria identità cristiana quello espresso da Papa Francesco nella messa celebrata venerdì 17 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta.
Come nei giorni scorsi, per la sua riflessione il Pontefice ha preso spunto dalla lettura liturgica tratta del primo libro di Samuele. "Abbiamo visto - ha spiegato - come il popolo si era allontanato da Dio, aveva perso la conoscenza della parola di Dio: non la sentiva, non la meditava". E "quando non c'è la parola di Dio - ha detto - il posto viene preso da un'altra parola: la parola propria, la parola del proprio egoismo, la parola delle proprie voglie. E anche la parola del mondo".
Meditando quanto narrato nel libro di Samuele "abbiamo visto - ha proseguito - come il popolo, allontanato dalla parola di Dio, aveva sofferto quelle sconfitte" che avevano provocato tantissimi morti e lasciato "vedove e orfani". Erano "le sconfitte" di un popolo che "si era allontanato" dalla strada indicata dal Signore.
Allontanarsi da Dio, ha notato il Pontefice, significa perciò imboccare una strada che inevitabilmente "porta a quello che abbiamo sentito oggi (1 Samuele 8, 4-7.10-22a): il popolo rigetta Dio. Non solo non sente la parola di Dio, ma lo rigetta" e finisce per dire: "possiamo governarci da noi stessi, siamo liberi e vogliamo andare su questa strada".
Samuele, ha proseguito il Papa, "soffre per questo e va dal Signore. E il Signore, con quel buon senso che ha", suggerisce a Samuele: "Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro".
In sostanza, ha spiegato il Papa, "il Signore lascia che il popolo continui ad allontanarsi da lui", facendogli fare "esperienza" di cosa significhi questo distacco. "E Samuele - ha detto ancora il Pontefice - prova a convincerli e dice tutte queste cose che abbiamo sentito, che farà il re con loro, con i loro figli, con le loro figlie". Eppure, nonostante gli avvertimenti, "il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele" e chiese di avere "un re come giudice".
E qui, ha spiegato il Papa, c'è "la frase" decisiva, "la chiave di interpretazione" per comprendere la questione. Risponde infatti il popolo a Samuele: "Saremo anche noi come tutti i popoli". È questo il loro primo pensiero, "la prima proposta: un re che sia "nostro giudice", come avviene per tutti i popoli". Una richiesta - ha affermato il Pontefice - motivata da un fatto: si erano "dimenticati che loro erano un popolo eletto. Un popolo del Signore. Un popolo scelto con amore, portato avanti dalla mano" di Dio, proprio "come il papà porta il bambino". Hanno "dimenticato tutto questo amore" e vogliono diventare come tutti i popoli.
Questo desiderio - ha detto ancora il Papa - "tornerà come tentazione nella storia del popolo eletto. Ricordiamo il tempo dei Maccabei, quando loro hanno negoziato l'appartenenza come popolo eletto per essere come tutti gli altri popoli. È una vera insurrezione. Il popolo si ribella contro il Signore". E questa, ha puntualizzato, "è la porta che si apre verso la mondanità: come fanno tutti. Con i valori che abbiamo ma come fanno loro"; e non invece "come tu che mi hai eletto mi dici di fare". La conseguenza pratica è che "rigettano il Signore dell'amore, rigettano l'elezione. E cercano la strada della mondanità".
Certo, ha precisato il Papa, "è vero che il cristiano deve essere normale, come sono normali le persone. Questo lo dice già la Lettera a Diogneto, nei primi tempi della Chiesa. Ma - ha avvertito - ci sono valori che il cristiano non può prendere per sé". Egli infatti "deve ritenere su di sé la parola di Dio che gli dice: tu sei mio figlio, tu sei eletto, io sono con te, io cammino con te". E "la normalità della vita esige dal cristiano fedeltà alla sua elezione". Questa sua elezione non deve mai "venderla per andare verso una uniformità mondana: questa è le tentazione del popolo e anche la nostra".
Papa Francesco ha messo in guardia dalla tentazione di dimenticare "la parola di Dio, quello che ci dice il Signore" per rincorrere invece "la parola di moda". E ha commentato: "Anche quella della telenovela è di moda! Prendiamo quella: è più divertente!". Questo atteggiamento di "mondanità", ha precisato, "è più pericoloso perché è più sottile"; mentre "l'apostasia", cioè "proprio il peccato della rottura col Signore", si vede e si riconosce chiaramente.
Di più: dire che "saremo anche noi come tutti i popoli" rivela il fatto che essi "si sentivano con un certo complesso di inferiorità per non essere un popolo normale. E la tentazione è lì, è dire: noi sappiamo cosa dovremo fare, che il Signore stia tranquillo a casa sua!". Quello in fondo era il loro pensiero, che non si discosta "dal racconto del primo peccato", cioè dalla tentazione di prendere la propria strada e di sapere già da soli come "conoscere il bene e il male".
"La tentazione - ha scandito il Pontefice - indurisce il cuore. E quando il cuore è duro, quando il cuore non è aperto, la parola di Dio non può entrare". Non a caso Gesù ha detto "a quelli di Emmaus: stolti e tardi di cuore!"; avendo "il cuore duro, non potevano capire la parola di Dio".
Proprio "la mondanità ammorbidisce il cuore". Ma gli fa "male". Perché, ha notato il Papa, "non è mai una cosa buona il cuore morbido. Buono è il cuore aperto alla parola di Dio, che la riceve. Come la Madonna che meditava tutte queste cose in cuor suo, dice il Vangelo". Ecco dunque la priorità: "ricevere la parola di Dio per non allontanarsi dell'elezione".
"Nella preghiera all'inizio della messa - ha ricordato il Pontefice - abbiamo chiesto la grazia di superare i nostri egoismi", in particolare quello di voler fare la propria volontà. Papa Francesco ha suggerito, in conclusione, di rinnovare al Signore la richiesta di questa grazia. E di invocare anche "la grazia della docilità spirituale, cioè di aprire il cuore alla parola di Dio". Per "non fare come questi nostri fratelli che hanno chiuso il cuore perché si erano allontanati da Dio e da tempo non sentivano e non capivano la parola di Dio". Che "il Signore ci dia la grazia - ha auspicato - di un cuore aperto per ricevere la parola di Dio", per "meditarla sempre" e per "prendere la vera strada".
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Cosi fan tutti
La "mondanità spirituale" è una tentazione pericolosa perché "ammorbidisce il cuore" con l'egoismo e insinua nei cristiani un "complesso di inferiorità" che li porta a uniformarsi al mondo, ad agire "come fanno tutti" seguendo "la moda più divertente". È un invito a vivere la "docilità spirituale" senza "vendere" la propria identità cristiana quello espresso da Papa Francesco nella messa celebrata venerdì 17 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta.
Come nei giorni scorsi, per la sua riflessione il Pontefice ha preso spunto dalla lettura liturgica tratta del primo libro di Samuele. "Abbiamo visto - ha spiegato - come il popolo si era allontanato da Dio, aveva perso la conoscenza della parola di Dio: non la sentiva, non la meditava". E "quando non c'è la parola di Dio - ha detto - il posto viene preso da un'altra parola: la parola propria, la parola del proprio egoismo, la parola delle proprie voglie. E anche la parola del mondo".
Meditando quanto narrato nel libro di Samuele "abbiamo visto - ha proseguito - come il popolo, allontanato dalla parola di Dio, aveva sofferto quelle sconfitte" che avevano provocato tantissimi morti e lasciato "vedove e orfani". Erano "le sconfitte" di un popolo che "si era allontanato" dalla strada indicata dal Signore.
Allontanarsi da Dio, ha notato il Pontefice, significa perciò imboccare una strada che inevitabilmente "porta a quello che abbiamo sentito oggi (1 Samuele 8, 4-7.10-22a): il popolo rigetta Dio. Non solo non sente la parola di Dio, ma lo rigetta" e finisce per dire: "possiamo governarci da noi stessi, siamo liberi e vogliamo andare su questa strada".
Samuele, ha proseguito il Papa, "soffre per questo e va dal Signore. E il Signore, con quel buon senso che ha", suggerisce a Samuele: "Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro".
In sostanza, ha spiegato il Papa, "il Signore lascia che il popolo continui ad allontanarsi da lui", facendogli fare "esperienza" di cosa significhi questo distacco. "E Samuele - ha detto ancora il Pontefice - prova a convincerli e dice tutte queste cose che abbiamo sentito, che farà il re con loro, con i loro figli, con le loro figlie". Eppure, nonostante gli avvertimenti, "il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele" e chiese di avere "un re come giudice".
E qui, ha spiegato il Papa, c'è "la frase" decisiva, "la chiave di interpretazione" per comprendere la questione. Risponde infatti il popolo a Samuele: "Saremo anche noi come tutti i popoli". È questo il loro primo pensiero, "la prima proposta: un re che sia "nostro giudice", come avviene per tutti i popoli". Una richiesta - ha affermato il Pontefice - motivata da un fatto: si erano "dimenticati che loro erano un popolo eletto. Un popolo del Signore. Un popolo scelto con amore, portato avanti dalla mano" di Dio, proprio "come il papà porta il bambino". Hanno "dimenticato tutto questo amore" e vogliono diventare come tutti i popoli.
Questo desiderio - ha detto ancora il Papa - "tornerà come tentazione nella storia del popolo eletto. Ricordiamo il tempo dei Maccabei, quando loro hanno negoziato l'appartenenza come popolo eletto per essere come tutti gli altri popoli. È una vera insurrezione. Il popolo si ribella contro il Signore". E questa, ha puntualizzato, "è la porta che si apre verso la mondanità: come fanno tutti. Con i valori che abbiamo ma come fanno loro"; e non invece "come tu che mi hai eletto mi dici di fare". La conseguenza pratica è che "rigettano il Signore dell'amore, rigettano l'elezione. E cercano la strada della mondanità".
Certo, ha precisato il Papa, "è vero che il cristiano deve essere normale, come sono normali le persone. Questo lo dice già la Lettera a Diogneto, nei primi tempi della Chiesa. Ma - ha avvertito - ci sono valori che il cristiano non può prendere per sé". Egli infatti "deve ritenere su di sé la parola di Dio che gli dice: tu sei mio figlio, tu sei eletto, io sono con te, io cammino con te". E "la normalità della vita esige dal cristiano fedeltà alla sua elezione". Questa sua elezione non deve mai "venderla per andare verso una uniformità mondana: questa è le tentazione del popolo e anche la nostra".
Papa Francesco ha messo in guardia dalla tentazione di dimenticare "la parola di Dio, quello che ci dice il Signore" per rincorrere invece "la parola di moda". E ha commentato: "Anche quella della telenovela è di moda! Prendiamo quella: è più divertente!". Questo atteggiamento di "mondanità", ha precisato, "è più pericoloso perché è più sottile"; mentre "l'apostasia", cioè "proprio il peccato della rottura col Signore", si vede e si riconosce chiaramente.
Di più: dire che "saremo anche noi come tutti i popoli" rivela il fatto che essi "si sentivano con un certo complesso di inferiorità per non essere un popolo normale. E la tentazione è lì, è dire: noi sappiamo cosa dovremo fare, che il Signore stia tranquillo a casa sua!". Quello in fondo era il loro pensiero, che non si discosta "dal racconto del primo peccato", cioè dalla tentazione di prendere la propria strada e di sapere già da soli come "conoscere il bene e il male".
"La tentazione - ha scandito il Pontefice - indurisce il cuore. E quando il cuore è duro, quando il cuore non è aperto, la parola di Dio non può entrare". Non a caso Gesù ha detto "a quelli di Emmaus: stolti e tardi di cuore!"; avendo "il cuore duro, non potevano capire la parola di Dio".
Proprio "la mondanità ammorbidisce il cuore". Ma gli fa "male". Perché, ha notato il Papa, "non è mai una cosa buona il cuore morbido. Buono è il cuore aperto alla parola di Dio, che la riceve. Come la Madonna che meditava tutte queste cose in cuor suo, dice il Vangelo". Ecco dunque la priorità: "ricevere la parola di Dio per non allontanarsi dell'elezione".
"Nella preghiera all'inizio della messa - ha ricordato il Pontefice - abbiamo chiesto la grazia di superare i nostri egoismi", in particolare quello di voler fare la propria volontà. Papa Francesco ha suggerito, in conclusione, di rinnovare al Signore la richiesta di questa grazia. E di invocare anche "la grazia della docilità spirituale, cioè di aprire il cuore alla parola di Dio". Per "non fare come questi nostri fratelli che hanno chiuso il cuore perché si erano allontanati da Dio e da tempo non sentivano e non capivano la parola di Dio". Che "il Signore ci dia la grazia - ha auspicato - di un cuore aperto per ricevere la parola di Dio", per "meditarla sempre" e per "prendere la vera strada".
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Wednesday, January 15, 2014
Vescovi corrotti
Messa del Papa a Santa Marta
Osservatore romano mercoledì 15 gennaio 2014
E l’anziano Eli, poveretto, non aveva niente da fare. La guardava e pensava: questa
è un’ubriaca. E la disprezzò. Lui era il rappresentante della fede», colui
che avrebbe dovuto insegnare la fede, ma «il suo cuore non sentiva bene
e disprezzò questa signora. Le dice: vai via, ubriaca!».
«Quante volte il popolo di Dio — ha constatato il Santo Padre — si
sente non ben voluto da quelli che devono dare testimonianza, dai cristiani,
dai laici cristiani, dai preti, dai vescovi!».
Nel brano della scrittura, ha osservato il Pontefice, i suoi figli non
si vedono, ma erano quelli che gestivano il tempio. «Erano briganti.
Erano sacerdoti — ha detto — ma briganti. Andavano dietro al potere
e dietro ai soldi; sfruttavano la gente, approfittavano delle elemosine e
dei doni. Dice la Bibbia che prendevano i pezzi più belli dei sacrifici
per mangiare loro. Sfruttavano. Il Signore li punisce forte, questi due!».
Per il Papa essi rappresentano «la figura del cristiano corrotto, del laico
corrotto, del prete corrotto, del vescovo corrotto.Approfittano della
situazione, del privilegio della fede, di essere cristiani. E il loro cuore finisce
corrotto.
Osservatore romano mercoledì 15 gennaio 2014
E l’anziano Eli, poveretto, non aveva niente da fare. La guardava e pensava: questa
è un’ubriaca. E la disprezzò. Lui era il rappresentante della fede», colui
che avrebbe dovuto insegnare la fede, ma «il suo cuore non sentiva bene
e disprezzò questa signora. Le dice: vai via, ubriaca!».
«Quante volte il popolo di Dio — ha constatato il Santo Padre — si
sente non ben voluto da quelli che devono dare testimonianza, dai cristiani,
dai laici cristiani, dai preti, dai vescovi!».
Nel brano della scrittura, ha osservato il Pontefice, i suoi figli non
si vedono, ma erano quelli che gestivano il tempio. «Erano briganti.
Erano sacerdoti — ha detto — ma briganti. Andavano dietro al potere
e dietro ai soldi; sfruttavano la gente, approfittavano delle elemosine e
dei doni. Dice la Bibbia che prendevano i pezzi più belli dei sacrifici
per mangiare loro. Sfruttavano. Il Signore li punisce forte, questi due!».
Per il Papa essi rappresentano «la figura del cristiano corrotto, del laico
corrotto, del prete corrotto, del vescovo corrotto.Approfittano della
situazione, del privilegio della fede, di essere cristiani. E il loro cuore finisce
corrotto.
Saturday, November 09, 2013
Non tutti i cristiani sono animati dal soffio di una sana spiritualità
Non tutti i cristiani sono animati dal soffio di una sana spiritualità
Invece di cercare Dio
di ALBERTO HURTADO
Non molti si preoccupano della vita spirituale e, disgraziatamente, non tutti seguono il giusto cammino. Quanti per decine di anni, fanno meditazione e lettura senza trarne profitto! Quanti sono maggiormente preoccupati di seguire un metodo piuttosto che lo Spirito Santo! Quanti vogliono imitare alla lettera le pratiche di tale o talaltro santo! Quanti aspirano alle meraviglie, alle grazie sensibili! Quanti dimenticano che fanno parte di una umanità sof- ferente e fabbricano una religione egoista che non ricorda i fratelli! Quanti leggono e rileggono manuali o cercano ricette senza conoscere il Vangelo, senza ricordarsi di san Paolo!
D'altra parte la vita spirituale si confonde con le pratiche di pietà: lettura spirituale, preghiere, ricer- che. La vita attiva non è una prepa- razione alla vita interiore. Le preoc- cupazioni della vita ordinaria, dei propri doveri, sono messe al di fuori della preghiera: sembra indegno me- scolare Dio e tali questioni banali.
Così arrivano a forgiarsi una vita spirituale complicata e artificiale. Invece di cercare Dio nelle circo- stanze dove Egli ci ha posto, nelle necessità profonde della propria persona, nelle situazioni del proprio ambiente temporale e locale, prefe- riamo agire come uomini astratti. Dio e la vita reale non compaiono mai nello stesso campo di pensiero e di amore. Lottano per mantenere in sé un sentimentalismo affettivo di orientamento divino, per conservare con fatica lo sguardo fisso verso Dio, per sublimarsi; o piuttosto si accontentano delle formule sdolci- nate tratte dai libri di pietà. Ciò fa pensare all'affermazione di Pascal: «L'uomo non è angelo né bestia, ma colui che intende essere come un angelo e opera come una be- stia».
Ancor più grave: sacerdoti, uomi- ni di studio che trattano materie so- prannaturali, predicatori che prepa- rano le prediche del mattino non in- tendono introdurre questi argomenti nella vita di preghiera. Uomini che passano i giorni sulle miserie del prossimo per soccorrerle, separano il ricordo dei poveri mentre assistono alla messa. Apostoli schiacciati dalle responsabilità per il regno di Dio, considerano quasi una mancanza ve- dersi accompagnati dalle preoccupa- zioni e inquietudini.
Come se la nostra vita non doves- se essere orientata verso Dio, come se pensare a tutte le cose per Dio non fosse già pensare a Dio; o come se potessimo liberarci a nostro arbi- trio delle preoccupazioni che Dio stesso ci ha posto. Invece è così fa- cile, così indispensabile, elevarsi a Dio, perdersi in Lui, partendo dalla nostra miseria, dai nostri fallimenti, dai nostri grandi desideri. Perché, quindi, eliminarli invece di servirsi di essi come trampolino? Con sem- plicità, gettiamo il ponte della fede, della speranza, dell'amore tra la no- stra anima e Dio. Una spiritualità sana offre metodi spirituali. Una spiritualità sana si adegua alle individualità e rispetta le personalità. Si adatta ai caratteri, alle formazioni, alle culture, alle esperienze, agli ambienti, alle condi- zioni, alle circostanze, alla generosità. Prende ognuno così com'è, in piena vita umana, in piena tentazio- ne, in pieno lavoro, in pieno dovere.
Lo Spirito che soffia sempre, sen- za che si sappia da dove viene e do- ve va (Giovanni, 3, 8), si serve di ognuno per i suoi fini divini, rispet- tando lo sviluppo personale nella costruzione della grande opera col- lettiva della Chiesa. Tutti servono in questo cammino dell'umanità verso Dio; tutti trovano lavoro nella co- struzione della Chiesa. L'unica spi- ritualità che convince, introduce nel piano divino, secondo le proprie di- mensioni, per realizzare il progetto in obbedienza totale.
Ogni metodo troppo rigido, ogni direzione troppo definitiva, ogni so- stituzione della lettera allo spirito, ogni dimenticanza delle nostre real- tà individuali, riesce soltanto a di- minuire l'impeto del nostro cammi- no verso Dio.
Saranno metodi falsi tutti quelli imposti con uniformità, che preten- dono dirigerci verso Dio dimenti- cando i nostri fratelli; che ci fanno chiudere gli occhi sull'universo inve- ce di insegnarci ad aprirli per eleva- re tutto al Creatore; che rendono egoisti e ripiegano su noi stessi; che pretendono inquadrare la nostra vita da fuori senza penetrarvi interior- mente per trasformarla; e che dan- no, infine, all'uomo vantaggio su Dio.
Paragonando il Vangelo alla vita della maggior parte di noi cristiani, si avverte un malessere. Abbiamo forse dimenticato che siamo il sale della terra, la luce sul lumicino, il lievito della massa (Matteo, 5, 13-15). Il soffio dello Spirito non anima molti cristiani e uno spirito di me- diocrità ci consuma. Tra di noi vi sono cristiani attivi, anzi agitati ma le cause che ci consumano non sono la causa del cristianesimo.
Dopo aver guardato e riguardato in me stesso, ciò che si trova attorno a me, prendo il Vangelo e vado ver- so san Paolo dove trovo un cristia- nesimo tutto fuoco, tutta vita, con- quistatore, un cristianesimo vero che riguarda tutto l'uomo, rettifica la vi- ta, consuma ogni attività. Un fiume di lava ardente, incandescente che esce dal fondo stesso della religione.
La consegna al Creatore! In ogni cammino spirituale retto, vi è sem- pre il principio del dono di se stessi. Si moltiplicano le letture, le pre- ghiere, gli esami ma senza arrivare al dono di sé, diviene segno che ci siamo persi. Prima di ogni pratica, di ogni metodo, di ogni esercizio, s'impone un'offerta generosa e uni- versale di tutto il nostro essere, del nostro avere e possedere. In questa offerta piena di se stessi, atto dello spirito e della volontà che ci porta alla fede e nell'amore a contatto con Dio, risiede il segreto di ogni pro- gresso.
------------
Un'antologia
di scritti
del santo cileno
Beatificato da Giovanni Paolo II nel 1994 e canonizzato nel 2005 da Benedetto XVI, Luis Alberto Hurtado Cruchaga (1901-1952) è un santo notissimo in tutta l'America latina. Sacerdote gesuita, attento ai problemi sociali e del lavoro, ha fondato il movimento Hogar de Cristo per venire incontro alle necessità dei più poveri. La Pontificia Università Gregoriana ha ospitato nei giorni scorsi un seminario dedicato alla sua figura promosso dalla Pontificia Commissione per l'America Latina, in collaborazione con l'Ambasciata del Cile presso la Santa Sede. Nell'occasione è stata presentata la prima traduzione italiana di un'antologia di scritti del gesuita cileno (Un fuoco che accende altri fuochi. San Alberto Hurtado, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2013, pagine 192, euro 15). Tratto dal volume in questione, pubblichiamo il capitolo intitolato «Una sana spiritualità».
Osservatore romano
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Invece di cercare Dio
di ALBERTO HURTADO
Non molti si preoccupano della vita spirituale e, disgraziatamente, non tutti seguono il giusto cammino. Quanti per decine di anni, fanno meditazione e lettura senza trarne profitto! Quanti sono maggiormente preoccupati di seguire un metodo piuttosto che lo Spirito Santo! Quanti vogliono imitare alla lettera le pratiche di tale o talaltro santo! Quanti aspirano alle meraviglie, alle grazie sensibili! Quanti dimenticano che fanno parte di una umanità sof- ferente e fabbricano una religione egoista che non ricorda i fratelli! Quanti leggono e rileggono manuali o cercano ricette senza conoscere il Vangelo, senza ricordarsi di san Paolo!
D'altra parte la vita spirituale si confonde con le pratiche di pietà: lettura spirituale, preghiere, ricer- che. La vita attiva non è una prepa- razione alla vita interiore. Le preoc- cupazioni della vita ordinaria, dei propri doveri, sono messe al di fuori della preghiera: sembra indegno me- scolare Dio e tali questioni banali.
Così arrivano a forgiarsi una vita spirituale complicata e artificiale. Invece di cercare Dio nelle circo- stanze dove Egli ci ha posto, nelle necessità profonde della propria persona, nelle situazioni del proprio ambiente temporale e locale, prefe- riamo agire come uomini astratti. Dio e la vita reale non compaiono mai nello stesso campo di pensiero e di amore. Lottano per mantenere in sé un sentimentalismo affettivo di orientamento divino, per conservare con fatica lo sguardo fisso verso Dio, per sublimarsi; o piuttosto si accontentano delle formule sdolci- nate tratte dai libri di pietà. Ciò fa pensare all'affermazione di Pascal: «L'uomo non è angelo né bestia, ma colui che intende essere come un angelo e opera come una be- stia».
Ancor più grave: sacerdoti, uomi- ni di studio che trattano materie so- prannaturali, predicatori che prepa- rano le prediche del mattino non in- tendono introdurre questi argomenti nella vita di preghiera. Uomini che passano i giorni sulle miserie del prossimo per soccorrerle, separano il ricordo dei poveri mentre assistono alla messa. Apostoli schiacciati dalle responsabilità per il regno di Dio, considerano quasi una mancanza ve- dersi accompagnati dalle preoccupa- zioni e inquietudini.
Come se la nostra vita non doves- se essere orientata verso Dio, come se pensare a tutte le cose per Dio non fosse già pensare a Dio; o come se potessimo liberarci a nostro arbi- trio delle preoccupazioni che Dio stesso ci ha posto. Invece è così fa- cile, così indispensabile, elevarsi a Dio, perdersi in Lui, partendo dalla nostra miseria, dai nostri fallimenti, dai nostri grandi desideri. Perché, quindi, eliminarli invece di servirsi di essi come trampolino? Con sem- plicità, gettiamo il ponte della fede, della speranza, dell'amore tra la no- stra anima e Dio. Una spiritualità sana offre metodi spirituali. Una spiritualità sana si adegua alle individualità e rispetta le personalità. Si adatta ai caratteri, alle formazioni, alle culture, alle esperienze, agli ambienti, alle condi- zioni, alle circostanze, alla generosità. Prende ognuno così com'è, in piena vita umana, in piena tentazio- ne, in pieno lavoro, in pieno dovere.
Lo Spirito che soffia sempre, sen- za che si sappia da dove viene e do- ve va (Giovanni, 3, 8), si serve di ognuno per i suoi fini divini, rispet- tando lo sviluppo personale nella costruzione della grande opera col- lettiva della Chiesa. Tutti servono in questo cammino dell'umanità verso Dio; tutti trovano lavoro nella co- struzione della Chiesa. L'unica spi- ritualità che convince, introduce nel piano divino, secondo le proprie di- mensioni, per realizzare il progetto in obbedienza totale.
Ogni metodo troppo rigido, ogni direzione troppo definitiva, ogni so- stituzione della lettera allo spirito, ogni dimenticanza delle nostre real- tà individuali, riesce soltanto a di- minuire l'impeto del nostro cammi- no verso Dio.
Saranno metodi falsi tutti quelli imposti con uniformità, che preten- dono dirigerci verso Dio dimenti- cando i nostri fratelli; che ci fanno chiudere gli occhi sull'universo inve- ce di insegnarci ad aprirli per eleva- re tutto al Creatore; che rendono egoisti e ripiegano su noi stessi; che pretendono inquadrare la nostra vita da fuori senza penetrarvi interior- mente per trasformarla; e che dan- no, infine, all'uomo vantaggio su Dio.
Paragonando il Vangelo alla vita della maggior parte di noi cristiani, si avverte un malessere. Abbiamo forse dimenticato che siamo il sale della terra, la luce sul lumicino, il lievito della massa (Matteo, 5, 13-15). Il soffio dello Spirito non anima molti cristiani e uno spirito di me- diocrità ci consuma. Tra di noi vi sono cristiani attivi, anzi agitati ma le cause che ci consumano non sono la causa del cristianesimo.
Dopo aver guardato e riguardato in me stesso, ciò che si trova attorno a me, prendo il Vangelo e vado ver- so san Paolo dove trovo un cristia- nesimo tutto fuoco, tutta vita, con- quistatore, un cristianesimo vero che riguarda tutto l'uomo, rettifica la vi- ta, consuma ogni attività. Un fiume di lava ardente, incandescente che esce dal fondo stesso della religione.
La consegna al Creatore! In ogni cammino spirituale retto, vi è sem- pre il principio del dono di se stessi. Si moltiplicano le letture, le pre- ghiere, gli esami ma senza arrivare al dono di sé, diviene segno che ci siamo persi. Prima di ogni pratica, di ogni metodo, di ogni esercizio, s'impone un'offerta generosa e uni- versale di tutto il nostro essere, del nostro avere e possedere. In questa offerta piena di se stessi, atto dello spirito e della volontà che ci porta alla fede e nell'amore a contatto con Dio, risiede il segreto di ogni pro- gresso.
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Un'antologia
di scritti
del santo cileno
Beatificato da Giovanni Paolo II nel 1994 e canonizzato nel 2005 da Benedetto XVI, Luis Alberto Hurtado Cruchaga (1901-1952) è un santo notissimo in tutta l'America latina. Sacerdote gesuita, attento ai problemi sociali e del lavoro, ha fondato il movimento Hogar de Cristo per venire incontro alle necessità dei più poveri. La Pontificia Università Gregoriana ha ospitato nei giorni scorsi un seminario dedicato alla sua figura promosso dalla Pontificia Commissione per l'America Latina, in collaborazione con l'Ambasciata del Cile presso la Santa Sede. Nell'occasione è stata presentata la prima traduzione italiana di un'antologia di scritti del gesuita cileno (Un fuoco che accende altri fuochi. San Alberto Hurtado, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2013, pagine 192, euro 15). Tratto dal volume in questione, pubblichiamo il capitolo intitolato «Una sana spiritualità».
Osservatore romano
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Wednesday, October 09, 2013
A dieci anni dalla canonizzazione di Daniele Comboni Santo
A dieci anni dalla canonizzazione di Daniele Comboni Santo
senza fare troppo rumore
di ENRIQUE SÁNCHEZ GONZÁLEZ*
Desideriamo celebrare la santità missionaria segnata dalla croce e dal sacrificio, ricordando che le opere di Dio, nell'esperienza di Comboni, nascono e crescono ai piedi della croce e che la vita del missionario non ha niente a che vedere con il benessere, il prestigio e la comodità che oggi appaiono come gli obietti- vi dell'esistenza di tanti nel nostro mondo ammalato di protagonismo e di autoreferenzialità. Santità che ci ricorda che siamo chiamati a con- vertirci in pietre nascoste nelle fon- damenta dell'edificio, lontani dalla tentazione di voler apparire, lontani dai primi posti, dai riflettori potenti o dalle testate dei giornali.
Con san Daniele Comboni, vo- gliamo vivere la santità missionaria come esperienza che implica una di- sponibilità grande alla conversione continua che ci permetta di ricono- scere chi è l'autentico protagonista della missione. Conversione che apre all'ospitalità, alla generosità, al- la gioia di poter condividere quello che siamo trasformandoci in fratelli, in padri e madri delle persone a cui siamo inviati. Condividere la santità di Comboni significa accettare un itinerario che conduce per cammini contrassegnati dalla croce: questa implica la rinuncia a tutto, il sacrifi- cio, la solitudine, andare contro cor- rente, seguire una logica che non è quella del mondo. Si tratta di entra- re con umiltà nella logica di Dio che è grazia, offerta di sé, accoglien- za sempre pronta, servizio senza di- stinzioni: in una parola, amore che si lascia sacrificare sulla croce per vincere la morte e perché tutti ab- biano vita in Lui. Comboni santo è capace di formulare tutta questa esperienza dicendo, con la semplici- tà delle parole, ma ancor più con il silenzio della sua consacrazione alla missione, che «le opere di Dio na- scono e crescono ai piedi della cro- ce». Non c'è santità missionaria comboniana che non passi per il cammino della croce.
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senza fare troppo rumore
di ENRIQUE SÁNCHEZ GONZÁLEZ*
Desideriamo celebrare la santità missionaria segnata dalla croce e dal sacrificio, ricordando che le opere di Dio, nell'esperienza di Comboni, nascono e crescono ai piedi della croce e che la vita del missionario non ha niente a che vedere con il benessere, il prestigio e la comodità che oggi appaiono come gli obietti- vi dell'esistenza di tanti nel nostro mondo ammalato di protagonismo e di autoreferenzialità. Santità che ci ricorda che siamo chiamati a con- vertirci in pietre nascoste nelle fon- damenta dell'edificio, lontani dalla tentazione di voler apparire, lontani dai primi posti, dai riflettori potenti o dalle testate dei giornali.
Con san Daniele Comboni, vo- gliamo vivere la santità missionaria come esperienza che implica una di- sponibilità grande alla conversione continua che ci permetta di ricono- scere chi è l'autentico protagonista della missione. Conversione che apre all'ospitalità, alla generosità, al- la gioia di poter condividere quello che siamo trasformandoci in fratelli, in padri e madri delle persone a cui siamo inviati. Condividere la santità di Comboni significa accettare un itinerario che conduce per cammini contrassegnati dalla croce: questa implica la rinuncia a tutto, il sacrifi- cio, la solitudine, andare contro cor- rente, seguire una logica che non è quella del mondo. Si tratta di entra- re con umiltà nella logica di Dio che è grazia, offerta di sé, accoglien- za sempre pronta, servizio senza di- stinzioni: in una parola, amore che si lascia sacrificare sulla croce per vincere la morte e perché tutti ab- biano vita in Lui. Comboni santo è capace di formulare tutta questa esperienza dicendo, con la semplici- tà delle parole, ma ancor più con il silenzio della sua consacrazione alla missione, che «le opere di Dio na- scono e crescono ai piedi della cro- ce». Non c'è santità missionaria comboniana che non passi per il cammino della croce.
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Conclusa la visita in Corea del prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli
Conclusa la visita in Corea del prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli
Una Chiesa aperta
Significativo l'abbraccio con il quale si è conclusa, il 5 ottobre scorso, la visita in Corea del cardinale Fernan- do Filoni, prefetto della Congrega- zione per l'Evangelizzazione dei Po- poli. Protagonisti sono stati i semi- naristi, coloro ai quali è affidato il futuro di una Chiesa che al porpo- rato si è presentata in tutta la sua vi- vacità, decisa ad aprirsi ancor di più alla missio ad gentes.
Il cardinale ne ha incontrato una folta rappresentanza degli oltre 1.500 che si stanno preparando al sacerdo- zio. Erano riuniti nel seminario maggiore di Seoul con i loro forma- tori, sotto la cui guida stanno viven- do quello che il cardinale Filoni ha definito come «un tempo di discer- nimento, orientamento e preparazio- ne al servizio di Dio e della Chie- sa». Delineando le caratteristiche del sacerdote, il prefetto del dicaste- ro missionario, ha sottolineato in- nanzitutto l'essere «uomo di Dio e uomo di preghiera, amante dell'eser- cizio quotidiano della liturgia delle ore e dell'orazione personale; uomo di elevate virtù e di carità; uomo formato alla Parola e alla sapienza divina». Niente a che vedere con un freddo «amministratore o burocrate di questioni religiose». I sacerdoti, ha raccomandato, non devono essere «ideologi di un messaggio evangeli- co di tipo socializzante, secondo una lettura consona alle scienze po- litico-sociali, nemmeno di tipo psi- chiatrico immanente e autoreferen- ziale, privo di trascendenza e di mis- sionarietà, e nemmeno di tipo elita- rio, distante dalla realtà, in un con- testo di pessimismo disincarnato, lontano da Dio e dagli uomini».
Sempre a Seoul, sabato 5, il cardi- nale ha incontrato il laicato, erede di una grande storia di fede. «Ogni volta che nel mondo si parlerà della Chiesa in Corea — ha detto — non si potrà mai omettere di ricordare che i suoi inizi sono legati alla straordi- naria iniziativa di un gruppo di laici letterati. Pur essendo privi di sacer- doti e vescovi, nel desiderio di una leale ricerca della verità, vollero co- noscere la fede cattolica e la intro- dussero nel Paese».
Il cardinale Filoni ha quindi mes- so in guardia dalle tentazioni del se- colarismo e del materialismo, che in- sinuandosi «nella vita del cristiano» lo portano «a mutare il modo di pensare e di vivere, cosicché la Paro- la di Dio non è più la fonte d'ispira- zione dell'agire cristiano». Un ulte- riore pericolo è rappresentato dalla tendenza alla burocratizzazione e all'efficientismo, fino «quasi a sper- sonalizzarsi». Altro problema consi- ste «nella tendenza a frazionare la composita realtà ecclesiale, dove non prevalgono più le virtù della fraternità e della comunione eccle- siale, ma la distinzione, il grado, l'età».
E prima di incontrare i laici, il cardinale ha celebrato la messa nel santuario dei martiri di Choltusan. «Qui in Corea — ha detto — possia- mo rilevare l'importanza non solo dei missionari venuti da lontano per portare il Vangelo, ma soprattutto di uomini laici ai quali il Signore ha aperto il cuore e la mente alla grazia e alla Parola di Dio, divenendo essi stessi strumenti della Provvidenza divina nell'opera di evangelizzazio- ne».
Nella sua visita in Corea, il cardi- nale Filoni ha fatto tappa il 4 otto- bre a Chojinam, dove ha celebrato la messa per i religiosi, le religiose e i membri delle società di vita apo- stolica. «La vita religiosa ha due ca- ratteristiche indissolubili: non può non essere cristologica; non può non essere anche ecclesiologica» ha ricordato all'omelia. Secondo il cardi- nale è sbagliato «sminuire il ruolo della preghiera e dello spirito in fa- vore dell'attività pratica».
Sempre il 4 ottobre, nella catte- drale di Suwon, il prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazio- ne dei Popoli ha incontrato i sacer- doti, ai quali ha riproposto la me- moria viva di «sant'Andrea Kim Taegon, ordinato sacerdote nel 1845 e divenuto martire della fede appena un anno dopo la sua ordinazione. La sua breve vita — ha spiegato — brilla per tre motivi principali: la fe- deltà ai principi della fede appresi e vissuti nella sua nobile famiglia; il suo profondo desiderio di essere sa- cerdote; la sua testimonianza, rifiu- tando l'apostasia».
Forti di questa testimonianza, i sacerdoti sono stati invitati dal car- dinale Filoni a essere uomini di pre- ghiera e ad avere a cuore le vocazio- ni. Il porporato ha chiesto loro di «essere liberi dalle cose materiali, annunciatori e costruttori di pace», ricordando che la fede «non è pro- selitismo, non è un'ideologia». E li ha esortati a essere vicini a quanti sono nella sofferenza e nel dolore.
Sempre a Suwon, giovedì 3, il porporato ha celebrato la messa per il cinquantesimo anniversario della diocesi: è stato questo il motivo cen- trale della sua visita pastorale in Co- rea. «Alla Chiesa — ha detto — non
tocca piangere su un passato che muta, bensì spetta il compito di ri- collocare Gesù Cristo al centro della propria missione, affinché una Chie- sa cristologica sia segno di riconci- liazione e di speranza nella società». Ripercorrendo la storia della diocesi di Suwon, il cardinale ha ricordato che essa venne eretta da Paolo VI mentre a Roma si svolgeva la secon- da sessione del concilio Vaticano II: «Possiamo affermare — ha sottoli- neato — che la diocesi di Suwon nacque come da una costola del concilio».
Il porporato ha anche messo in evidenza «i profondi cambiamenti sociali ed economici» che toccano oggi famiglia e giovani. Ma «la cre- scita vistosa della comunità cattolica in questi anni — ha detto — ci stimo- la e incoraggia a comprendere quan- to la gente ha bisogno di Dio e quanto siano sempre pochi gli ope- rai nel suo campo».
Infine un incontro specifico il car- dinale Filoni ha riservato ai vescovi del Paese, che lo hanno accolto mer- coledì 2 ottobre a Seoul. «Non ac- contentatevi — li ha esortati — del prestigio che la Chiesa ha nel vostro Paese, né delle statistiche, pur così significative, che possiamo leggere. Il più è ancora da fare e bisogna avere intelligenza e audacia missio- naria». E ai presuli il cardinale ha raccomandato in particolare la visita alle parrocchie e la vigilanza sulla trasparenza amministrativa. Parlan- do del rapporto con i sacerdoti, ha poi invitato i vescovi a «mantenere con loro relazioni positive, paterne». Ha chiesto di visitare spesso i semi- nari e ha indicato la necessità di so- stenere il laicato come «prezioso ser- batoio di forze da immettere nella realtà sociale, politica, economica e culturale».
Il cardinale Filoni ha poi ringra- ziato i presuli per il loro impegno missionario, «per l'attitudine positi- va nei confronti dei fedeli della Co- rea del nord, ai quali, in questo mo- mento, va il mio pensiero e la mia preghiera. Grazie anche — ha con- cluso — per l'attenzione che voi ri- servate alla Chiesa in Cina. In meri- to, data la delicata situazione che es- sa attraversa, una migliore intesa con la nostra Congregazione è assai auspicabile».
Osservatore Romano 9 ottobre
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Una Chiesa aperta
Significativo l'abbraccio con il quale si è conclusa, il 5 ottobre scorso, la visita in Corea del cardinale Fernan- do Filoni, prefetto della Congrega- zione per l'Evangelizzazione dei Po- poli. Protagonisti sono stati i semi- naristi, coloro ai quali è affidato il futuro di una Chiesa che al porpo- rato si è presentata in tutta la sua vi- vacità, decisa ad aprirsi ancor di più alla missio ad gentes.
Il cardinale ne ha incontrato una folta rappresentanza degli oltre 1.500 che si stanno preparando al sacerdo- zio. Erano riuniti nel seminario maggiore di Seoul con i loro forma- tori, sotto la cui guida stanno viven- do quello che il cardinale Filoni ha definito come «un tempo di discer- nimento, orientamento e preparazio- ne al servizio di Dio e della Chie- sa». Delineando le caratteristiche del sacerdote, il prefetto del dicaste- ro missionario, ha sottolineato in- nanzitutto l'essere «uomo di Dio e uomo di preghiera, amante dell'eser- cizio quotidiano della liturgia delle ore e dell'orazione personale; uomo di elevate virtù e di carità; uomo formato alla Parola e alla sapienza divina». Niente a che vedere con un freddo «amministratore o burocrate di questioni religiose». I sacerdoti, ha raccomandato, non devono essere «ideologi di un messaggio evangeli- co di tipo socializzante, secondo una lettura consona alle scienze po- litico-sociali, nemmeno di tipo psi- chiatrico immanente e autoreferen- ziale, privo di trascendenza e di mis- sionarietà, e nemmeno di tipo elita- rio, distante dalla realtà, in un con- testo di pessimismo disincarnato, lontano da Dio e dagli uomini».
Sempre a Seoul, sabato 5, il cardi- nale ha incontrato il laicato, erede di una grande storia di fede. «Ogni volta che nel mondo si parlerà della Chiesa in Corea — ha detto — non si potrà mai omettere di ricordare che i suoi inizi sono legati alla straordi- naria iniziativa di un gruppo di laici letterati. Pur essendo privi di sacer- doti e vescovi, nel desiderio di una leale ricerca della verità, vollero co- noscere la fede cattolica e la intro- dussero nel Paese».
Il cardinale Filoni ha quindi mes- so in guardia dalle tentazioni del se- colarismo e del materialismo, che in- sinuandosi «nella vita del cristiano» lo portano «a mutare il modo di pensare e di vivere, cosicché la Paro- la di Dio non è più la fonte d'ispira- zione dell'agire cristiano». Un ulte- riore pericolo è rappresentato dalla tendenza alla burocratizzazione e all'efficientismo, fino «quasi a sper- sonalizzarsi». Altro problema consi- ste «nella tendenza a frazionare la composita realtà ecclesiale, dove non prevalgono più le virtù della fraternità e della comunione eccle- siale, ma la distinzione, il grado, l'età».
E prima di incontrare i laici, il cardinale ha celebrato la messa nel santuario dei martiri di Choltusan. «Qui in Corea — ha detto — possia- mo rilevare l'importanza non solo dei missionari venuti da lontano per portare il Vangelo, ma soprattutto di uomini laici ai quali il Signore ha aperto il cuore e la mente alla grazia e alla Parola di Dio, divenendo essi stessi strumenti della Provvidenza divina nell'opera di evangelizzazio- ne».
Nella sua visita in Corea, il cardi- nale Filoni ha fatto tappa il 4 otto- bre a Chojinam, dove ha celebrato la messa per i religiosi, le religiose e i membri delle società di vita apo- stolica. «La vita religiosa ha due ca- ratteristiche indissolubili: non può non essere cristologica; non può non essere anche ecclesiologica» ha ricordato all'omelia. Secondo il cardi- nale è sbagliato «sminuire il ruolo della preghiera e dello spirito in fa- vore dell'attività pratica».
Sempre il 4 ottobre, nella catte- drale di Suwon, il prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazio- ne dei Popoli ha incontrato i sacer- doti, ai quali ha riproposto la me- moria viva di «sant'Andrea Kim Taegon, ordinato sacerdote nel 1845 e divenuto martire della fede appena un anno dopo la sua ordinazione. La sua breve vita — ha spiegato — brilla per tre motivi principali: la fe- deltà ai principi della fede appresi e vissuti nella sua nobile famiglia; il suo profondo desiderio di essere sa- cerdote; la sua testimonianza, rifiu- tando l'apostasia».
Forti di questa testimonianza, i sacerdoti sono stati invitati dal car- dinale Filoni a essere uomini di pre- ghiera e ad avere a cuore le vocazio- ni. Il porporato ha chiesto loro di «essere liberi dalle cose materiali, annunciatori e costruttori di pace», ricordando che la fede «non è pro- selitismo, non è un'ideologia». E li ha esortati a essere vicini a quanti sono nella sofferenza e nel dolore.
Sempre a Suwon, giovedì 3, il porporato ha celebrato la messa per il cinquantesimo anniversario della diocesi: è stato questo il motivo cen- trale della sua visita pastorale in Co- rea. «Alla Chiesa — ha detto — non
tocca piangere su un passato che muta, bensì spetta il compito di ri- collocare Gesù Cristo al centro della propria missione, affinché una Chie- sa cristologica sia segno di riconci- liazione e di speranza nella società». Ripercorrendo la storia della diocesi di Suwon, il cardinale ha ricordato che essa venne eretta da Paolo VI mentre a Roma si svolgeva la secon- da sessione del concilio Vaticano II: «Possiamo affermare — ha sottoli- neato — che la diocesi di Suwon nacque come da una costola del concilio».
Il porporato ha anche messo in evidenza «i profondi cambiamenti sociali ed economici» che toccano oggi famiglia e giovani. Ma «la cre- scita vistosa della comunità cattolica in questi anni — ha detto — ci stimo- la e incoraggia a comprendere quan- to la gente ha bisogno di Dio e quanto siano sempre pochi gli ope- rai nel suo campo».
Infine un incontro specifico il car- dinale Filoni ha riservato ai vescovi del Paese, che lo hanno accolto mer- coledì 2 ottobre a Seoul. «Non ac- contentatevi — li ha esortati — del prestigio che la Chiesa ha nel vostro Paese, né delle statistiche, pur così significative, che possiamo leggere. Il più è ancora da fare e bisogna avere intelligenza e audacia missio- naria». E ai presuli il cardinale ha raccomandato in particolare la visita alle parrocchie e la vigilanza sulla trasparenza amministrativa. Parlan- do del rapporto con i sacerdoti, ha poi invitato i vescovi a «mantenere con loro relazioni positive, paterne». Ha chiesto di visitare spesso i semi- nari e ha indicato la necessità di so- stenere il laicato come «prezioso ser- batoio di forze da immettere nella realtà sociale, politica, economica e culturale».
Il cardinale Filoni ha poi ringra- ziato i presuli per il loro impegno missionario, «per l'attitudine positi- va nei confronti dei fedeli della Co- rea del nord, ai quali, in questo mo- mento, va il mio pensiero e la mia preghiera. Grazie anche — ha con- cluso — per l'attenzione che voi ri- servate alla Chiesa in Cina. In meri- to, data la delicata situazione che es- sa attraversa, una migliore intesa con la nostra Congregazione è assai auspicabile».
Osservatore Romano 9 ottobre
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Wednesday, October 02, 2013
Intervista con il vescovo giapponese Dominic Ryōji Miyahara Porte aperte nel Sol levante
Intervista con il vescovo giapponese Dominic Ryōji Miyahara Porte aperte nel Sol levante
da Fukuoka
CRISTIAN MARTINI GRIMALDI
La porta della chiesa è aperta, così quella dell'ufficio della cancelleria ac- canto. Anche il portone della casa che ospita il vescovo è aperto. Chissà se è una pratica abituale o se, con grande zelo, hanno semplicemente seguito il consiglio che Papa Francesco ha dato ai parroci romani solo qualche settima- na fa, quando disse: lasciate aperte le porte della Chiese, allora la gente en- trerà! Noi entriamo.
Siamo all'interno dell'abitazione del vescovo Dominic Ryoji Miyahara. L'anno scorso, a ottobre, Miyahara si trovava a Roma per il sinodo dei ve- scovi, dove ha incontrato Benedetto XVI. Oggi, una bella foto di Papa Francesco che saluta la folla campeg- gia nella sala d'attesa.
Nato a Hiroshima nel 1955, Miyaha- ra è stato nominato vescovo di Oita nel 2000, e nel 2008 è divenuto vescovo di Fukuoka, la più grande prefettu ra del Kyushu. In tutto il Giappone ci sono tre arcidiocesi e tredici diocesi: per avere un termine di paragone, in Italia con meno della metà degli abi- tanti, tra diocesi e arcidiocesi, ce ne sono oltre duecento. In tutta la prefet- tura di Fukuoka i battezzati sono tren- tamila su cinque milioni di abitanti.
«È vero, in Giappone non ci sono molti cattolici, siamo circa lo 0,4 per cento, però abbiamo una grande in- fluenza sulla comunità» dice con con- vinzione il vescovo che mi siede di fronte mentre una segretaria ci serve del caffè freddo on the rocks. «Ad esempio abbiamo molte scuole, anche se la maggior parte dei nostri studenti non sono battezzati. Però apprendono gli insegnamenti del Vangelo, incontrano missionari, sono a contatto con suore, insomma familiarizzano con i pensieri e i valori del cristianesimo. Certo, la differenza con l'Italia è netta, in termini numerici. Ma noi qui diciamo che in Europa ci sono molti battezzati ma pochi fedeli. Al contrario in Giappone abbiamo pochi battezzati ma molti credenti. Quantomeno se li paragoniamo al numero dei battezzati. Una situazione un po' paradossale se vuole. Qui di fronte, ad esempio, c'è una scuola cattolica missionaria, con circa duemila studenti».
In Giappone il cristianesimo è stato per- seguitato per oltre duecento anni. Quale ripercussione ha avuto lo stigma di «reli- gione illegale» sulla professione di fede cattolica oggi?
La persecuzione ininterrotta e dura- tura dei cristiani per duecentocin- quant'anni è un caso unico nella sto- ria. Anche sotto l'impero romano i cri- stiani erano perseguitati, ma c'erano sempre degli intervalli in cui veniva adottata una politica di tolleranza, delle pause dove la pressione sui cri- stiani si allentava. Qui, invece, non c'è stata interruzione, e sebbene non ci fossero preti per officiare i battesimi, i cristiani sono sopravvissuti per tutto questo tempo in clandestinità. Le pre- ghiere e le liturgie sono passate da una generazione all'altra oralmente. Eppure, nonostante oggi i cristiani possano professare apertamente la pro- pria fede, resta ancora una certa men- talità diffusa che risente di quell'oscu- ro passato, magari anche solo a livello inconscio, per cui un cristiano di soli- to è guardato con sospetto.
Può fare un esempio?
Durante le elezioni politiche, se il candidato è cristiano, c'è come un'aura di scetticismo, impalpabile ma reale, che lo circonda. Non ci si fida, non per qualche motivo legato alla partico- lare personalità del candidato, ma per- ché esiste una certa atmosfera di nega- tività verso i cristiani, perché appunto per due secoli fu una religione bandi- ta, e questo retaggio culturale diventa un pregiudizio quasi involontario nella mentalità contemporanea. Un po', im- magino, come in America nei confron- ti delle persone di colore: anche dopo la conquista dei diritti civili, non signi- fica che queste minoranze etniche ve- nissero immediatamente liberate dai pregiudizi che gravavano su di loro. La memoria storica è un'eredità molto forte e purtroppo non si elimina con un tratto di penna. Un giapponese che magari conosce solo parzialmente la storia, è tentato a pensare che se per duecentocinquant'anni il cristiane- simo era illegale allora significa che c'era una buona ragione. E questa mentalità è difficile da sconfiggere.
Esistono altre peculiarità, nella mentalità giapponese contemporanea, secondo lei ri- conducibili ai secoli di persecuzione?
I giapponesi solitamente sono reti- centi nel parlare di religione nella vita quotidiana, anche tra amici, vogliono sempre nascondere la loro identità reli- giosità.
Quale misure pensa che la Chiesa giap- ponese debba adottare per sfatare questi pregiudizi?
Quando Giovanni Paolo II venne in Giappone, nel lontano 1981, mi sono immediatamente accorto che qualcosa stava cambiando nella mentalità lo- cale. Piano piano l'atmosfera di nega- tività di cui le par- lavo si andava rare- facendo perché moltissime persone vedevano nel Papa un santo vero, un profeta della sua epoca. E questo me lo sono sentito dire da molti, molte persone laiche in- tendo, quella visita fece molto bene ai giapponesi, non so- lo ai cristiani. Og- gi, in parte, quella ventata di positività si è un po' perduta con l'arrivo delle nuove generazioni. Ecco perché io in- viterei Papa France- sco. E lo inviterei proprio qui a Fu-
kuoka. Certo, Nagasaki ha il doppio dei cristiani di Fukuoka, ma molti me- no abitanti, in questa prefettura vivo- no cinque milioni di persone. Per usa- re le parole del Papa, qui le pecorelle smarrite sono molte di più. E, in fon- do, è proprio qui nel Kyushu che i missionari hanno cominciato la loro opera di evangelizzazione, poi estesa a tutto il Paese, e qui ci sono molti siti sacri per i cristiani. Sono i luoghi do- ve si custodisce la memoria dei martiri vittime delle persecuzioni. [Il vescovo si alza e mi indica dei fogli appesi alla pa- rete]
Questi sono dei documenti, scoperti solo nel 2004, appartenenti a due di- versi templi qui a Fukuoka. Sono stati scritti da monaci buddisti alla fine del Settecento, e contengono la denuncia, alle autorità di allora, della presenza di due coppie di cristiani che conti- nuavano a praticare la loro fede di na- scosto.
I monaci dovevano certificare che chi giungeva al tempio non fosse cri- stiano. Probabilmente a queste due coppie venne ordinato di calpestare delle immagini sacre, quelle di Gesù o della Madonna: un rifiuto corrispon- deva automaticamente a un'autode- nuncia. Non si sa nulla sul destino che toccò a queste due coppie. Ma a quel tempo i kakure kirishitan, cioè i "cri- stiani nascosti", venivano portati a Na- gasaki e lì venivano decapitati. [Il ve- scovo guarda di nuovo l'anno sui due fo- gli e fa una pausa di qualche secondo, poi riprende a parlare] Era la primavera del 1795 quando questi quattro venne- ro scoperti. Ci sarebbero voluti alme- no altri settant'anni prima che i mis- sionari giungessero di nuovo da queste parti e che i cristiani potessero final- mente tornare a recitare apertamente il Padre nostro.
Osservatore romano, 27 settembre
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da Fukuoka
CRISTIAN MARTINI GRIMALDI
La porta della chiesa è aperta, così quella dell'ufficio della cancelleria ac- canto. Anche il portone della casa che ospita il vescovo è aperto. Chissà se è una pratica abituale o se, con grande zelo, hanno semplicemente seguito il consiglio che Papa Francesco ha dato ai parroci romani solo qualche settima- na fa, quando disse: lasciate aperte le porte della Chiese, allora la gente en- trerà! Noi entriamo.
Siamo all'interno dell'abitazione del vescovo Dominic Ryoji Miyahara. L'anno scorso, a ottobre, Miyahara si trovava a Roma per il sinodo dei ve- scovi, dove ha incontrato Benedetto XVI. Oggi, una bella foto di Papa Francesco che saluta la folla campeg- gia nella sala d'attesa.
Nato a Hiroshima nel 1955, Miyaha- ra è stato nominato vescovo di Oita nel 2000, e nel 2008 è divenuto vescovo di Fukuoka, la più grande prefettu ra del Kyushu. In tutto il Giappone ci sono tre arcidiocesi e tredici diocesi: per avere un termine di paragone, in Italia con meno della metà degli abi- tanti, tra diocesi e arcidiocesi, ce ne sono oltre duecento. In tutta la prefet- tura di Fukuoka i battezzati sono tren- tamila su cinque milioni di abitanti.
«È vero, in Giappone non ci sono molti cattolici, siamo circa lo 0,4 per cento, però abbiamo una grande in- fluenza sulla comunità» dice con con- vinzione il vescovo che mi siede di fronte mentre una segretaria ci serve del caffè freddo on the rocks. «Ad esempio abbiamo molte scuole, anche se la maggior parte dei nostri studenti non sono battezzati. Però apprendono gli insegnamenti del Vangelo, incontrano missionari, sono a contatto con suore, insomma familiarizzano con i pensieri e i valori del cristianesimo. Certo, la differenza con l'Italia è netta, in termini numerici. Ma noi qui diciamo che in Europa ci sono molti battezzati ma pochi fedeli. Al contrario in Giappone abbiamo pochi battezzati ma molti credenti. Quantomeno se li paragoniamo al numero dei battezzati. Una situazione un po' paradossale se vuole. Qui di fronte, ad esempio, c'è una scuola cattolica missionaria, con circa duemila studenti».
In Giappone il cristianesimo è stato per- seguitato per oltre duecento anni. Quale ripercussione ha avuto lo stigma di «reli- gione illegale» sulla professione di fede cattolica oggi?
La persecuzione ininterrotta e dura- tura dei cristiani per duecentocin- quant'anni è un caso unico nella sto- ria. Anche sotto l'impero romano i cri- stiani erano perseguitati, ma c'erano sempre degli intervalli in cui veniva adottata una politica di tolleranza, delle pause dove la pressione sui cri- stiani si allentava. Qui, invece, non c'è stata interruzione, e sebbene non ci fossero preti per officiare i battesimi, i cristiani sono sopravvissuti per tutto questo tempo in clandestinità. Le pre- ghiere e le liturgie sono passate da una generazione all'altra oralmente. Eppure, nonostante oggi i cristiani possano professare apertamente la pro- pria fede, resta ancora una certa men- talità diffusa che risente di quell'oscu- ro passato, magari anche solo a livello inconscio, per cui un cristiano di soli- to è guardato con sospetto.
Può fare un esempio?
Durante le elezioni politiche, se il candidato è cristiano, c'è come un'aura di scetticismo, impalpabile ma reale, che lo circonda. Non ci si fida, non per qualche motivo legato alla partico- lare personalità del candidato, ma per- ché esiste una certa atmosfera di nega- tività verso i cristiani, perché appunto per due secoli fu una religione bandi- ta, e questo retaggio culturale diventa un pregiudizio quasi involontario nella mentalità contemporanea. Un po', im- magino, come in America nei confron- ti delle persone di colore: anche dopo la conquista dei diritti civili, non signi- fica che queste minoranze etniche ve- nissero immediatamente liberate dai pregiudizi che gravavano su di loro. La memoria storica è un'eredità molto forte e purtroppo non si elimina con un tratto di penna. Un giapponese che magari conosce solo parzialmente la storia, è tentato a pensare che se per duecentocinquant'anni il cristiane- simo era illegale allora significa che c'era una buona ragione. E questa mentalità è difficile da sconfiggere.
Esistono altre peculiarità, nella mentalità giapponese contemporanea, secondo lei ri- conducibili ai secoli di persecuzione?
I giapponesi solitamente sono reti- centi nel parlare di religione nella vita quotidiana, anche tra amici, vogliono sempre nascondere la loro identità reli- giosità.
Quale misure pensa che la Chiesa giap- ponese debba adottare per sfatare questi pregiudizi?
Quando Giovanni Paolo II venne in Giappone, nel lontano 1981, mi sono immediatamente accorto che qualcosa stava cambiando nella mentalità lo- cale. Piano piano l'atmosfera di nega- tività di cui le par- lavo si andava rare- facendo perché moltissime persone vedevano nel Papa un santo vero, un profeta della sua epoca. E questo me lo sono sentito dire da molti, molte persone laiche in- tendo, quella visita fece molto bene ai giapponesi, non so- lo ai cristiani. Og- gi, in parte, quella ventata di positività si è un po' perduta con l'arrivo delle nuove generazioni. Ecco perché io in- viterei Papa France- sco. E lo inviterei proprio qui a Fu-
kuoka. Certo, Nagasaki ha il doppio dei cristiani di Fukuoka, ma molti me- no abitanti, in questa prefettura vivo- no cinque milioni di persone. Per usa- re le parole del Papa, qui le pecorelle smarrite sono molte di più. E, in fon- do, è proprio qui nel Kyushu che i missionari hanno cominciato la loro opera di evangelizzazione, poi estesa a tutto il Paese, e qui ci sono molti siti sacri per i cristiani. Sono i luoghi do- ve si custodisce la memoria dei martiri vittime delle persecuzioni. [Il vescovo si alza e mi indica dei fogli appesi alla pa- rete]
Questi sono dei documenti, scoperti solo nel 2004, appartenenti a due di- versi templi qui a Fukuoka. Sono stati scritti da monaci buddisti alla fine del Settecento, e contengono la denuncia, alle autorità di allora, della presenza di due coppie di cristiani che conti- nuavano a praticare la loro fede di na- scosto.
I monaci dovevano certificare che chi giungeva al tempio non fosse cri- stiano. Probabilmente a queste due coppie venne ordinato di calpestare delle immagini sacre, quelle di Gesù o della Madonna: un rifiuto corrispon- deva automaticamente a un'autode- nuncia. Non si sa nulla sul destino che toccò a queste due coppie. Ma a quel tempo i kakure kirishitan, cioè i "cri- stiani nascosti", venivano portati a Na- gasaki e lì venivano decapitati. [Il ve- scovo guarda di nuovo l'anno sui due fo- gli e fa una pausa di qualche secondo, poi riprende a parlare] Era la primavera del 1795 quando questi quattro venne- ro scoperti. Ci sarebbero voluti alme- no altri settant'anni prima che i mis- sionari giungessero di nuovo da queste parti e che i cristiani potessero final- mente tornare a recitare apertamente il Padre nostro.
Osservatore romano, 27 settembre
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Saturday, August 24, 2013
La psicanalista e il monaco
Nel libro di Marie Balmary
La psicanalista e il monaco
di LU C E T TA SCARAFFIA
A dire la verità i libri che si propongono di riconciliare psicanalisi e cattolicesimo non mi hanno mai convinto. Mi sembra infatti che questi tentativi partano da un progetto armonizzatore al quale tutto viene subordinato, senza mai affrontare i veri problemi di fondo che dividono — o qualche volta improvvisamente uniscono — due sistemi di interpretazione dell’essere umano e dell’esistenza molto diversi tra loro. Non è questo il caso di un libro della psicanalista francese Marie Balmary, uscito nel 2005 (Paris, Éditions Albin Michel) e nel 2008 pubblicato in Italia dalle Paoline: Il monaco e la psicanalista.
L’autrice narra un dialogo fra una psicanalista ebrea — che è stata gravemente malata, e quindi si trova a ripensare il suo rapporto con la vita e soprattutto con la morte — e un monaco che
l’aveva conosciuta quando entrambi erano studenti di medicina.
Il dialogo non è però una trattazione astratta, che parla in generale del metodo psicanalitico e
della fede cristiana, ma una sorta di corpo a corpo fra due persone che cercano, che conoscono la sofferenza e che vogliono arrivare alla verità. Le parole della Bibbia, in quanto testo che unisce ebraismo e cristianesimo, anche se fino a quel momento poco praticato dalla psicanalista,
servono da terreno di riflessione e di scoperta.
All’inizio la contrapposizione sembra netta — «a lui la parola viene dall’esterno, a me dall’interno» — e il dialogo inizia con una polemica. Ruth, la psicanalista, accusa la Chiesa di avere tradito l’insegnamento evangelico, e Simon, il monaco, risponde che «il rinnegamento di Pietro mi sembra una base più sicura rispetto a una purezza e a una perfezione all’origine del cristianesimo», perché si riferisce a una «eredità accettata insieme al debito che comporta».
Ma poi l’analisi dei termini che escono spontaneamente dalle loro labbra — guarire, salvare,
grazia — e addirittura l’evo cazione e l’ascolto di brani musicali, insieme alle parole di filosofi e
di poeti amati da entrambi, aiutano l’approfondimento del discorso. Si arriva così al commento dell’episodio biblico del vitello d’oro, che per Simon rappresenta la scelta necessaria fra due
posizioni ben distinte: e cioè «la scelta fra un dio che ci ha fatti e un dio che ci facciamo noi».
Ruth teme che ogni religione porti l’essere umano alla posizione psicologica del servo davanti
a un dio, e arriva a definire la questione dell’ateismo in termini particolarmente originali. La psicanalista teme la contraffazione del Dio non creato compiuta da coloro che invece lo creano, e pensa che gli atei rifiutino non tanto il Dio creatore quanto il dio creato dagli esseri umani. «E
questo lavoro dell’anima è indispensabile per la fede altrui».
Simon le ricorda che «la nostra prima tendenza, quando vediamo la verità che si avvicina, è
di dirle: non ti vedo». Per questo si deve ascoltarla più volte, come recita il salmo 62: «Una
parola ha detto Dio, due ne ho udite». La bellissima lettera della sorella di Arthur Rimbaud, che
narra la conversione dello scrittore, offre poi a Ruth l’o ccasione di comprendere come la fede
debba essere condivisa, specialmente quando il verbo “c re d e re ” viene usato senza complemento oggetto, ma nel suo senso assoluto: «La prova del credere non è la certezza che ci sia qualcosa in cui credere, ma è il “credere con l’a l t ro ”».
Il punto più emozionante del dialogo — a cui si aggiunge Dan, un amico giornalista ebreo e ateo
— giunge con il disvelamento del sacrificio di Abramo. Al Dio (Elohim, nel testo ebraico) che
sembra esibire un’arbitrarietà pura, perché si presenta ad Abramo chiedendogli il sacrificio del figlio, si contrappone un altro Dio (Yhwh, nel testo ebraico) che gli trattiene la mano, segnando la fine dei sacrifici cruenti. Tutto l’episodio viene di conseguenza interpretato come una sorta di
vaccinazione spirituale, così descritta da Simon: «La Genesi racconta che si può arrivare al
vero Dio credendo in quello falso, e che un po’ alla volta si può passare dal sacrificio assurdo
all’alleanza di vita».
A questo punto i tre protagonisti del dialogo si trovano ad ammettere che i testi sacri ebraici
e cristiani non sono soltanto rivelati, ma sono addirittura rivelanti. E in questa vicenda la psicanalisi si dimostra solo uno dei tanti metodi che l’essere umano ha inventato per arrivare alla verità. Può quindi aiutare a comprendere il grande libro, e in definitiva essere meglio compresa
nella sua natura di cura guaritrice.
L'Osservatore romano, giovedi 24 agosto 2013
La psicanalista e il monaco
di LU C E T TA SCARAFFIA
A dire la verità i libri che si propongono di riconciliare psicanalisi e cattolicesimo non mi hanno mai convinto. Mi sembra infatti che questi tentativi partano da un progetto armonizzatore al quale tutto viene subordinato, senza mai affrontare i veri problemi di fondo che dividono — o qualche volta improvvisamente uniscono — due sistemi di interpretazione dell’essere umano e dell’esistenza molto diversi tra loro. Non è questo il caso di un libro della psicanalista francese Marie Balmary, uscito nel 2005 (Paris, Éditions Albin Michel) e nel 2008 pubblicato in Italia dalle Paoline: Il monaco e la psicanalista.
L’autrice narra un dialogo fra una psicanalista ebrea — che è stata gravemente malata, e quindi si trova a ripensare il suo rapporto con la vita e soprattutto con la morte — e un monaco che
l’aveva conosciuta quando entrambi erano studenti di medicina.
Il dialogo non è però una trattazione astratta, che parla in generale del metodo psicanalitico e
della fede cristiana, ma una sorta di corpo a corpo fra due persone che cercano, che conoscono la sofferenza e che vogliono arrivare alla verità. Le parole della Bibbia, in quanto testo che unisce ebraismo e cristianesimo, anche se fino a quel momento poco praticato dalla psicanalista,
servono da terreno di riflessione e di scoperta.
All’inizio la contrapposizione sembra netta — «a lui la parola viene dall’esterno, a me dall’interno» — e il dialogo inizia con una polemica. Ruth, la psicanalista, accusa la Chiesa di avere tradito l’insegnamento evangelico, e Simon, il monaco, risponde che «il rinnegamento di Pietro mi sembra una base più sicura rispetto a una purezza e a una perfezione all’origine del cristianesimo», perché si riferisce a una «eredità accettata insieme al debito che comporta».
Ma poi l’analisi dei termini che escono spontaneamente dalle loro labbra — guarire, salvare,
grazia — e addirittura l’evo cazione e l’ascolto di brani musicali, insieme alle parole di filosofi e
di poeti amati da entrambi, aiutano l’approfondimento del discorso. Si arriva così al commento dell’episodio biblico del vitello d’oro, che per Simon rappresenta la scelta necessaria fra due
posizioni ben distinte: e cioè «la scelta fra un dio che ci ha fatti e un dio che ci facciamo noi».
Ruth teme che ogni religione porti l’essere umano alla posizione psicologica del servo davanti
a un dio, e arriva a definire la questione dell’ateismo in termini particolarmente originali. La psicanalista teme la contraffazione del Dio non creato compiuta da coloro che invece lo creano, e pensa che gli atei rifiutino non tanto il Dio creatore quanto il dio creato dagli esseri umani. «E
questo lavoro dell’anima è indispensabile per la fede altrui».
Simon le ricorda che «la nostra prima tendenza, quando vediamo la verità che si avvicina, è
di dirle: non ti vedo». Per questo si deve ascoltarla più volte, come recita il salmo 62: «Una
parola ha detto Dio, due ne ho udite». La bellissima lettera della sorella di Arthur Rimbaud, che
narra la conversione dello scrittore, offre poi a Ruth l’o ccasione di comprendere come la fede
debba essere condivisa, specialmente quando il verbo “c re d e re ” viene usato senza complemento oggetto, ma nel suo senso assoluto: «La prova del credere non è la certezza che ci sia qualcosa in cui credere, ma è il “credere con l’a l t ro ”».
Il punto più emozionante del dialogo — a cui si aggiunge Dan, un amico giornalista ebreo e ateo
— giunge con il disvelamento del sacrificio di Abramo. Al Dio (Elohim, nel testo ebraico) che
sembra esibire un’arbitrarietà pura, perché si presenta ad Abramo chiedendogli il sacrificio del figlio, si contrappone un altro Dio (Yhwh, nel testo ebraico) che gli trattiene la mano, segnando la fine dei sacrifici cruenti. Tutto l’episodio viene di conseguenza interpretato come una sorta di
vaccinazione spirituale, così descritta da Simon: «La Genesi racconta che si può arrivare al
vero Dio credendo in quello falso, e che un po’ alla volta si può passare dal sacrificio assurdo
all’alleanza di vita».
A questo punto i tre protagonisti del dialogo si trovano ad ammettere che i testi sacri ebraici
e cristiani non sono soltanto rivelati, ma sono addirittura rivelanti. E in questa vicenda la psicanalisi si dimostra solo uno dei tanti metodi che l’essere umano ha inventato per arrivare alla verità. Può quindi aiutare a comprendere il grande libro, e in definitiva essere meglio compresa
nella sua natura di cura guaritrice.
L'Osservatore romano, giovedi 24 agosto 2013
Sunday, August 11, 2013
Se il cinema western diventa d'autore
Se il cinema western diventa d'autore
Dieci film di genere per dipingere un'epopea che parlando della conquista racconta la natura umana
di Emilio Ranzato
Stilare classifiche dei film è sempre stato soltanto un gioco, al massimo il pretesto per un dibattito. Non di meno, è un gioco al quale è difficile sottrarsi. Soprattutto quando si sente il bisogno di ricordare opere e autori che rischiano di venire dimenticati dal grande pubblico.E ciò vale soprattutto per il western, un genere finito già da mezzo secolo, e che da allora viene fatto rivivere attraverso pallide rivisitazioni che ne mantengono in realtà soltanto la superficie iconografica. È il caso ovviamente anche degli spaghetti-western, cinici film d'azione ambientati nel West, spesso geniali dal punto di vista strettamente registico, ma privi dei grandi temi del genere: il rapporto fra uomo e natura, fra individuo e comunità, fra l'uomo e la Storia con la "s" maiuscola. E di conseguenza dello stile dalla grammatica classica che può supportare un così ampio respiro.
Questa dunque la nostra personale top ten western.
Al decimo posto Sfida nell'Alta Sierra (Ride the high country, Sam Peckinpah, 1962). Al nono posto Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, Delmer Daves, 1957). All'ottavo posto La valle dei mohicani (Comanche station, Budd Boetticher, 1960). Al settimo posto Sentieri selvaggi (The searchers, John Ford, 1956). Al sesto posto Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, John Ford, 1948). Al quinto posto L'uomo di Laramie (The man from Laramie, Anthony Mann, 1955). Al quarto posto Il fiume rosso (Red river, Howard Hawks, 1948). Al terzo posto La carovana dei mormoni (Wagon master, John Ford, 1950). Al secondo posto Donne verso l'ignoto (Westward the women, William Wellman, 1951). Al primo posto Sfida infernale (My darling Clementine, John Ford, 1946). La vetta non poteva non essere di Ford e di uno dei film più belli di tutta la storia del grande schermo, forse il maggiore esempio di come si possa fare cinema d'autore partendo da quello di genere. Una delle storie più raccontate dal western, quella dello sceriffo di Tombstone Wyatt Earp e della sfida all'Ok corral, nelle mani di Ford diventa poesia in movimento. Non contano tanto le pur mirabili dinamiche drammaturgiche - lo scontro fra l'uomo del West vecchio stile, rozzo ma onesto, Henry Fonda, e l'uomo nuovo, raffinato ma corrotto Victor Mature; l'impietosa selezione naturale del West che fa soccombere i più deboli - quanto i momenti di calma con cui Ford ci fa respirare l'atmosfera di un mondo leggendario. Su tutti, quello in cui Fonda si dondola su una sedia sotto un portico, osservando la cittadina che ha deciso di pacificare. Pochi minuti che valgono come un manifesto di cinema antinarrativo e di autorialità in anticipo di parecchi anni su chi teorizzerà il concetto di cinema d'autore, e messo in pratica in piena epoca di dispotico studio-system.
(©L'Osservatore Romano 11 agosto 2013)
Dieci film di genere per dipingere un'epopea che parlando della conquista racconta la natura umana
di Emilio Ranzato
Stilare classifiche dei film è sempre stato soltanto un gioco, al massimo il pretesto per un dibattito. Non di meno, è un gioco al quale è difficile sottrarsi. Soprattutto quando si sente il bisogno di ricordare opere e autori che rischiano di venire dimenticati dal grande pubblico.E ciò vale soprattutto per il western, un genere finito già da mezzo secolo, e che da allora viene fatto rivivere attraverso pallide rivisitazioni che ne mantengono in realtà soltanto la superficie iconografica. È il caso ovviamente anche degli spaghetti-western, cinici film d'azione ambientati nel West, spesso geniali dal punto di vista strettamente registico, ma privi dei grandi temi del genere: il rapporto fra uomo e natura, fra individuo e comunità, fra l'uomo e la Storia con la "s" maiuscola. E di conseguenza dello stile dalla grammatica classica che può supportare un così ampio respiro.
Questa dunque la nostra personale top ten western.
Al decimo posto Sfida nell'Alta Sierra (Ride the high country, Sam Peckinpah, 1962). Al nono posto Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, Delmer Daves, 1957). All'ottavo posto La valle dei mohicani (Comanche station, Budd Boetticher, 1960). Al settimo posto Sentieri selvaggi (The searchers, John Ford, 1956). Al sesto posto Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, John Ford, 1948). Al quinto posto L'uomo di Laramie (The man from Laramie, Anthony Mann, 1955). Al quarto posto Il fiume rosso (Red river, Howard Hawks, 1948). Al terzo posto La carovana dei mormoni (Wagon master, John Ford, 1950). Al secondo posto Donne verso l'ignoto (Westward the women, William Wellman, 1951). Al primo posto Sfida infernale (My darling Clementine, John Ford, 1946). La vetta non poteva non essere di Ford e di uno dei film più belli di tutta la storia del grande schermo, forse il maggiore esempio di come si possa fare cinema d'autore partendo da quello di genere. Una delle storie più raccontate dal western, quella dello sceriffo di Tombstone Wyatt Earp e della sfida all'Ok corral, nelle mani di Ford diventa poesia in movimento. Non contano tanto le pur mirabili dinamiche drammaturgiche - lo scontro fra l'uomo del West vecchio stile, rozzo ma onesto, Henry Fonda, e l'uomo nuovo, raffinato ma corrotto Victor Mature; l'impietosa selezione naturale del West che fa soccombere i più deboli - quanto i momenti di calma con cui Ford ci fa respirare l'atmosfera di un mondo leggendario. Su tutti, quello in cui Fonda si dondola su una sedia sotto un portico, osservando la cittadina che ha deciso di pacificare. Pochi minuti che valgono come un manifesto di cinema antinarrativo e di autorialità in anticipo di parecchi anni su chi teorizzerà il concetto di cinema d'autore, e messo in pratica in piena epoca di dispotico studio-system.
(©L'Osservatore Romano 11 agosto 2013)
Tuesday, February 12, 2013
Osservatore romano
Il metodo scientifico moderno e il rapporto tra fede e ragione
Gli indomabili
cavalli di Galileo
di PIERO BENVENUTI
Tommaso d’Aquino, nella Summa contra gentiles, dimostra, con la chiarezza che sempre lo contraddistingue, come le verità di fede non possano mai essere in contrasto con la ragione. Ben sapendo che a volte nascono dei conflitti tra ciò che apprendiamo razionalmente riguardo la natura e le verità di fede, o forse prevedendone di ancor più gravi nel futuro, egli insiste in modo particolare sulla possibilità di risolverli sempre, in quanto ogni eventuale contrasto è per necessità solo apparente. Purtroppo, tale chiaro e convincente ragionamento sulla necessaria concordanza tra le conoscenze scientifiche e le verità di fede,
o meglio, il supporto teologico alle stesse, venne per molto tempo dimenticato, generando a volte vere e proprie battaglie, e soprattutto diffondendo l’opinione comune che la scienza e la fede fossero in ultima analisi incompatibili.
Non solo gli insegnamenti di Tommaso vennero dimenticati, ma anche quelli di uno dei fondatori del metodo scientifico moderno, Galileo Galilei. Ragionando sul nuovo approccio alla conoscenza della natura che egli stesso stava inaugurando, scriveva con altrettanta chiarezza
all’amico Marco Welser: «Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile, e per fatica non men vana, nelle prossime sustanze elementari che nelle
remotissime e celesti. Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi".
Galileo indica chiaramente che i limiti del metodo scientifico moderno che, tralasciando l'"essenza" delle cose naturali si occupa unicamente delle relazioni («affezioni»)
tra fenomeni misurabili, che verranno poi rappresentate in forma matematica. Con spirito profetico egli prevede che tale metodo servirà non solo per conoscere ciò che avviene
vicino a noi (oggi diremmo nel nostro “lab oratorio”), ma anche per
estendere la nostra conoscenza fino agli estremi limiti dell’universo. La
divisione “sostanziale” tra mondo sub-lunare e quintessenza, propria
della fisica aristotelica, era definitivamente infranta.
Gli entusiasmanti successi della fisica newtoniana e della meccanica
celeste che seguiranno di lì a breve, tanto inorgogliranno gli scienziati da
far loro ben presto dimenticare che le «affezioni» e le loro precise trascritture in formule non sono mai l’«essenza» delle cose. Pertanto il metodo scientifico, potentissimo e insostituibile nel suo ambito, non potrà mai offrire una conoscenza completa e definitiva di tutta la re a l t à .
--------
Praedica verbum
Il tema del rapporto tra fede e scienza è al centro dell’azione
del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio
della Cultura, promotore del Cortile dei gentili. Anche per questo
nella raccolta di scritti intitolata Praedica verbum (Milano,
Ambrosianeum, 2013, pagine IX + 254) e ideata per il settantesimo
compleanno del porporato, Piero Benvenuti, consultore dell’o rg a n i s m o
della Santa Sede e docente di astronomia nell’università di Padova,
ha approfondito alcuni aspetti della questione nell’intervento
di cui pubblichiamo alcuni stralci.
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È sintomatico che il giovane Max Planck venisse scoraggiato a interessarsi di fisica teorica perché, come suggeriva uno dei suoi professori, ormai tutto
era chiaro, le possibili novità si sarebbero limitate a qualche insignificante dettaglio. Di lì a qualche anno, Planck, introducendo il nuovo
concetto di «quanto» di energia, avrebbe dato inizio alla rivoluzione
della fisica quantistica, svelando aspetti del tutto inattesi della realtà
fenomenica. In particolare il principio di indeterminazione di Heisenberg avrebbe infranto la certezza illuministica di poter misurare in modo indipendente ogni grandezza fisica con un errore piccolo a piacere, legato solo alla capacità tecnica dello sperimentatore. Gli esperimenti,
le «sensate esperienze» di Galilei, quando riguardano situazioni spazio-temporali o energetiche estreme si dimostrano dei cavalli indomabili,
insofferenti, per così dire, della presenza dello sperimentatore e la certezza di poter indagare senza limiti la natura deve umilmente arrestarsi.
C’è del sacro in questo necessario riconoscimento del limite e lo stesso
Planck scriveva: «Scienza e religione
non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi
nella mente di un uomo che riflette seriamente».
Fino a un secolo fa nessuno, nemmeno un genio della fisica come Albert Einstein, immaginava che l’universo fosse caratterizzato da una continua evoluzione che si manifesta
come una espansione dello spaziotempo unitamente alla materia-energia. Oggi, grazie soprattutto ai dati osservativi provenienti dagli strumenti spaziali che operano al di fuori dell’atmosfera terrestre, è stato possibile ricostruire in dettaglio la
storia evolutiva dell’universo. Infatti,
avendo la luce velocità finita, le immagini che provengono dal cosmo si
riferiscono sempre a epoche passate, posticipate del tempo impiegato dalla luce, a 300.000 chilometri al secondo, a raggiungere l’o s s e r v a t o re .
Inoltre, l’espansione dello spaziotempo modifica la lunghezza d’onda
— volgarmente il “c o l o re ” — della luce e quindi è possibile datare le immagini ricevute, collocandole correttamente nella sequenza fotografica
della storia del cosmo. L'espansione — dal passato al futuro — “r a f f re d d a ”
la materia-energia cosmica e quindi, ripercorrendo a ritroso la storia evolutiva — dal presente al passato — incontriamo un universo mediamente sempre più “caldo”, tanto da divenire — o meglio essere stato — un fluido uniforme di gas “incandescente” (più tecnicamente “ionizzato”), ciò che i fisici chiamano “plasma”. Il
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Il giovane Max Planck venne scoraggiato
a interessarsi di fisica teorica
perché ormai tutto sembrava chiaro
Di lì a qualche anno Planck diede inizio
alla rivoluzione della fisica quantistica
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plasma ha la caratteristica di essere
opaco alla radiazione elettromagnetica, alla luce, quindi quando raggiungiamo a ritroso nel tempo quella fase, l’universo diventa opaco, impenetrabile alla vista. Il “sipario cosmico”
è collocato, sulla base dei dati sempre più dettagliati ottenuti dai satelliti astronomici, a 13,725 miliardi di
anni fa. Per oltrepassare all’i n d i e t ro
lo “schermo”, chiamato Cosmic Microwave Background (Fondo cosmico di microonde), i cosmologi devono affidarsi a modelli matematici basati sulla fisica oggi nota. Le condizioni in cui si trovava la materiaenergia in quelle epoche remote sono estreme, impossibili da riprodurre
in un laboratorio terrestre oltre un
certo limite: gli esperimenti condotti
al Cern di Ginevra con il Large Hadron Collider, riescono a simulare le
condizioni dell’universo com’era circa 10-15 secondi dopo l’“istante iniziale”, ma sarà molto difficile risalire
ulteriormente. L’“istante iniziale” rimarrà quindi sempre precluso all’indagine sperimentale e potrà essere
trattato solo ipoteticamente, estrapolando al limite le conoscenze scientifiche conseguite. Quell’intervallo infinitesimo dopo l’inizio potrebbe
sembrare un’inezia, ma non dobbiamo dimenticare che il “secondo” è
un’unità di misura locale, tipicamente terrestre e umana e inoltre lo scorrere lineare del tempo, cui siamo
abituati dalla nostra vita quotidiana,
non corrisponde alla scansione degli
eventi cosmici che, nelle fasi iniziali,
si susseguono con ritmi incredibilmente rapidi. Nonostante le difficoltà nell’avvicinarsi all’ipotetico “inizio”, la domanda se vi sia realmente
un “istante zero”, un inizio del tempo e, nel caso, se abbia senso scientifico, oltre che filosofico, porre il
problema di cosa vi fosse “prima”, si
presenta oggi ancor più imperiosa che nel passato.
È logico quindi che, una volta scoperta l’evoluzione del cosmo,
l’“istante zero” da cui essa sembra avere inizio, abbia da subito richiamato il concetto ebraico-cristiano di
creazione dell’universo come atto divino, identificando il biblico Fiat lux
con il Big Bang e i sei giorni di Genesi 1, come la susseguente evoluzione. Questo affrettato quanto ingenuo concordismo conduce però a
un’idea di Creatore che la teologia
ha da tempo superato, quella del “Dio orologiaio”, che mette in moto
il meccanismo dell’universo in un tempo remoto e si disinteressa poi
del mondo e dell’uomo, per riapparire sulla scena solo alla fine dei
tempi per il giudizio universale. Dal punto di vista filosofico-teologico,
uno dei problemi di questa visione risiede nel concepire l’atto creativo
come un “evento” che avviene nel tempo, presupponendo l’esistenza di
quest’ultimo. Già sant’Agostino aveva affrontato il problema, ulteriormente chiarito successivamente da
san Tommaso d’Aquino che scrive:
«Si dice che le cose furono create all’inizio del tempo non perché l’inizio
del tempo sia la misura dell’atto creativo
medesimo, ma perché il cielo e la terra sono
stati creati insieme con il tempo».
Oggi, tale affermazione è rafforzata anche dalla fisica posteinsteiniana che, abbandonando il concetto newtoniano di
spazio e tempo assoluti, non li può concepire se non indissolubilmente legati alla
materia-energia dell’universo.
Di fronte all’evidenza scientifica dell’evoluzione del cosmo, il concetto di creazione maggiormente compatibile è quello della creatio continua, a-temporale, che abbraccia anche il tempo e il suo scorrere. San Tommaso si rende ben conto quanto
per l’uomo sia difficile immaginare alcunché fuori dal tempo, ma non
ha tentennamenti filosofici nell’esprimere il concetto che la creazione
non può essere un mutamento in senso proprio, ma solo in senso metaforico: «in ogni mutamento da un
soggetto a un altro, c’è bisogno che entrambi abbiano qualcosa in comune, perché se non ce l’hanno, ciò che
avviene non può essere definito come cambiamento. (...) A volte può sembrare che non vi sia nulla in comune tra ciò che è prima e ciò che è
dopo il mutamento, ma c’è comunque un solo tempo che scorre continuo e nel quale troviamo “prima”
ciò che “dop o” diventa qualcos’a l t ro , (...) come quando diciamo che dopo
il mattino viene il mezzogiorno. (...) Ora, nella creazione, non si verifica
nessuna delle situazioni sopra descritte: infatti non c’è nulla in comune [tra non-essere ed essere] e non
c’è continuità di tempo perché il tempo non esisteva quando il mondo non c’era. Eppure possiamo trovare qualcosa in comune, ma puramente immaginario, se ci figuriamo una sorta di successione tra quando il mondo non esisteva e quando è stato tratto all’esistenza.
Analogamente, anche se al di fuori dell’universo non esiste lo spazio, noi possiamo nondimeno immaginarne uno: così, anche se prima
dell’inizio del mondo non esiste il tempo, noi possiamo immaginarlo.
Concludendo, la creazione non può rientrare a rigore nella categoria della mutazione e l’uomo la può immaginare come tale solo come metafora, ma non in realtà».
Quindi, se fino a un secolo fa interpretazioni alternative di Genesi 1 erano ugualmente possibili, oggi la scienza ci aiuta a scegliere quelle compatibili con quanto essa va scoprendo della realtà fenomenologica.
L’obiettivo dell’esegesi, che vuole estrarre dalla parola scritta il senso dell’ispirazione che l’ha originata nostrae salutis causa è così più vicino all’uomo di oggi anche grazie alla scienza.
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