Friday, December 28, 2007

いのちの大切さ

いのちが一番大切だと思っていたころ
生きるのが苦しかった
いのちより大切なものがあると知った日
生きているのが嬉しかった

(星野富弘、『鈴の鳴る道〈花の詩画集〉』)

Monday, December 24, 2007

Filosofia: domanda di mercato

SERGIO GIVONE
Nell’era del tutto e subito la filosofia affascina ancora

Come molti dei colleghi che insegnano discipline un po’ particolari, discipline non immediatamente spendibili sul mercato del lavoro (nel mio caso, filosofia), mi chiedo che cosa abbia spinto i nostri studenti a fare la scelta che hanno fatto. Confesso di non saper rispondere. E se giro la domanda ai diretti interessati, ottengo risposte incerte, dubbiose, vaghe. Viene naturale fare un confronto fra padri e figli, fra questa generazione e la generazione precedente, quella di chi si è iscritto a Filosofia fra gli anni Sessanta e Settanta. Allora il mondo inquietava e seduceva: appariva carico di mistero ma anche di promesse per chi disponesse di una chiave in grado di aprire qualcuna delle sue molte porte. La storia in particolare sembrava governata da leggi nascoste ma grandiose: scoprirle, voleva dire (lasciamo stare se a torto o a ragione) aver trovato la strada. Ma per l’appunto bisognava possedere la chiave. La filosofia era quella chiave. Come stanno adesso le cose? Tutto è cambiato. Che cosa sia il mondo, quale il senso dell’avventura umana, non importa più di tanto.
Piuttosto, oggi nel mondo si cercano occasioni da cogliere a volo. Vale il modello dei viaggi last minute o dei pacchetti turistici all inclusive. Che è il modello dell’offerta pubblicitaria. Si tratta non tanto di capire che cosa uno voglia o tanto meno di capire e basta, capire per il piacere di capire. Ma semmai di trovare corrispondenza fra l’offerta e i propri desideri e le proprie aspettative. Che poi desideri e aspettative siano a loro volta parte dell’offerta, in quanto indotti dalle strategie di vendita, beh, su questo aspetto del problema si tende a sorvolare. Guarda caso, è il problema che negli anni della filosofia come critica della società e della cultura era al centro della discussione. Per la filosofia si fa dura. Gli spazi della ricerca filosofica si restringono.
Dove trovare la passione e l’entusiasmo per accingersi a una professione (sì, professione, poiché è di questo che stiamo parlando, e cioè del lavoro intellettuale come professione) che va in controtendenza rispetto al mondo in cui viviamo? Eppure la filosofia non è affatto in crisi. I giovani continuano a iscriversi alle nostre facoltà. Chi ci dice che non vedano più a fondo di noi?
C’è da credere che i loro occhi non siano affetti né da miopia né da presbitismo. La miopia di chi non vede che il presente. Il presbitismo di chi vede solo il passato.
Sergio Givone

Avvenire 23/12/07

Tuesday, December 18, 2007

Reputation

as Mark Twain once mused, give a man a reputation as an early riser and he can sleep until noon.

Friday, December 14, 2007

Valori e Beni

«Mi disturba il fatto di parlare di valori che si sta facendo da alcuni anni in ambito cattolico.
Propongo allora una specie di esercizio: sostituire al termine 'valore' il termine 'beni', al plurale.
Il valore esiste nella misura in cui lo attribuiamo ad una determinata cosa, dunque è soggettivo.
Nietzsche, in Così parlò Zaratustra,
analizza questo problema e dice che l’atto con cui diamo importanza alla cosa ha più importanza della cosa che acquista valore grazie all’atto. A questo i cattolici devono stare attenti. I beni invece sono oggettivi, concreti, rispondono a dei bisogni e sono condivisibili. Nel cristianesimo non c’è nulla che sia buono solo per i cristiani».


Brague, Avvenire, 13/12/2007

Tuesday, December 11, 2007

Politica e meteorologia

La politica dipende
dagli uomini di stato
pressappoco come il tempo
dipende dagli astronomi.
(Remy de Gourmont)

Wednesday, November 28, 2007

Miracoli

“Chi crede ai miracoli” scriveva Gilbert K. Chesterton “lo fa perché ha delle prove a loro favore. Chi li nega lo fa perché ha una teoria contraria ad essi”.

"The believers in miracles accept them (rightly or wrongly) because they have evidence for them. The disbelievers in miracles deny them (rightly or wrongly) because they have a doctrine against them. "
(G. K. Chesterton, Orthodoxy, Chap. IX)

Conventio ad excludendum

La tattica usata nella riunione della redazione di MO del 30 agosto 2003.
Con tanto di retorica sui "deboli" e gli "indifesi". Come siamo caduti in basso!!

Saturday, November 24, 2007

"Tutti gli uomini sarebbero tiranni, se potessero" (Daniel Defoe)

"Tutti gli uomini sarebbero tiranni, se potessero" (Daniel Defoe)

Nature has left this tincture in the blood, That all men would be tyrants if they could. Daniel Defoe



【訳】☆すべての人間は、もしできれば、暴君になれる。

Wednesday, November 21, 2007

Flash e altra stampa di regime

Ciò di cui si parla di più diventa reale; ciò di cui non si parla, è come se non esistesse. E’ una tecnica ben nota di manipolazione della storia.
Prof.ssa Marta Sordi, Milano

Problema del male


Medici, filosofi, teologi si domandano perché soffrono gli innocenti

“I malati talvolta sono sottoposti a cure sproporzionate per tenerli in vita, come se dovessero essere vivisezionati per uno studio di entomologia”. Per presentare la gran giornata del medici cattolici di Milano al Corriere della Sera, monsignor Gianfranco Ravasi aveva scelto, sabato, di prendere di petto il tema più scabroso della medicina odierna: il rifiuto dell’accanimento terapeuticoe il sottile ma necessario, e ben visibile, confine che lo separa dalle inaccettabili pratiche eutanasiche. Ma il dolore non è solo una “problematica di fine vita”, come si dice in brutto bioetichese. “Non esiste nessun interrogativo più incalzante per gli uomini”, ha scritto uno dei maggiori teologi del Novecento, Hans Urs von Balthasar, di quello che punta il dito (indagatoreo accusatore) sul senso del dolore. Di quello “innocente”, soprattutto. Di quello che appare senza motivo e destinazione. E’ la domanda che i medici – tornati a essere anche un po’ sciamani, un po’ depositari di senso,oltre che di cure – si sentono rivolgere quotidianamente dai pazienti. Così i medici s’interrogano a loro volta, e girano il quesito ai teologi e ai filosofi. Al convegno organizzato lo scorso sabato dall’Associazione dei medici cattolici di Milano, “A te grida il dolore innocente”, le tre categorie erano sontuosamente rappresentate: Alberto Cairo, responsabile della Croce rossa a Kabul, ormai noto come “il dottore che fa le gambe”, e le braccia,ai mutilati di una guerra infinita; Mario Melazzini, medico, malato e presidente dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica; il filosofo Massimo Cacciari; il biblista e presidente del pontificio consiglio della Cultura, Gianfranco Ravasi. Più il teologo Vito Mancuso e il saggista Armando Tornoad animare un dibattito complesso, tutt’altro che accademico. Anzi di lacerante attualità, oggi “che una medicina sempre più competitiva, tecnologica e disumana, dominata da interessi economici” sta sostituendo anche la stessa “curiosità della ricerca”, come ha detto il professor Giorgio Lambertenghi, presidente dei medici cattolici milanesi. Qualcuno sarà da mettere dunque sotto accusa, per il “grido” del dolore innocente. La mossa d’apertura è di Vito Mancuso: il dolore colpevole è stato un retaggio millenario di molte teologie e visioni del mondo, ha spiegato, ma oggi è idea inaccettabile, aberrante, per la nostra cultura; il dolore “necessario” è la sua grande alternativa, la via scelta dai filosofi, ma che trova lo scacco della critica senza apparente via d’uscita di Ivan Karamazov, evocata da Mancuso: “Se tutti devono soffrire per conquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano i bambini? Rifiuto assolutamente la suprema armonia; essa non vale una lacrima, anche una sola di quella bambina martoriata”. Non resta che interrogarsi sul dolore “che non nuocead alcuno”. Ma se il dolore innocente salva la bontà di Dio, non salva però la razionalità del mondo. Il dilemma è servito e ha a che vedere con la nostra percezione del mondo e con il nostro modo attuale di fare scienza, di praticare la medicina. “Dio non è causa del male”, secondo Platone; “Dio è causa del bene ma anche del male”, dice invece la Bibbia, e per san Tommaso addirittura “si malum est, Deus est”. Per Massimo Cacciari non è convincente la risposta di Platone, così come è solo un circolo vizioso la prospettiva di religioni quali il buddismo, in cui l’esistere stesso è soffrire, e dunque “liberarsi della sofferenza significa alla fine liberarsi dall’esistere”. Da Cacciari viene un solido contributo a sostegno di una razionalità che ha le sue origini nella cultura giudaico-cristiana: la consapevolezza che il male fa parte del mondo, nelmondo c’è l’“inequalitas”, il dolore, il caos, ma sono ricompresi in un “ordo”, in una coerenza, in un “bonum”. Il problema decisivo, per il filosofo, è un altro. Il vero “scandalo”, come lo individua Kant, non è l’esistenza delmale, ma l’uomo che “fa” il male. Il problema filosofico è che in questo “ordine” in cui è compresa anche la sofferenza naturale, la malattia, la quota di “inequalitas”, entra un “essere che fa il male. Che agisce ‘contra Deum’. Questo è lo scandalo”. Qualcuno che compie il male, che è “captivus”, nel sensodi prigioniero del male radicale. E ad esso si può contrapporre, argomenta Cacciari, non il bene in quanto etica, in quanto sistema di valori, morale, ma qualcuno che “fa” invece il bene. Cioè opera per estinguere il male. E’ questa, secondo Cacciari, la “parola sovrumana” di Gesù, la “figura incarnata che ha mostrato che ciò che è impossibile, il ‘non fare’ il male, è invece possibile, perché un uomo l’ha fatto”. Insomma nel “realismo giudaico-cristiano l’inequalitas c’è, ma il compito dell’uomo è ‘compatire’”. Della compassione fa parte anche la disponibilità a imparare dal dolore degli altri,come ha raccontato – con una sobrietà tanto priva di retorica da far trattenere il fiato al pubblico – Alberto Cairo. Ma fa parte della “compassione” anche con il riflettere sulle modalità o il limite della cura, soprattutto di fronte alla disabilità o nelle situazioni estreme. Lo ha fatto l’oncologo Mario Melazzini:“Il dolore e la sofferenza non sono né buoni né desiderabili, ma non sono senza significato”, ha detto. Per questo “l’impegno ad alleviare il dolore, evitando ogni forma di accanimento terapeutico è un compito che conferma il senso della professione medica”. Un senso, ha scandito, “che non è esaurito dallasola eliminazione del danno biologico”. Niente come il dolore sintetizza la domanda “chi è mai l’uomo”, ha esordito invece Ravasi. Tirando subito una bordata: “Le domande sul dolore innocente, sulla ‘responsabilità di Dio’, sono del tutto ipocrite. Sono un alibi teologico e ideologico”. Attraversando Giobbe, i Salmi, fino a Gesù, dove “la malattia da luogo del satanico diventa luogo epifanico”, Ravasi ha messo al centro la sfida di Giobbe: “E’ inutile questa teologia che vuole difendere Dio. Dio, dice Claudel, non è venuto a spiegare la sofferenza, ma a riempirla della sua presenza.
Maurizio Crippa Il Foglio 18 nov. 2007

Culto e cultura

« il culto è stato la prima cultura: arte, linguaggio, agricoltura, eccetera, ogni cosa procede dall’incontro dell’uomo con Dio; quel che chiamiamo cultura o civiltà è soltanto il culto secolarizzato » [Gerardus van der Leeuw, 1948, Phänomenologie der Religion; trad. It.: Fenomenologia della religione, Ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1975, p. 270].

Monday, November 12, 2007

大阪教区

「この30年間の間に、教会の責任体制と指導体制は、主に「宣教機関」の支援を受けていた古い組織から、地方教会の教区中心の組織に移りました。これは必要で、歓迎されるべき、そして喜ぶべき移行でした。
しかし、この変化に伴う副作用もありました。「昔の宣教師たち」は、召命と養成によって、非キリスト者にキリストの良い知らせを伝えることに主に専心してきましたが、教区司祭たちはカトリック共同体の問題や組織、幸福に、より心を砕いています。ここで必要なのは、キリスト者共同体の内的生活と、世界にキリストを告げ知らせる宣教奉仕との間のより良いバランスです。」

「日本ではキリストとキリスト教について間違った情報がたくさん流れていて、正しい情報が少なすぎろ野です」

(F・ソットコルノラ、「カトリック新聞」、2007年11月10日、4面)

大阪教区

「NICEもアダ花、新生計画もアダ花、実態はバブル、と言ったら言い過ぎでしょうか。」

(カトリック時報、11月号、「らかし種」、捨葉乃(神林))

Tuesday, November 06, 2007

Sunday, November 04, 2007

don Milani (Civilta' Catt. 3775)

"Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco perche' gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno e' qualcosa di piu' che credere nella sua esistenza!"

(Lettere di don Lorenzo Milani, San Paolo, 2007, p. 158. A Giorgio Pecorini 10 ott. 1959)

"La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si e' svolta ma da altre cose. E neanche le possibilita' di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani"

(alla madre 28 dic. 1954)

Wednesday, October 24, 2007

Poveri ma belli

Sentenzio' Balzac che "il lusso costa meno dell'eleganza". Profonda verita'. La bellezza del superfluo puo'essere acquistata col denaro, anche da chi non la merita; non cosi'la bellezza d’animo, di modi, di maniere.

Tuesday, October 16, 2007

IUSTITIA と正義

義 (正義)

羊と我の組み合わせ。我は「鋸」(のこぎり)。羊を鋸で切って、犠牲にすること。儀式のときに供えるいけにえには、羊を使うことが多く、鋸で二つに切り離して供えた。それは羊の内臓をも含めて、すべて犠牲として完全であることを示すためで、毛並みや角・蹄(ひづめ)などに欠陥がないだけでなく、内臓にも何らの病気も無いことを示すためであったと思われる。それで神などに供える犠牲としての条件においてすべて欠陥がないことを「義(ただ)しい」という。(白川 静、常用字解、平凡社)

義歯、義足 (歯や足と同じ役割を果たす)

「それから「義」,すなわち告朔之餼羊(天を祭る月始めの祭りに犠牲として捧げる羊)を我が背負うという意識,つまり天に捧げる共同体の犠牲の獣を自分が選ばれて背負っていく時の気持ちは垂直的には天に対する責任と,水平的には自分をその大事な役目に選んでくれた自分の仲間に対する責任,そういう意味で「義」は責任と言ってよろしいと思います。責任という概念のなかった西洋風の理解により義は正義と同じくjusticeと考えられていますが,義足とか義歯は,正しい足とか,正しい歯という意味ではなくて,足の責任を果たすもの,歯の責任を果たすもので,それに「義」という言葉を使っているのです。昔からある徳目,仁・義・礼・智・信と言われている「義」は,これでみてもわかるように,今の語を使えば責任です。ところでエゴロジカルな個人を本当に表す東洋の単語ないし概念は,私の知る限り良知という言葉になって,17,8世紀に造語されてきたという事実を考えてみますと,概略的に申しますと,ヒューマニズムの教える古典的な文献を辿ってみると,東西の文化圏で道徳の領域でも基本理念に関して逆現象の同時展開が認められ,確かに東西の古典は相補性の関係,お互いに相補うようなメリットを持って古典時代から20世紀まで進展してきています。」(今道友信)

Tuesday, September 25, 2007

Messa in latino

La nuova legittimazione erga omnes della intatta validità (ma legittimità e legittimazione non vanno di pari passo) del Missale romanum tridentino o di Pio V (nelle revisioni posteriori, fino a quella pio-giovannea del 1962), e la sanzione positiva della sua scelta alternativa libera, decise da Benedetto XVI, vanno oltre le pratiche di pacificazione, quanto a intentio magisteriale. Esse dichiarano che la ritualità cattolica e il dogma eucaristico, come intesi prima Concilio Vaticano II, restano vitale orizzonte della nostra vita liturgica. Inoltre, nel permettere che due diverse sensibilità si affianchino liberamente e con pari dignità, Benedetto riconduce la forma cattolica alla sua essenziale natura di complexio (espressione che preferisco di gran lunga a “diversità” o “pluralismo”: complexio è diversità necessariamente articolata in unità secondo il senso).

R. – La ricchezza tradizionale intera del culto cristiano è, per Benedetto, il canone cui attingere nuovamente. È criterio strettamente connesso all’essenza stessa dell’analogia fidei. L’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un più ampio intervento per l’intera comunità credente, indipendentemente da storiche tensioni con le minoranze tradizionaliste.

La libera opzione del Missale romanum del 1962, che potremmo chiamare tridentino-giovanneo, agirà come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente.

D. – I rilievi critici sul rito antico non hanno peso? Scarsa presenza della Parola e del popolo, ritualismo e tentazione “magica”, infine ”una liturgia che dimentica la bellezza del simbolo per diventare pedantemente allegorica”...

R. – Si tratta, anzitutto, di una caratterizzazione deteriore quanto corrente del rito antico, che chi lo ha praticano e interiorizzato nella sua formazione cristiana contesta fermamente. Il rito antico porta con sé, ed esprime in gesti e parole, ricchezze insostituibili. Ricordo che i maestri della primissima fase della riforma liturgica, da Martimort a Jungmann al nostro Righetti, al grande liturgista Odo Casel (meno prossimo al Concilio: era morto nel 1948) e tanti altri, conoscevano la magnificenza simbolica, non “allegorica”, del rito cristiano entro e a partire dalla liturgia gregoriano-tridentina, che non hanno mai pensato di sconvolgere.
Opere di filosofia liturgica – se posso esprimermi così – che hanno nutrito tante generazioni, quelle di Guardini e di Hildebrand, nascono entro lo stesso ordo e la stessa esperienza. Così "Il senso teologico della liturgia" di Cipriano Vagaggini. Una frattura vi fu. Infatti, che hanno a che fare Casel o Jungmann o il magnifico “saggio di liturgia teologica generale” di padre Cipriano (la quarta edizione è del 1965), o la stessa costituzione liturgica del Concilio, con gli indirizzi della “riforma” diffusa e dello stesso Consilium ad exequendam?

In questa frattura prende corpo, oserei dire, ufficiosamente nella Chiesa lo stereotipo evocato nella domanda. Le critiche protestanti e modernistiche al ritualismo e al magismo della messa avevano sempre ricevuto la loro adeguata risposta. Ma il “riformatore”, questa volta il riformatore cattolico, ha bisogno di un contromodello, di un paradigma negativo, e non va per il sottile.
Certo, la riforma forse non guidata ma disciplinata, ed era difficilissimo, da Paolo VI ha introdotto nell’actio liturgica più Scrittura, più memoriale e più popolo. Roma riuscì allora con difficoltà (per qualcuno non vi riuscì del tutto) ad evitare la deriva “protestante”. Deriva temibile, perché lex orandi e lex credendi sono legate tra loro e perché, comunque, nella Tradizione tutto è fortemente connesso. Sequenze intere di elementi fondamentali simul stant, simul cadunt. Non nascondiamoci che molte élites teologiche cattoliche, specialmente nelle cerchie europee ecumenizzanti, lo sapevano e lo speravano.
Non si tratta, dunque, di smarrire quello che della vita liturgica attuale apprezziamo; né è ragionevole pensare che il motu proprio abbia non solo l’intentio – che non ha – ma la forza obiettiva di produrre effetti indesiderati del genere e su larga scala. Ma dobbiamo saper prendere atto che Parola e popolo sarebbero da soli poca cosa (e davvero un po’ magico-teurgica) senza la realtà del Corpo mistico e del "mirabile mysterium praesentiae realis Domini sub speciebus eucharisticis": realtà che precede, fonda e trascende la comunità orante.


Testo completo delle risposte raccolte da Roberto Beretta, giornalista di "Avvenire" per l'edizione on line di "Toscana Oggi" e per il mensile "Il Timone"
di Pietro De Marco http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/169449

Wednesday, September 05, 2007

Si puo' omettere il lavabo?

The washing of hands at the end of the offertory rites may never be omitted at any Mass. It is a significant rite and expresses the priest's need for purification before embarking on the great Eucharistic Prayer.

The omission of the rite may stem from a theory of its origin, popular a few years ago, that the rite was originally practical and was required because dust from the loaves handled during the offertory during the ancient celebration needed to be removed from the celebrant's hands. Only later was a spiritual meaning given to the rite.

Thus, some argued, the advent of pre-prepared hosts had rendered the rite obsolete. This theory, while coherent, has the disadvantage of being wrong.

Further research into the ancient rites has shown that the rite of washing of hands (dating from the fourth century) is older than the procession of gifts, and even after this practice was introduced the celebrant often washed his hands before, not after, receiving them.
Thus the rite has always had the sense of spiritual purification and validly retains this meaning today.
http://www.zenit.org/article-9481?l=english

Cristianesimo di massa

La chiesa di massa come:

un nucleo di battezzati che vivono interamente la loro fede, con ciò delineandosi una situazione nella quale coesistono in maniera feconda “l’integra fede di pochi” e la “fede parziale di molti” (Eliot).

Monday, September 03, 2007

Esigenza di una Rivelazione in Platone (Fedone XXXV)

Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d'altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell'uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c'è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l'opinione degli uomini, la migliore s'intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell'esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l'aiuto di una rivelazione divina.


Phaedo [85c] “I will tell you my difficulty, and then Cebes in turn will say why he does not agree to all you have said. I think, Socrates, as perhaps you do yourself, that it is either impossible or very difficult to acquire clear knowledge about these matters in this life. And yet he is a weakling who does not test in every way what is said about them and persevere until he is worn out by studying them on every side. For he must do one of two things; either he must learn or discover the truth about these matters, or if that is impossible, he must take whatever human doctrine is best [85d] and hardest to disprove and, embarking upon it as upon a raft, sail upon it through life in the midst of dangers, unless he can sail upon some stronger vessel, some divine revelation, and make his voyage more safely and securely.

「もっとも論駁しがたい言説を自らに受け取って、あたかも筏に身をゆだねるように、この言説に自らをたくして、つねに危険を冒しながら、この生を渡りきらねばならない」(『パイドン』85c)

Saturday, September 01, 2007

Ferrariensis

Eadem solis calefactio liquefacit ceram et lutum indurat


Ad cap. 48

Il senso della vita 究極的意味

Un cane si strofinerebbe dietro un macchina senza afferrarne il significato, vale a dire il valore d'uso, lo scopo; cosi un uomo potrebbe anche giocare con un macchina senza averne il possesso. Ma non ne avrebbe la capacita' di possesso, se non in quanto ne avesse afferrato il significato. Senza che venga afferrato il significato una cosa resta estranea a noi. L'uomo e' come irrigidito, non e' capace di comprendere e non e' capace di utilizzare.

Lo smarrimento del significato porta una depressione della personalita'.

Un bambino che giocherellase con una macchina fotografica avrebbe come criterio del suo rapporto con qull'oggetto la pura reattivita'; (...) e' attirato dall'enigma di cio che e' dentro la scatola, ci mette dentro le mani, spaccando, tira fuori i pezzetti.

Non diversamente l'uomo, laddove il siognificato del suo vivere fosse smarrito, troppo drammatica e ultimamente tragica la vita....

Giussani, Il sednso religioso, p. 109-110

Saturday, August 25, 2007

Discorso di Ratisbona

“Tutto il mondo musulmano è malato di fondamentalismo, ovvero è ammorbato da una visione ideologica e irrazionale della religione imposta e perpetuata da pseudo intellettuali, da giornali e politicanti in malafede. Quando Benedetto XVI pronunciò l’ormai famoso discorso diRatisbona il suo pensiero fu scientemente travisato e, per mero calcolo politico, offerto in pasto all’irrazionalità viscerale di popoli mantenuti loro malgrado nell’ignoranza e nella povertà”, così dice al Foglio Wael Farouq, filosofo egiziano, intellettuale musulmano, giovane e laico professore di Scienze islamiche all’Università del Cairo. Lo incontriamo al Meeting di Comunione e Liberazione dove mercoledì ha presentato “Dio salvi la ragione” (Cantagalli), un volume di cui è coautore e che raccoglie gli interventi di Glucksmann, Spaemann, Nusseibeh,Farouq e Weiler sulla lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI il 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona.
Il Foglio 24 agosto 2007

Wednesday, August 22, 2007

True teachers....

True teachers do not provide knowledge as a benefit to their pupils; they treat their pupils as a benefit to knowledge. Of course they love their pupils, but they love knowledge more. And their overriding concern is to pass on that knowledge by lodging it in brains that will last longer than their own. Their methods are not “child-centred” but “knowledge-centred”, and the focus of their interest is the subject, rather than the things that might make that subject for the time being “relevant” to matters of no intellectual concern. Any attempt to make education relevant risks reducing it to those parts that are of relevance to the uneducated – which are invariably the parts with the shortest life span. A relevant curriculum is one from which the difficult core of knowledge has been excised, and while it may be relevant now, it will be futile in a few years’ time. Conversely, irrelevant-seeming knowledge, when properly acquired, is not merely a discipline that can be adapted and applied; it is likely to be exactly what is needed in circumstances that nobody foresaw. The “irrelevant” sciences of Boolean algebra and Fregean logic gave birth, in time, to the digital computer; the “irrelevant” studies of Greek, Latin and ancient history enabled a tiny number of British graduates to govern an empire that stretched around the world; while the “irrelevant” paradoxes of Kant’s Critique of Pure Reason caused the theory of relativity to dawn in the mind of Albert Einstein.

http://entertainment.timesonline.co.uk/tol/arts_and_entertainment/books/book_extracts/article2072331.ece

Il sonno della ragione partorisce mostri (Goya)





El sueno de la razon produce monstruos

The sleep of reason produces monsters


1797-98



Goya

Sunday, August 19, 2007

日本人における宗教観

日本人における宗教観

宗教とは、我々の人生観、世界観に百八十度の転回を与えるものでなければならない。「人もし全世界を得るとも、生命を失わば、なんの為かあらん」、といわれる永遠なる生命の自覚がなければならない。平凡なる日常底にギリギリの奇特を発見することが宗教だとも言える。信心とは、如何なる苦境にあっても、人生を生き抜いてゆく力であり、また如何なる幸運に恵まれても堕落しない鎖であるといわれる。信仰の大切なことは、自分の心の乾きが癒されることが肝心で、法のすべてを極め尽されないからといって悩むことはないと思う。梅尾の明恵上人は「くりかえし」一切経を読みたれば「あるべきようの六字なり」と歌っておられる。

信心のありどころである人間の心とは、仏教では心のことをアラヤ識と名づける。翻訳して含蔵職という。つまり、アラヤとは蔵ということである。どんな蔵かというならば、記憶の蔵である。一切の経験と知識を貯えておく蔵である。記憶というものが人間の脳細胞のどこに貯えられるか今日の心理学でもわからぬそうである。それは生まれてからの経験と知識どころではない。親の経験、先祖の経験から、人類以前の記憶まで、潜在意識として貯えられていると心理学者は言うのである。

心を水にたとうれば、白穏和尚は歌って言う。「衆生本来仏なり、水と氷の如くにて、水を離れて氷無く、衆生の外に仏無し」と。凡夫と仏の差は水と氷の差に過ぎない。妄想執着があるとないの違いに過ぎない。水と氷は科学的に見て、まったく同一成分である。ただその姿と働きにおいて大いに異なるものがあるだけだ。水は温かいもの氷は冷たいもの、水は流れるもの氷は流れぬもの、水は形はないが凍りには形がある。水は叩いても壊れぬが凍りは壊れる。水はどんなところへもしみ込んでゆくが、氷はしみ込まない。水は魚を生かし草木を育ててゆくが、氷は魚を殺し草木を傷めてゆく。科学的成分は、まったく同じであるのに、その働きはこんなにも違うのである。ある先生の高説によれば、男性の本質は盲目的博愛主義にあり、女性の特質は惑溺的母性愛にあるようだといわれる。とすれば人間性の父とは恐るべき盲目的本能(無明)であり、母とは飽くなき貪婪なる溺愛(貪愛)である。かかる父なる無明、母なる貪愛を殺害してこそ、はじめて人間は真実なる自由をかち得られる。

社会の進歩は闘争によってかち得られるかもしれない。しかし明けても暮れても闘争々々に心臓を燃やしていることは、考えても堪えられないことである。戦国の武将達が、時には二畳板目の茶席に端坐して、松風の音に心をすまし、静寂の雰囲気に、心を洗った風情が思いやられる。永遠に連なる生命の静寂茶道ではこれを侘と言う。

信仰の究極、あるいは芸道にあってもそうであるが、とどのつまりが、まごころである。自己をあざむかず人をあざむかず誠実一片で行く事だろう。いいかえるならば愛情、人間愛、人類愛、愛情こそ人間性のまごころである。

(安川菊子、レポート2004年)



Friday, August 17, 2007

Sacramentalita'

Ribadisco che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell’esperienza nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare, produrre, pensare, concepire, organizzare.La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.


http://www.gliscritti.it/approf/sequeri/sequeri.htm


Osiamo per un momento metterci dal punto di vista di Dio: “Come faccio a comunicare me stesso a degli esseri che sono di carne, che sono materiali (e anche spirituali allo stesso tempo), quando io sono assolutamente diverso? Devo scegliere dei mezzi adeguati a come sono fatti loro”. Se io padre Matteo ora mi mettessi a parlare improvvisamente in russo, probabilmente nessuno di voi capirebbe. Per capirci dobbiamo comunicare in italiano che è la lingua che ci accomuna. La stessa cosa vale per la vita di Dio che ci viene comunicata, quello che i Santi Padri chiamano le “energie divine” di Dio.



http://www.gliscritti.it/approf/2006/conferenze/lbizantina.htm

Sacramentalita'

Ribadisco che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell’esperienza nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare, produrre, pensare, concepire, organizzare.La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.

http://www.gliscritti.it/approf/sequeri/sequeri.htm

Osiamo per un momento metterci dal punto di vista di Dio: “Come faccio a comunicare me stesso a degli esseri che sono di carne, che sono materiali (e anche spirituali allo stesso tempo), quando io sono assolutamente diverso? Devo scegliere dei mezzi adeguati a come sono fatti loro”. Se io padre Matteo ora mi mettessi a parlare improvvisamente in russo, probabilmente nessuno di voi capirebbe. Per capirci dobbiamo comunicare in italiano che è la lingua che ci accomuna. La stessa cosa vale per la vita di Dio che ci viene comunicata, quello che i Santi Padri chiamano le “energie divine” di Dio.

http://www.gliscritti.it/approf/2006/conferenze/lbizantina.htm

Ricoeur a Taize'

Quello che ho bisogno di verificare è che per quanto radicale sia il male, esso non è così profondo come la bontà. (tpfs*)di Paul Ricoeur

Mettiamo a disposizione on-line, sul nostro sito, secondo il progetto Portaparola, un intervento del filosofo francese Paul Ricoeur, morto il 20 maggio 2005, all’età di 92 anni. Il testo è la trascrizione di un’intervista al filosofo francese registrata nella Settimana Santa dell’anno 2000, durante uno dei suoi numerosi soggiorni nella comunità monastica di Taizé. È stato pubblicato da Avvenire il 21 giugno 2005, proprio per onorare la sua memoria.
L’Areopago
http://www.gliscritti.it/approf/2005/papers/ricoeur01.htm

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Cosa vengo a cercare a Taizé? Direi una sorta di prova di quello in cui credo in modo più profondo, ovvero che ciò che comunemente chiamiamo "religione" ha a che fare con la bontà. Questo è un po’ dimenticato, in particolare in molte tradizioni del cristianesimo, dove c’è una specie di restrizione, di chiusura sulla colpevolezza e sul male. Non che io sottovaluti questo problema, del quale mi sono molto occupato per molti decenni. Ma quello che ho bisogno di verificare è che per quanto radicale sia il male, esso non è così profondo come la bontà. E se la religione, o le religioni, hanno un senso è quello di liberare il fondo della bontà degli uomini, di andare a cercarlo là dove esso è completamente nascosto. Ora, qui a Taizé vedo l’irruzione della bontà nella fraternità tra i fratelli, nella loro ospitalità tranquilla e discreta, nella preghiera, dove vedo migliaia di giovani che non hanno l’articolazione concettuale del bene e del male, di Dio, della grazia o di Gesù Cristo, ma che hanno un movimento fondamentale verso la bontà.
Il linguaggio della liturgia
Siamo oppressi dai discorsi, dalle polemiche, dall’assalto del virtuale che crea una zona opaca. E sorge questa certezza profonda che è necessario liberare: la bontà è più profonda del male più profondo. Non bisogna solo sentirla, questa certezza, ma anche darle un linguaggio, e il linguaggio che le viene donato qui a Taizé non è quello della filosofia né della teologia, ma quello della liturgia. E per me la liturgia non è semplicemente un’azione, ma è un pensiero. C’è una teologia nascosta e discreta nella liturgia, che si riassume in questa idea: «la legge della preghiera è la legge della fede».
Dalla protesta all’attestazione
La domanda sul peccato è stata rimpiazzata dal centro delle discussioni attuali da un’altra domanda, in un certo senso forse più grave, che è la questione del senso e del non senso, dell’assurdo. (…) Noi apparteniamo alla civilizzazione che effettivamente ha ucciso Dio, ovvero che ha fatto prevalere l’assurdo e il non senso sul senso. Questo però provoca una profonda protesta; e utilizzo questa parola - "protesta" - molto vicina ad un’altra, "attestazione", perché l’attestazione procede dalla protesta che il niente, l’assurdo, la morte non sono l’ultima parola. Questa considerazione riprende la mia domanda sulla bontà perché la bontà non è solo la risposta al male, ma è anche la risposta al non senso. In "protesta" sono comprese le parole teste e testimone; si "pro-testa", prima di poter "at-testare". A Taizé si fa il cammino dalla protesta all’attestazione, e questo cammino passa attraverso quello che ho appena detto: la legge della preghiera, la legge della fede. Infatti la protesta è ancora nel campo del negativo: si dice no al no. E invece bisognare dire sì al sì. C’è dunque un movimento pendolare dalla protesta all’attestazione. E credo che questo avvenga con la preghiera. Sono stato molto toccato questa mattina dai canti e dalle preghiere nella forma vocativa: «O Cristo…». Qui non siamo nel campo del descrittivo né in quello prescrittivo, ma in quello esortativo e nell’acclamazione! E penso che acclamare la bontà sia l’inno fondamentale.
(...)
Un servizio gioioso
Quello che anzitutto mi colpisce qui, in tutti i piccoli servizi quotidiani della liturgia, negli incontri di tutti i tipi, nei pasti e nelle conversazioni, è l’assenza completa di relazioni di dominio. Ho qualche volta l’impressione che, in questa sorte di accuratezza paziente e silenziosa di tutti gli atti dei membri della comunità, ognuno obbedisce senza che nessuno comandi. Da questo risulta un’impressione di servizio gioioso, potrei dire di obbedienza amante, sì, di un’obbedienza che ama, che è dunque tutto il contrario della sottomissione e del vagabondare. Questa strada, generalmente stretta, tra quello che ho appena chiamato sottomissione e vagabondare qui è largamente indicata dalla vita comunitaria. È di questo che noi, i partecipanti - non quelli che assistono, ma che partecipano, come io credo di essere stato e di essere qui - beneficiamo. Godiamo di questa obbedienza amante che abbiamo proprio verso l’esempio che ci è dato. La comunità non impone una sorta di modello intimidatorio, ma, direi, una specie di esortazione amichevole. Mi piace questa parola, "esortazione", poiché non siamo nell’ordine del comando e ancora meno dell’obbligo, ma neppure siamo nell’ordine della diffidenza e dell’esitazione, che oggi è l’andamento della vita nelle professioni, nella vita urbana, nel lavoro e nel divertimento. Questa tranquillità condivisa rappresenta per me la felicità della vita presso la comunità di Taizé.
(traduzione di Lorenzo Fazzini)

Wednesday, August 15, 2007

I problemi delle societa' multi-etniche

Adesso Robert Putnam ha scopertoche la cosiddetta società multiculturaleche con l’aumento delle differenzediminuisce la disponibilità delle persone a
impegnarsi per il bene comune.
Camillo Langone (Il Foglio 14 agosto 2007)

Robert David Putnam (born 1941 in Rochester, New York) is a political scientist and professor at Harvard University. In 2000, he published Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, a book-length expansion of the original argument, adding new evidence and answering many of his critics. Though he measured the decline of social capital with data of many varieties, his most striking point was that many traditional civic, social and fraternal organization -- typified by bowling leagues -- had undergone a massive decline in membership while the number of people bowling increased drastically.

Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy (with Robert Leonardi and Raffaella Nannetti, 1993)

Putnam makes a distinction between two kinds of social capital: bonding capital and bridging capital. Bonding occurs when you are socializing with people who are like you: same age, same race, same religion, and so on. But in order to create peaceful societies in a diverse multi-ethnic country, one needs to have a second kind of social capital: bridging. Bridging is what you do when you make friends with people who are not like you, like supporters from another football team. Putnam argues that those two kinds of social capital, bonding and bridging, do strengthen each other. Consequently, with the decline of the bonding capital mentioned above inevitably comes the decline of the bridging capital leading to greater ethnic tensions.

BETTER TOGETHER: Restoring the American Communityby Robert D. Putnam and Lewis M. Feldsteinwith Don Cohen(Simon & Schuster; September 10, 2003)

In recent years Professor Putnam has been engaged in a comprehensive study of the relationship between trust within communities and their ethnic diversity. His conclusion based on over 40 cases within the United States is that, other things being equal, more diversity in a community can mean less trust both between and within ethnic groups.

Putnam has not yet published this work. In 2006, Putnam was quoted in the Financial Times as saying he had delayed publishing this research until he could "develop proposals to compensate for the negative effects of diversity" (quote from John Lloyd of Financial Times)

http://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Putnam

Wednesday, August 08, 2007

Post-colonialismo

IDEE
Contro le tesi di Hitchens, l'antropologo Appadurai nega il nesso tra violenza e religione: «Al contrario, il pericolo è l'etnicità»

Se vuoi la pace, prepara la fede

Di Edoardo Castagna

Dice che è appena «lieve», la differenza tra religione ed etnicità. Uno di quei "quasi uguali", cioè, su cui da anni si sofferma la sua riflessione. Ma, parlando della nuova violenza che il mondo globalizzato ci mette sotto gli occhi, Arjun Appadurai in quella «lieve differenza» innesta uno scarto decisivo: «L'etnicità è una via a senso unico. La religione, al contrario, può aprire la strada all'inclusione dell'umanità». Spunto della sua riflessione, articolata sotto forma di dialogo con Judit Carrera e Josep Ramoneda sul quinto numero della rivista Esprit, è la sua costante indagine sul rapporto tra globalizzazione e violenza, della quale un paio d'anni fa Meltemi aveva portato in Italia Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione. L'antropologo indiano è considerato uno dei padri del postcolonialismo, la corrente di pensiero a cavallo tra storia, filosofia e antropologia che, ormai da qualche decennio, mira a svincolarsi dalle categorie concettuali proprie dell'Occidente "coloniale" e a elaborarne di proprie, capaci di por fine alla mai superata "subalternità" culturale del Terzo mondo. Un approccio dal quale, nonostante il fatto che abbia incominciato a far breccia anche nello stesso Occidente, recentemente lo stesso Appadurai ha preso le distanze. Negli ultimi anni la sua riflessione si è invece appuntata sul carattere eccezionalmente violento assunto, al tempo della globalizzazione, dai conflitti di carattere etnico-religioso: dal Ruanda all'ex Jugoslavia, per arrivare all'attuale Iraq e all'offensiva terroristica islamista. Il problema di fondo, secondo Appadurai, non è affatto - come sostengono le note tesi di Hitchens - quello delle differenze troppo grandi, ma è quello delle differenze troppo piccole. Sono queste che creano insicurezza, rendendo vaghe e vane le tradizionali e affidabili categorie di "noi" e "gli altri". Obbiettivo primario di al-Qaeda et similia è contrastare l'omologazione culturale dei musulmani allo stile di vita occi dentale. Ecco quindi, argomenta Appadurai, che si scatena la violenza più efferata: quella dell'età della globalizzazione, che spesso trova un appiglio ideologico in qualche perverso intreccio di religione ed etnicità. Nesso rigettato recisamente da Appadurai: dalle colonne di Esprit precisa che, al contrario, la religione «è associata all'emancipazione, alla dignità. Non è sempre così, lo sappiamo bene! Però contempla questa possibilità. L'etnicità è al contrario unidimensionale». Quindi, è necessario tracciare con chiarezza la linea che mette da un lato la religione, con il suo portato di inclusione e pace, e dall'altro l'estremismo religioso - con il suo gemello, il nazionalismo etnico - che al contrario chiamano esclusione e violenza. Detonatore dell'estremismo etnico-religioso è sempre, per Appadurai, la globalizzazione, che «favorisce la conflittualità e fa il gioco degli estremisti. L'estremismo religioso aumenta e la moderazione vede diminuire la sua influenza». Che fare? Da un lato, l'antropologo propone un esempio: «Vale la pena di ritornare a Gandhi: egli è stato estremo, senza mai essere violento». E, dall'altro lato, ribadisce il ruolo positivo della religione: «Con essa, è sempre possibile allargare il proprio orizzonte, se le condizioni sono favorevoli», anche perché «è legata alla filosofia e all'etica». Virtù, quest'ultima, che proprio non appartiene all'estremismo: nemmeno se si ammanta, senza diritto, delle vesti della religione.

da: Avvenire 4 agosto 2007

Paolo VI su Cristo

“Fratelli, giovani specialmente, pensate bene a quanto vi diciamo: questa proclamazione di Gesu’ Messia riguarda il nostro destino, la nostra scelta primaria. Vi ricordate le parole profetiche del vecchio Simeone: ‘Egli sara’ segno di contraddizione’. Si, sara segno di contraddizione: intorno a lui vi sara’ lotta, gli uomini saranno divisi ed opposti tra loro. Questa lotta si perpetua nei secoli. Oh! Questo e’ uno dei misteri piu’ difficili e piu’ dolorosi della storia umana: l’unita’ intorno a Cristo… non sara’ ne spontanea, ne facile: egli sara’ bersaglio di fiera e dura opposizione da una parte; egli sara tuttavia punto di fedelissima convergenza dall’altra”

PAOLO VI

11 aprile 1976

(Duomo di Brescia)

Monday, August 06, 2007

L'eterno e la malinconia


Per la nascita dell’eterno nell’uomo

(Communio, 212/2007 p. 9)


“La malinconia e’ il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo. La malinconia e’ l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito”. Cosi R. Guardini (Ritratto della malinconia, Morcelliana, 1952) richiamando anche la celebre rappresentazione dell’umanista Duerer. (…)

Chi avverte in se la presenza sorgiva dell’”eterno”, chi avverte la prossimita’ ad una realta’ intessuta di finitezza e “infinito” non puo che essere malinconico.

Il vocabolario indica questi sinonimi di malinconia: mestizia, scoramento, spleen, tedio, tetraggine, depressione, abbattimento, accidia, umor nero, nostalgia, inquietudine, rimpianto, disagio, malessere, malumore, cattivo umore, stanchezza, inerzia. Il senso etimologico, da latino e greco, e’ “bile nera”, indicava una tristezza d’animo che si riteneva dovuta ad un travaso di bile.

Sunday, August 05, 2007

Benedetto Antelami, Deposizione di Cristo dalla croce (1178)


Benedetto Antelami, Deposizione di Cristo dalla croce (1178)
Cattedrale di Parma




L’iscrizione incisa in eleganti caratteri onciali sulla parete superiore della lastra da’ il nome dello scultore e l’anno MILLENO CENTENO SEPTUAGENO OCTAVO SCULPTOR PAT(RA)VIT ME(N)SE SECU(N)DO ANTELAMI DICTUS SCULPTOR FUIT HIC BENEDICTUS “Nel mese secondo dell’anno 1178 lo scultore porto’ a termine l’opera, questo scultore fu Benedetto, chiamato Antelami”.
Al centro domina la croce, formata da due tronchi, con gemme, ad indicare che non e’ strumento di morte, ma come suggerisce l’Apocalisse, albero della vita, il LIGNUM VITAE (XXII, 2); sull’asta trasversale la scritta IH(ESU)S NAZARENUS REX IUDE(ORU)M. Cristo e’ ancora attaccato al legno con la sinistra; Nicodemo NICODEMUS su una scala estrae con tenaglie, oggi mancanti, il chiodo. Giuseppe d’Arimatea IOSEPH AB ARIMATHIA sostiene il corpo di Cristo, cingendolo con le braccia intorno alla vita, con gesto forte e insieme di grande dolcezza. Il braccio gia’ schiodato viene sostenuto dall’arcangelo Gabriele GABRIEL e consegnato alla Vergine S(ANCTA) MARIA. Fra Maria e Giuseppe d’Arimatea sta la figura della Chiesa, rivestita de dalmatica, un calice nella destra, come custode della grazia sacramentale meritata dal sacrificio di Cristo. A fianco un vessillo innalzato, con iscritta la croce ECCLESIA EXALTATUR. Dopo Maria Giovanni Evangelista IOHANNES e le donne che i Vangeli dicono ai piedi della croce: SALOME, MARIA IACOBI, MARIA MAGDALENE. I volti, il gesto, la compostezza e armonia figurativa di questo gruppo suggeriscono la drammaticita’ e insieme la verita’ di un atto liturgico.
Alla destra, dopo Nicodemo, e’ raffigurata la Sinagoga con il vessillo abbattuto SINAGOGA DEPONITUR, cui l’arcangelo RAPHAEL fa piegare il capo. La figure della Chiesa e della Sinagoga sono simmetriche e in scala ridotta; le scritte e i vessilli rispettivamente spezzato e innalzato dicono simbolicamente la cessazione del ruolo della Sinagoga e l’inaugurazione del ruolo primario della Chiesa nell’economia salvifica del Nuovo Testamento. Viene poi il centurione romano CENTURIO che confessa, indicandolo, la divinita’ di Cristo VERE ISTE FILIUS DEI ERAT (Mt XXVII, 54). Sulla destra, in secondo piano, cinque figure di uomini, rappresentanti forse il popolo ebraico, e, in primo piano, quattro altri che si giocano le vesti di Cristo: secondo il Vangelo erano soldati romani. Questa scena, specie nell’estremita’, manifesta nella composizione piu’ frammentaria, contrastanti sentimenti di turbamento ed indifferenza.
Sugli angoli superiori spiccano due medaglioni fogliati racchiudenti la testa virile del Sole SOL a sinistra, e sulla destra quella femminile della LUNA ricoperta dal panno pieghettato della veste.
Il rilievo e’ contornato su tre lati da un finissimo ornamento a girali d’acanto niellato (rame, piombo, argento e zolfo fusi colati nel marmo scavato) e sormontato da una cornice sporgente decorata con rosette annodate.

Saturday, July 21, 2007

Teologia delle religioni secondo Ratzinger

P. Coda, La teologia di Joseph Ratzinger. Nello spazio della storia Regno-att. n.12, 2007, p.415

* Il presente contributo è stato pubblicato sulla rivista della Pontificia accademia teologica PATH 6(2007) 1,239-253.


(...)Individuando la centralità e l'urgenza della questione per la coscienza e la missione della Chiesa, Ratzinger ha chiaro sin da questo momento che il terreno sul quale occorre muoversi non è quello della questione della «salvezza dei non cristiani».5 Anche se in proposito egli non manca di offrire in quegli stessi anni un fondamentale e circostanziato saggio, degno d'esser preso ancor oggi in considerazione.6 La questione, piuttosto, è propriamente quella di precisare e discernere teologicamente il posto del cristianesimo nella storia delle religioni e dunque, di concerto, di precisare e discernere il posto delle religioni in quella storia della salvezza che, dal punto di vista della fede cristiana, rinviene per grazia il suo vertice escatologico nell'evento di Gesù Cristo. Di qui la peculiare e decisiva indicazione metodologica formulata da Ratzinger per impostare e affrontare correttamente la questione, che viene da lui stesso così riassunta anni dopo: «Le religioni, in fondo, sono sempre trattate come massa indistinta, considerate sempre sotto il profilo della possibilità di salvezza. La mia opinione, dopo gli anni dedicati allo studio della storia delle religioni, era che simili qualificazioni teologiche delle religioni dovessero essere precedute da una ricerca fenomenologica non impegnata in primo luogo a valutare il valore sub specie aeternitatis delle religioni e che perciò evitasse di accollarsi un problema sul quale propriamente può decidere solo il Giudice del mondo. Ero del parere che in primo luogo si dovesse cercare di avere una visione panoramica delle religioni nella loro struttura storica e spirituale. Mi sembrava che non si dovesse discutere su di un non meglio definito (e praticamente neanche analizzato) insieme di "religioni", ma che si dovesse in primo luogo cercare di vedere se vi siano stati sviluppi storici comuni e se si possano riconoscere tipi fondamentali».7

Non sfugga la perspicacia e - diciamolo pure - l'arditezza, dal punto di vista teologico, della prospettiva metodologica qui avanzata con la consueta, pacata determinazione dal nostro autore. L'indirizzo da egli proposto, in effetti, implica l'archiviazione di due contrapposti approcci nell'interpretazione del fenomeno religioso, storicamente e concretamente affrontato, che risultano in definitiva aprioristici e persino ideologici: da un lato, quello di una lettura e valutazione teologica delle religioni come «insieme indistinto», prescindendo da una comprensione paziente e calzante delle loro distinte particolarità in un appropriato orizzonte storico; dall'altro, quello di un'analisi «scientifica» delle medesime prescindendo sia dalla presenza in esse di un fattore non riconducibile alla semplice antropologia sia dalla storicità ineliminabile del loro prodursi e del loro riproporsi.
Evitando questi opposti unilateralismi, Ratzinger istituisce invece un metodo di approccio alle religioni che, senza prescindere dalla loro specifica autonomia, sappia coniugare in maniera intrinseca e profonda il metodo (molteplice) della scienza delle religioni e quello propriamente teologico. L'una e l'altra, infatti, scienza delle religioni e teologia, non hanno che da guadagnare da un utilizzo incrociato, e scevro da pregiudizi scientisti o fondamentalisti, dei loro rispettivi metodi. Loro proprio terreno d'incontro diventa allora la storia del fatto religioso, e cioè la concreta configurazione esibita dalle diverse espressioni religiose nel loro cammino storico. Ancora una volta, il pensiero teologico di Ratzinger si lascia guidare, non solo dal punto di vista del contenuto della fede (fides quae) ma insieme e correlativamente dal punto di vista della forma stessa della fede (fides qua), dal riferimento alla storia come luogo dell'incontro tra il Dio vivente e l'uomo concreto, inserito in una comunità e in un orizzonte determinato di spazio e di tempo. Con ciò, tra il resto, mostrando la fecondità di un accesso metodologico come questo non solo per il pensiero teologico, ma per ogni autentico e proficuo esercizio di pensiero in rapporto a qualsivoglia espressione dell'umano.

Una reale dinamica storica

In questa chiara e articolata impostazione metodologica trovano posto, al loro proprio livello d'esercizio, la fenomenologia, la storia e la teologia delle religioni. In tal modo, in particolare, è inoltre destituito di fondamento critico e scientifico, sin dal principio, ogni approccio che assolutizzi uno soltanto di questi metodi a detrimento degli altri: con ciò stesso, in definitiva, contravvenendo a una positiva configurazione e a un proficuo utilizzo del metodo stesso che indebitamente viene assolutizzato.
A cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, Ratzinger ha giustamente di mira un'estensione impropria del metodo fenomenologico come quello che - assai diversamente dalle intuizioni originarie dei suoi propugnatori nello studio del fatto religioso -8 permetterebbe di accedere a una comune «esperienza spirituale» per sé costituente il nucleo sorgivo e comune di tutte le tradizioni religiose, che dunque non farebbero altro che rappresentarne una diversa e alla fine congruente e complementare traduzione storica. Così che, per usare il calzante esempio portato da Ratzinger per illustrare tale posizione, «la diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l'una nell'altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero».9 La plausibilità di una simile tesi, che si fonda in ultima istanza su un dato incontestabile: quello dell'esperienza religiosa come fatto universalmente umano, mostra però il suo carattere ideologico nel fatto che praticamente destituisce di rilevanza e di portata le oggettive differenze tra le diverse esperienze e le diverse tradizioni religiose. Destituendo così di rilevanza e di portata la storia e, di concerto, la rivelazione di Dio in essa. Con ciò, a ben vedere, non solo, in primis, è messa in questione l'originalità ebraico-cristiana, ma anche - direi di conseguenza - l'originalità di ogni altra autentica esperienza e tradizione religiosa, negando la possibilità e il significato di una qualunque storia delle religioni. In realtà, sottolinea Ratzinger, «quando si analizza la storia delle religioni nella sua totalità (nella misura in cui la conosciamo) si ha l'impressione di una staticità molto minore, ci si imbatte in un'imponente dinamica, propria d'una storia reale (che è progresso, non costante ripetizione simbolica dell'uguale)».10
La coniugazione del metodo fenomenologico con quello storico, a partire dal presupposto fondato di una reale intenzionalità dell'esperienza religiosa cui non è estranea la presenza sollecitante e orientatrice dell'azione di Dio, offre la possibilità di realizzare un'equilibrata «critica della ragione storica» in materia di religione.11 Mettendo a frutto, in tal senso, un'ampia e ben calibrata conoscenza maturata nel corso degli anni, Ratzinger giunge a proporne «una formula strutturale che abbracci il momento della storicità (del divenire, dello sviluppo), il momento dell'essere in costante rapporto e il momento delle diversità reali».12
Si possono così distinguere, nella storia delle religioni, tre momenti principali, ritmati da due passi fondamentali che dal primo conducono al secondo e da questo al terzo. Il primo momento è quello delle religioni «antiche» o «primitive»; il secondo momento, determinato da un primo, grande passo in avanti nella storia delle religioni, «consiste nel passaggio dalle esperienze sparse dei primitivi al mito in grande stile»;13 il terzo momento, infine, «consiste nell'uscita dal mito»14 che viene a «determinare l'attuale carattere della religione».15 Questo secondo e decisivo passo si è di fatto verificato in tre modi, di cui vale la pena riportare per intero la precisa descrizione offerta da Ratzinger: «1) Nella forma della mistica, in cui il mito delude come mera forma simbolica e si rafforza l'assolutezza dell'ineffabile esperienza vissuta. Di fatto poi la mistica si dimostra custode dei miti, rifonda il mito, che spiega come simbolo della verità. 2) La seconda forma è quella della rivoluzione monoteistica, la cui forma classica si trova in Israele. In essa il mito è rifiutato come arbitrio umano. Viene affermata l'assolutezza della chiamata divina tramite il profeta. 3) Va aggiunto come terza forma l'illuminismo (Aufklärung), il cui primo grande momento si verificò in Grecia. In esso il mito come forma di conoscenza prescientifica viene superato e s'instaura l'assolutezza della conoscenza razionale. L'elemento religioso diventa privo di significato, al massimo gli rimane una certa funzione puramente formale di cerimoniale politico (= riferito alla polis)».16

Mistica, monoteismo, illuminismo

Ratzinger stesso, a partire dalla «formula strutturale» così formulata, offre alcune precisazioni che sono assai importanti non solo per comprendere correttamente il significato dei due passaggi rispettivamente dal primo al secondo momento e dal secondo al terzo, e insieme la configurazione dei diversi «tipi» di religione che in tal modo si vengono storicamente a stagliare; ma anche per illuminare le opzioni di fondo che, su questa solida base storico-fenomenologica e alla luce di un'adeguata cristologia, determinano l'originale figura di teologia delle religioni in altri luoghi e in altri tempi proposta dall'autore. Soffermiamoci, dunque, sul significato delle tre vie specifiche percorse dall'esperienza religiosa nell'uscire dal mito, invertendo - come del resto fa Ratzinger stesso - l'ordine della trattazione, e cioè partendo dall'ultimo per risalire da esso al primo.
Circa la via dell'«illuminismo», e cioè della critica razionale del fatto religioso, occorre notare, innanzi tutto, che essa, per sé, non è corrosiva o persino distruttiva del medesimo: ma ne implica piuttosto, quando non assolutizzata, una positiva e persino necessaria chiarificazione e ripresa dal punto di vista della ragione. Tant'è che - ed è questa una tesi importante del pensiero complessivo di Ratzinger - la prima e paradigmatica elaborazione culturale della fede cristiana realizzata dai padri della Chiesa ha il suo nerbo, appunto, nell'alleanza consapevole tra la fede cristologica e il logos della filosofia greca, in atteggiamento rigorosamente critico nei confronti delle forme molteplici della mitologia pagana. Senza che ciò evidentemente venga a significare un appiattimento del logos per sé insito nella fede sul logos quale si esprime nella filosofia greco-ellenistica: essendo esso stesso, il logos della ragione greca, sottoposto alla critica radicale del «logos della croce» di cui, ad esempio, parla l'apostolo Paolo (cf. 1Cor 1,18). D'altra parte, Ratzinger non manca di notare che questa critica «si è sviluppata pienamente solo nell'epoca presente», tanto che «per il futuro della religione e delle sue chances nell'umanità, assumerà importanza decisiva il modo in cui la religione sarà in grado di impostare il suo rapporto con essa».17 Non è difficile cogliere in quest'affermazione l'esatto significato e la reale portata di quell'invito a un «nuovo incontro tra fede e logos»che caratterizza il magistero di Benedetto XVI.18
Per quanto riguarda la seconda «via», quella del monoteismo, basti intanto sottolineare la prima e decisiva caratterizzazione genetica che - dal punto di vista formale - Ratzinger ne offre. Il monoteismo, in effetti, costituisce una vera e propria «rivoluzione» nel panorama religioso: il che significa - anche solo a livello fenomenologico-storico - l'irruzione di una novità che come tale non è precontenuta nelle precedenti condizioni di sviluppo del fatto religioso. Degno di nota è il fatto che la precisa dizione di «rivoluzione» - come risulta da esplicito riferimento in nota - è mutuata dalle ricerche del grande storico italiano delle religioni Raffaele Pettazzoni, il quale appunto rivendica, con gli strumenti dell'analisi storica, la dinamica non semplicemente evolutiva ma appunto «rivoluzionaria», rispetto al precedente quadro di riferimento, di fenomeni religiosi come quelli del monoteismo ebraico e poi cristiano, di quello islamico e, in forma meno influente, di quello zoroastriano.19
La specifica originalità di questo monoteismo viene in rilievo, di fatto, da un confronto senza preconcetti con la prima «via» percorsa dall'esperienza religiosa nella sua uscita dal mito: la «via» della mistica. Eccoci così a una terza, importante precisazione. Che cosa infatti ha qui da intendersi, propriamente, per «mistica»? L'accezione con cui il termine è usato non è quella che è dato ritrovare nella tradizione teologica cristiana - dai padri della Chiesa su su, attraverso il Medioevo, sino alla moderna e contemporanea teologia della mistica -,20 ma quella, ancora una volta storico-fenomenologica, che designa «una via presente nella storia delle religioni, una disposizione che non tollera nessuna realtà sovraordinata a sé, considerando in ultima analisi le esperienze ineffabili e misteriose del mistico come l'unica realtà vincolante nell'ambito del religioso».21
Secondo questa precisa accezione, è evidente che si dà un'irriducibilità marcata e persino insuperabile tra la via percorsa dal monoteismo «di rivoluzione» e la mistica «dell'ineffabile»: la stessa irriducibilità che si dà tra mistica, nel senso specifico di cui sopra, e fede, in senso biblico-cristiano. È evidente che su questo punto il nostro autore si giova con perspicacia ed equilibrio delle prospettive teologiche che, nei decenni a lui precedenti, avevano aiutato a distinguere - soprattutto in ambito protestante - tra l'esperienza di fede di fronte all'alterità della parola di Dio e l'esperienza religiosa per sé tendente all'immediatezza del rapporto col divino e - soprattutto in ambito cattolico - tra l'esperienza storica della rivelazione di Dio e quella mitica del darsi simbolico del divino nel ciclo sempre ritornante dell'originario.22
Ciò non toglie che, rileggendo queste pagine da lui scritte a distanza di tempo e giovandosi di ulteriori, preziose messe a punto della fenomenologia e della storia delle religioni così come del costante approfondimento del suo pensiero teologico, Ratzinger possa riconoscere, con umiltà e autentico spirito scientifico, una certa «inadeguatezza» nella designazione contrappositiva un tempo da lui proposta tra mistica e monoteismo: «Oggi parlerei piuttosto di "mistica dell'in-distinzione" e di "comprensione di Dio come persona". In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia "Dio", qualcuno che ci sta di fronte - così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità ("Dio tutto in tutti", 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell'"io" e del "tu" - o se il divino stia al di là della persona e il fine dell'uomo sia l'unirsi a- e il dissolversi nell'Uno-tutto».23
Resta acquisito, in ogni caso, che ciò che distingue le due «vie» è essenzialmente la concezione di Dio che viene derivata, da una parte, dall'esperienza della fede suscitata dalla Parola della rivelazione e, dall'altra, dall'esperienza del trovarsi di fronte - nell'annientamento d'ogni esperienza mondana - all'ineffabilità del divino: «Nel primo caso, "Dio" rimane del tutto passivo e l'elemento decisivo è l'esperienza dell'uomo che sperimenta la sua in-distinzione rispetto all'essere di ogni ente, mentre, nel secondo caso, si crede all'operare di Dio che chiama l'uomo. Da questo fatto consegue una differenza ancor più profonda, che sul piano della fenomenologia della religione balza particolarmente all'occhio e a sua volta genera una serie di ulteriori conseguenze. Ne risulta infatti il carattere storico della fede che si basa sulla rivoluzione profetica e il carattere astorico della via mistica».24

Fede e religione

Il pensiero di Ratzinger, tuttavia, non si ferma a questa puntualizzazione che risulta già di per sé decisiva: perché con essa è tracciato un netto discrimine che non solo permette di collocare con pertinenza, sul piano storico, la fede cristiana, ma consente anche di collocare con altrettanta pertinenza, sullo stesso piano, le altre religioni. Non si ferma qui il pensiero di Ratzinger perché, proprio con ciò, vengono offerte le condizioni appropriate per intuire con pertinenza una soluzione adeguata alla vexata quaestio del rapporto tra fede e religione. Una questione - e Ratzinger non teme di esprimerlo con riconoscenza - che è stata posta definitivamente, anche se con una certa unilateralità, da Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer.25 Le due - fede e religione -, in effetti, non possono e non debbono essere radicalmente contrapposte: com'è possibile, infatti, che si dia una fede (anzi la fede cristiana) senza che s'incarni e si medi essa stessa in una cultura religiosa? D'altra parte, fede e religione non possono e non debbono essere semplicisticamente confuse l'una con l'altra. La fede (in senso lato, come struttura antropologica cui non è estranea l'azione preveniente e orientante della grazia di Dio)26 designa infatti quel nucleo sorgivo e quell'atteggiamento fondamentale dell'essere umano che poi, a livello storico e comunitario, si esprime e si plasma in una specifica tradizione religiosa, culturalmente connotata. Di qui - lo annotiamo solo en passant - quell'organico rapporto di unità/distinzione tra religione e cultura che è una della costanti del pensiero teologico e della strategia pastorale di Ratzinger.27
Ma di qui anche - e ciò c'interessa in questa sede più immediatamente, a motivo del filo di discorso che svolgiamo, seguendo da presso il pensiero di Ratzinger - la possibilità d'immaginare e instaurare «un fecondo dialogo tra le due vie, un dialogo idoneo a superare la dualità insoddisfacente di "monoteismo" e "mistica"».28 Con ciò, a ben vedere, Ratzinger ci offre un'indicazione della massima importanza, degna senz'altro d'essere ripresa e sviscerata nelle sue implicazioni teoriche e pratiche. È certamente promettente e responsabilizzante, infatti, la precisazione secondo cui non solo è possibile e doveroso - come prima si è veduto - intessere un rapporto tra fede e logos, e cioè tra l'esperienza e la dottrina cristiana e l'esercizio critico-illuministico della ragione; ma è altrettanto possibile e doveroso fare ciò per quanto concerne il rapporto tra la fede cristiana e quella forma di religiosità ch'è tipica della mistica, nel senso sopra precisato. Il fatto è che anche l'esperienza ebraica e poi cristiana propiziano una forma peculiare di mistica che, a ragion veduta, può mostrarsi come il gratuito compimento della tensione positiva che per sé è presente nell'atteggiamento mistico perseguito, soprattutto, nelle religioni dell'Estremo Oriente. Fatta salva la distinzione (e lo straordinario guadagno) per cui «la "mistica" biblica non è una mistica dell'immagine ma della parola, la sua rivelazione non è immagine dell'uomo, bensì parola e atto di Dio. Essa non è primariamente il trovare una verità, ma l'agire di Dio stesso che dà forma alla storia».29
Da ciò consegue la possibilità di comprendere più adeguatamente la collocazione della mistica pre-cristiana in rapporto all'esperienza di fede; non solo, ma anche d'intuire il decisivo passo in avanti, rispetto alla prima, costituito dalla seconda e precisamente in ordine all'esperienza di Dio realizzata nell'esperienza di fede: «Secondo queste analisi, l'esperienza vissuta dell'in-distinzione è solo la prima tappa della via mistica oltre la quale ovviamente solo pochi arrivano, e in questo sta la vera e propria tentazione della mistica; lo stadio assai più doloroso del distacco da sé stessi e il passo per entrare nella trascendenza vera e propria viene solo dopo. Questo stadio, secondo tali analisi, esige dall'uomo la crocifissione dello strapparsi da sé e dell'essere abbandonato nel vuoto assoluto, nel quale non v'è più nulla di terreno che sostenga; ma solo così all'uomo si presenta il vero volto di Dio. Avviene così che, se all'uomo è concesso il dono di prendere il largo in questa mistica dell'oscurità e della fede, la mistica precedente della luce e della visione appare come un piccolo preludio, che il mistico, non presago della profondità di Dio, prima era tentato di prendere per la realtà ultima e totale».30
Il Dio personaleIn una serie di «appunti» nella «forma di conferenza» - così li definisce Ratzinger - confluiti nella raccolta di saggi Il nuovo popolo di Dio,31questo filo di pensieri s'arricchisce, qualche tempo dopo, di un'importante e ulteriore indicazione. Dopo aver ribadito, in tale sede, che «l'illuminismo greco e il profetismo in Israele rappresentano ciascuno a suo modo un confronto con il problema del politeismo»,32 Ratzinger precisa infatti che «la posizione speciale della fede d'Israele» consiste essenzialmente nel fatto di «un Assoluto cui si possa parlare e che a sua volta possa parlare».33 In tale contesto, la «religiosità asiatica» - la «via della mistica», per dirlo con la terminologia poc'anzi presa in esame - attesta «una decisione sull'assoluto, che non segue così necessariamente dallo spunto politeistico e che non si registra ad esempio nell'ambito greco: il mondo (e l'uomo con esso e tutto ciò che è personale) viene compreso come l'apparizione finita dell'Infinito, solo apparenza e non essere».34
La differenza tra la fede d'Israele e questa esperienza religiosa è senz'altro invalicabile, per le ragioni già ampiamente documentate. E senza dubbio il compimento cristiano dell'Antico Testamento «significa anzitutto che in Cristo si manifesta con un'ultima concretezza e realtà l'alterità di Dio, il suo essere personale».35 Riaffermato decisamente ciò, Ratzinger, sulla scorta dei lavori di J.A. Cuttat,36 può però precisare - dischiudendo uno straordinario orizzonte di ricerca e di prassi -: «E tuttavia: se la fede cristiana spinge al grado massimo di severità la sua contrapposizione, c'è pur in essa contemporaneamente il superamento della contrapposizione e l'apertura all'unità, anche se in un senso del tutto diverso dall'universalismo simbolico dell'Asia. Cristo non significa infatti soltanto alterità di Dio e uomo, ma anche unità: unità di uomo e Dio, unità di uomo e uomo, in una forma tanto radicale, che Paolo - lasciandosi alle spalle tutta la mistica asiatica dell'unità - può dire: "Voi siete uno solo in Cristo Gesù" (Gal 3,28). E ci troviamo così ricondotti alle parole di Cuttat, dalle quali siamo partiti: "Nel punto dove Oriente e Occidente si incontrano e si dividono, si erige la croce del nuovo Adamo", che crea nella croce l'incunearsi dei due legni divisi, dei due mondi divisi. "Egli, infatti, è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un solo popolo e ha abbattuto il muro che li separava, l'inimicizia... per riconciliarli con Dio, ambedue in un unico corpo, mediante la croce, dopo aver ucciso in se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14ss)».37
La conclusione che Ratzinger trae dalla limpida e suggestiva analisi sin qui condotta è la seguente: «Se la questione ha posto in primo piano ciò che separa, non si deve tuttavia dimenticare ciò che unisce: il fatto che noi tutti siamo parte di un'unica storia che, in vari modi, è in cammino verso Dio. Ci sembra che la conclusione decisiva sia che, per la fede cristiana, la storia delle religioni non è il ciclico ritorno di ciò che è sempre uguale, di ciò che non arriva mai al vero, che rimane al di fuori della storia. Chi è cristiano ritiene che la storia delle religioni sia una storia reale, una strada la cui direzione significa progresso, e il cui cammino significa speranza (...) verso la Gerusalemme eterna, in cui l'unico ed eterno Dio abita in mezzo agli uomini e splende a essi come loro luce per sempre (cf. Ap 21,33; 22,5».38
La singolarità dell'evento cristologico così come - in dipendenza da essa - quella della fede e della tradizione ecclesiale, in altri termini, proprio a partire dalla loro più intima identità sono chiamate a esplicare il significato teoretico e pratico della loro indispensabile e feconda relazione con le altre autentiche esperienze e tradizioni religiose.
Ciò, soprattutto oggi, riveste delle concrete e assai impegnative conseguenze per l'elaborazione di una corretta e incisiva teologia delle religioni, che è senz'altro uno dei compiti più importanti e urgenti della Chiesa.39 Innanzi tutto, mostra che l'impostazione del problema che è a fondamento delle tre posizioni, cui normalmente si fa riferimento per questa questione: l'esclusivismo, l'inclusivismo e il relativismo, è in definitiva fragile e persino scorretta, perché muove da «un'identificazione precipitosa della problematica delle religioni con la questione della salvezza» e da «una considerazione troppo indifferenziata delle religioni».40
In secondo luogo, le considerazioni svolte con cura da Ratzinger a proposito del nostro tema hanno il grande merito di demistificare un atteggiamento astratto, fissista e in definitiva irrealistico del fatto religioso: «Non si deve tramandare solo una compagine strutturata di istituzioni e di idee, ma cercare sempre nella fede la sua più intima profondità, il vero contatto con Cristo. Così si formarono (...) nel giudaismo i "poveri di Israele", così devono continuamente formarsi pure nella Chiesa, e così possono e devono formarsi nelle altre religioni. Quel che conduce le religioni l'una verso l'altra e porta gli uomini sulla via verso Dio è la dinamica della coscienza e della silenziosa presenza di Dio in essa e non la canonizzazione dell'esistente di volta in volta incontrato, che esime gli uomini da una ricerca più profonda».41
Ciò, in conclusione, a partire da una più avvertita e precisa consapevolezza del «posto del cristianesimo nella storia delle religioni», porta a comprendere e vivere all'altezza del disegno di Dio rivelato in Cristo l'identità e la missione della Chiesa. Essa, infatti, «non è tutto, ma esiste per tutti. Essa è l'espressione del fatto che Dio edifica la storia nella reciprocità degli uomini alla luce di Cristo».42 Il messaggio di Cristo, in essa e mediante essa, in realtà, «può esistere solo nella forma del porsi in cammino verso i popoli»43 nel soffio dello Spirito del Padre e del Figlio fatto carne: perché «il solo scambio di relazioni non unisce, solo lo Spirito lo può fare».44

l Si tratta di un contributo senz'altro importante che Ratzinger consacra all'interpretazione teologica della questione in oggetto in H. Vorgrimler (a cura di), Gott in Welt. Festgabe für Karl Rahner zum 60. Geburtstag, Freiburg i. B. 1964, II, 287-305 (tr. it. «La fede cristiana e le religioni del mondo»,in Orizzonti attuali della teologia, II, Roma 1967, 319-347). Tale contributo è ripreso, come I capitolo: «Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni»,nella recente raccolta di saggi dello stesso J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 13-43: qui esso è incorniciato da alcune precise puntualizzazioni offerte dallo stesso autore, utili a una sua proficua e corretta comprensione e a cui facciamo riferimento nella nostra proposta di lettura.

2 Lo sottolinea Ratzinger stesso nella «Osservazione preliminare» che introduce il saggio di cui alla nota precedente nella raccolta Fede Verità Tolleranza, 13.

3 Si trova riscontro di ciò nei contributi raccolti nella Parte IV di J. Ratzinger, Das neue Volk Gottes. Entwurfe zur Ekklesiologie, Patmos Verlag, Düsseldorf 1969 (tr. it. Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 21972), in particolare nel primo tra essi: «I nuovi pagani e la Chiesa», tr. it. 351-364.

4 J. Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni», in Id., Fede Verità Tolleranza, 13-14.
5 Ivi, 15.
6 Cf. J. Ratzinger, «Nessuna salvezza fuori della Chiesa?», in Id., Il nuovo popolo di Dio, 365-390.
7 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 15-16.
8 Penso, in particolare, oltre a Max Scheler, a G. van der Leeuw, G. Widengren, H. Duméry.
9 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 24.
10 Ivi, 25.
11 Ivi, 26.
12 Ivi, 27-28.
13Ivi, 26.
14 Ivi.
15 Ivi.
16 Ivi, 26-27.
17 Ivi, 27.
18 Cf., ad esempio, la lectio magistralis da lui tenuta il 12 settembre 2006 all'Università di Regensburg su «Fede, ragione e università», e il suo discorso al IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona, in Italia, il 19 ottobre 2006; Regno-doc. 17,2006,540 e 19,2006,671.
19 Cf. le precise indicazioni offerte in proposito da Ratzinger, sulla scorta, in particolare, dell'opera di R. Pettazzoni, L'onniscienza di Dio (Torino 1955), nelle note 19 e 20 di p. 33 del contributo qui esaminato.
20 Mi permetto rinviare a ciò che ho scritto in proposito nel mio Il Logos e il Nulla. Trinità religioni mistica, Città Nuova, Roma 22004, 375-522.
21 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 31.
22 Penso, in modo paradigmatico, rispettivamente alle tesi di Karl Barth e a quelle di Henri de Lubac.
23 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 45.
24 Ivi, 37-38.
25 Cf. l'Interludio che segue il saggio sin qui esaminato in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 49-50.
26 Si vedano in proposito le acute suggestioni contenute in «Nessuna salvezza fuori della Chiesa? », in particolare 381-384.
27 Il tema è lucidamente affrontato, a partire dal c. II, nei saggi che compongono Ratzinger, Fede Verità Tolleranza.
28 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 37.
29 Ivi, 41.
30 Ivi, 36. Ratzinger rimanda in nota a R.C. Zaehner, «Zwei Strömungen der muslimischen Mystik»,in Kairos 1(1959), 92-99; P. Hacker, «Die Idee der Person im Denken von Vedànta-Philosophen», in Studia missionalia 13 (1963), 30-52; H.U. Von Balthasar, «Fides Christi», in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, 45-79; rinvia inoltre, per un approfondimento del rapporto tra mistica dell'oscurità e mistica della luce, alla voce «Licht» da lui redatta in Handbuch theologischer Grundbegriffe, II, collo 44-54; nell'Interludio già citato cita infine, in proposito, H Bürkle, Der Marsch auf der Suche nach Gott - die Frage der Religionen, Paderborn 1996 e J. Sudbrack, Trunken vom hell-lichten Dunkel des Absoluten. Dionysius der Areopagite und die Poesie der Gotteserfahrung, Einsiedeln 2001.
31 J. Ratzinger, «Il problema dell'assolutezza della via di salvezza cristiana», in Id., Il nuovo popolo di Dio, 391-404.
32 Ivi, 397.
33 Ivi.
34 Ivi, 398.
35 Ivi, 399.
36 Ratzinger si rifà in particolare, con riconoscenza, a J.A. Cuttat, Begegnung der Religionen, Einsiedeln 1956.
37 Ivi, 399.
38 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 43.
39 Cf. J. Ratzinger, «Zur Lage von Glaube und Theologie heute»,in Internat. Kath. Zeitschrift Communio (Freiburg i.B.) 25 (1996), 359-372, anche nelle diverse edizioni de L'Osservatore romano (Città del Vaticano); ora anche in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 119-143.
40 Ratzinger, Interludio, in Id., Fede Verità Tolleranza, 53.
41 Ivi, 55.
42 Id., «Nessuna salvezza fuori della Chiesa?»,387.
43 Id., «Il problema dell'assolutezza della via di salvezza cristiana»,403.
44 Ivi, 404.

Thursday, July 12, 2007

Egemonia culturale del Dossettismo di cui sono affetti anche i saveriani

se è vero che veniamo da una stagione lunghissima segnata da un'egemonia culturale (quella maturata sull'asse Gramsci-Dossetti), che ha saputo trasformarsi e adattarsi ai tempi nuovi, prendendo i nomi e le forme dello scalfarismo o del mielismo. Giù giù, sino ai nostri giorni, segnati dalla "produzione di notizie mediante notizie", dalla riduzione dei mass media a "ufficio stampa polivalente", dal giornalismo sempre più eterodiretto. Ma per tutto questo rimandiamo alla lettura delle tesi presentate dalla Fondazione Liberal sotto il titolo "Cambiamo pagina".

Domenico Delle Foglie
Avvenire 11 luglio 07

Wednesday, July 11, 2007

Tommaso e Kant

il p. Sertillanges ha messo in rilievo le affinità fra le concezioni metafisiche e morali di Kant e s. T.: l’impossibilità di un «regressus in infinitum» nelle cause (II via) ha riscontro nel principio kantiano della II antinomia che «dato il condizionato, è data anche la serie intiera delle condizioni e quindi lo stesso Incondizionato». Parimenti circa l’eternità del mondo, la concezione della «libertà noumenale» e il «regno dei fini» Kant esprimerebbe con altri termini la stessa concezione tomista13.
13 S. Thomas d’Aquin, IV ed. Paris, 1925, t. I, p. 149, 281; t. II, pp. 284, 300 sgg., 311, 314.

bene docet, qui bene distinguit

Bene docet, qui bene distinguit

ものの区別がよくつけられる人は、教えるのもうまい。

He teaches well, who makes distinctions.

Ipse vero intellectus eminens solet duabus normis indicari, quarum una sonat: ‘Sapientis est ordinare’[7], altera vero: ‘Bene docet [is], qui bene distinguit’[8]. Ambae tamen videntur esse duae facies unius eiusdemque numismatis, quod est subtile ingenium. Utraque enim regula eo tendit, ut obiectum cognitionis intrinsece distinguatur seu conceptualiter dividatur in partes, quae deinde sint ordinate collocandae atque describendae.

[7] Cf. Aristoteles, Metaphysica II, c. 2, vv. 16-18: “Et [tenemus] sapientiam esse [scientiam] magis dominantem (archikôteran) quam famulantem. Non enim ordinari oportet sapientem, verum ordinare (dei... epitattein).
[8] Cf. Z. Lewandowski, K. Woś, Słownik cytatów łacińskich, Cracoviae 2002, p. 73b.

Sunday, July 08, 2007

Macchiavellismo  権謀術数

Maurizio Viroli, Il sorriso di Macchiavelli
『マキャヴェッリの生涯ーーその微笑の謎』、白水社

「君主は愛されるよりも恐れられるべきであり、信義を重んじるよりも奸計(かんけい)を用いる方が大事を成就できる」

「権謀術数」(けんぼうじゅっすう)の権化(ごんげ)と見られがちであるが、マキャヴェッリの微笑は、自由と平等、そして祖国への愛というより本質的で普遍的な信念故のもの。
(読売新聞、 本、2007年7月8日)

Friday, June 22, 2007

I nodi e le sfide del presente

“Si può giudicare oggettivamente il valore di una cultura?”,
“Si può dimostrare qualcosa attraverso l’esperienza?”,
“Dovremmo preferire la felicità alla verità?”,
“Una singola cultura può essere portatrice di valori universali?”,
“Abbiamo dei doveri verso gli altri?”,
“Ha un senso voler sfuggire al tempo?”

Sembrano titoli astrusi? Eppure sono stati assegnati l’anno scorso ai maturandi francesi:

Tuesday, June 19, 2007

Perche Tommaso

http://www.ignatius.com/magazines/hprweb/schall_June2007.htm#17

Tracey Rowland, Culture and the Thomist Tradition: After Vatican II (London: Routledge, 2003), 21.

In 1974, Henry Veatch, in his book, Aristotle: A Contemporary Interpretation, likewise argued the same view with much persuasiveness [12] If modernity was a rebellion against Aristotle, the subsequent intellectual incoherence of the alternatives to his rejection should suggest a return to him, to his enormous common sense.

The fact of our time, however, is not any doubt about the pertinence of the intellectual acumen of Aquinas, but the remarkable realization of the pertinence of Augustine. [15] “Whenever we suffer some affliction, we should regard it both as a punishment and as a correction,” Augustine said, mindful of Paul, in a sermon whose spirit we hear expressed all too seldom. “Our holy Scriptures themselves do not promise us peace, security and rest.” Modernity does promise these things.

The only avenue is Nietzsche or Aristotle. The massive effort to reconcile Catholicism with liberalism is already out-of-date, not necessarily because Catholicism is irrelevant, but because liberalism is.

As Alasdair MacIntyre, Rowland’s principal guide in these reflections, put it in After Virtue: “My own conclusion is very clear. It is that on the one hand we still, in spite of the efforts of three centuries of moral philosophy and one of sociology, lack any coherent rationally defensible statement of a liberal individualism point of view; and that, on the other hand, the Aristotelian tradition can be restated in a way that restores intelligibility and rationality to our moral and social attitudes and commitments.” [17]17 Alasdair MacIntyre, After Virtue (Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1981), 241.

Saturday, June 16, 2007

Un nuovo volto di Chiesa.L'esperienza coraggiosa e innovativa della diocesi di Poitiers

A. Rouet,
Un nuovo volto di Chiesa.
L'esperienza coraggiosa e innovativa della diocesi di Poitiers,
Paoline, Milano 2007, pp. 144, ? 8,50.
883153204
Progressivamente comincia una cultura della chiamata. Anzitutto, perché una comunità che non chiama non avrà possibilità di rinnovarsi, dal momento che i cristiani avevano preso l'abitudine di vivere tra loro e chiamarsi tra loro. E questa chiusura è mortifera. (…) Numerosi cristiani non si erano mai confrontati sulla loro fede; parlavano di tutto… ma la fede rimaneva esclusa dalla loro conversazione» (p. 135): con queste note il vescovo di Poitiers, mons. Albert Rouet, chiude un piccolo e prezioso volume1 sulla rivoluzione pastorale in atto nella sua diocesi da oltre un decennio (cf. Regno-att. 10,2006,301).
Al posto delle oltre 600 parrocchie ereditate dalla tradizione ci sono oggi 300 comunità locali, guidate da un gruppo di laici e connesse a rete in 77 settori e 13 zone pastorali. Il mutamento, preparato da un sinodo (1988-1993), è stato fatto proprio dal vescovo e dalla Chiesa locale, convinti che il declino del cristianesimo e la desertificazione spirituale non siano una fatalità. Passando dalla centralità del prete e del territorio a quella delle persone e delle comunità, si prendeva atto della fine della cristianità senza essere costretti all'abbandono dei territori più periferici; le amministrazioni locali si chiedevano: «Forse anche la Chiesa ci abbandonerà?» (16).
La prima comunità locale partì nel 1995; nel 1997 erano una cinquantina, l'anno successivo un centinaio; nel 2005 ne funzionavano 265 e ora sono circa 300, attive anche negli spazi urbani. Testimonianza, annuncio, missione, chiamata, speranza sono i termini più comuni che accompagnano il formarsi e l'attività del gruppo di base: cinque o più persone che formano l'ossatura locale delle comunità.
Due le figure centrali: il tesoriere o amministratore, che ha cura della vita materiale, e il delegato pastorale, che alimenta le relazioni interne e quelle con il settore d'appartenenza. Ambedue sono eletti dalla comunità locale. Mentre le altre tre figure, relative alla liturgia, alla catechesi e alla carità, sono «chiamate» dal presbitero e dal consiglio di settore. Tutte le cariche hanno una validità triennale e possono essere rinnovate solo una volta. Esse si avviano con un'apposita liturgia, presieduta dal vescovo o dal presbitero, e sulla base di specifiche indicazioni d'azione, ma con grande libertà di condividerle con altri o altre, disposti a dare una mano. Al termine del triennio e del sessennio una valutazione d'insieme permette di indicare i successori, evitando cooptazioni.
Le difficoltà non sono mancate. All'inizio la gente non capiva o immaginava il consueto modo di aiuto alla figura del prete, senza uscire da un complesso di minorità («Non sono i cristiani che mancano, ma sono loro a mancare di fiducia in loro stessi»: 29). Ci sono stati rifiuti, ma con la sorpresa che, qualche tempo dopo, essi diventavano consensi per altri compiti.
Qualche comunità si è incagliata e spenta. Il mondo giovanile sembra assai distante. Non sempre è stato percepito il legame, anche economico, col settore (le comunità sono chiamate a non cumulare, se non per la gestione dei beni come la chiesa o le sale). Ma le domande iniziali del gruppo di base (come organizzare un incontro, quale sussidio utilizzare per la catechesi, come superare un conflitto, come affrontare un testo biblico ecc.) si sono via via trasformate in domande sulla fede, sul senso profondo della liturgia, sul servizio della Chiesa al territorio.
Alcuni tratti del volto nuovo delle comunità sono così indicati: una responsabilità condivisa sulla base della responsabilità battesimale; una speranza nuova («Le comunità non temono più di sé stesse, anche se il loro sacerdote è lontano»); una fraternità che cresce («Le persone imparano a poter contare le une sulle altre»); un approfondimento della fede («La responsabilità espone allo sguardo e all'aspettativa degli altri e ognuno vuole rispondervi nel modo migliore»); apprendere a vivere assieme («C'è molto da fare per accettare le differenze o i passi falsi»); la forza della missione (53-55).
I movimenti di Azione cattolica, le nuove fraternità laicali e i movimenti professionali si sono ben integrati nel lavoro delle comunità locali, mettendo a disposizione le proprie competenze. L'insieme del fronte ministeriale si è messo in moto: una trentina i diaconi permanenti e un centinaio i laici che hanno ricevuto una «lettera di missione», a titolo di ministero riconosciuto. Processi istituzionali che attestano la centralità del Vangelo, il primato della grazia, la fecondità della fede e «un nuovo volto di Chiesa» (78).
Durante il servizio ecclesiale si chiede agli animatori di non esporsi in appartenenze politiche, ma è successo che, a mandato scaduto, i responsabili delle comunità siano stati proposti per un servizio sociale o politico locale. La centralità evangelica diventa valutazione positiva della laicità civile, del dialogo plurale, alimentazione dei valori anche politici e ricerca di giustizia sociale. Una disponibilità all'«umano comune», alle eredità umanistiche e all'ampliamento delle solidarietà, che archivia le forme settarie e le astiose contrapposizioni al moderno.
Un punto nevralgico è il ruolo nuovo del prete. Esso si modifica sensibilmente, enfatizzando aspetti come la paternità della fede, la responsabilità della comunione fra le diverse comunità, l'essere segno vivo dell'Altro. Più che essere l'uomo dell'organizzazione gli è proprio «servire la crescita nella fede e la dinamica missionaria» (33). In un'inchiesta fra 700 gruppi e individui, alla domanda sulla necessità del ministero presbiterale hanno risposto sì 692 voci e 2 sono state quelle contrarie. In questo mese il vescovo ha pubblicato i risultati di colloqui collettivi o privati con 239 preti sui 272 attivi in diocesi. Essi testimoniano una precisa coscienza di ministero (inviati a nome di Cristo, servitori della comunione), aperti ai rapporti con i non credenti, disponibili a nuove forme di presenza, ancorati alla passione per Cristo, alla Parola, alla preghiera e alla vita sacramentale. Uno ha detto: «Non ho né paura né inquietudine. Vi è un'infinità di cose che fervono. Qualcosa nascerà. Ne sono lieto» (cf. La Croix 12.3.2007).
Dopo alcuni anni di funzionamento «si costata che l'idea, una volta prevalente, di una regressione ora è scomparsa» (34). «Non si tratta più di aspettare giorni migliori, ma di prendere in carico la vita cristiana in un luogo stabilito. (…) È così che la struttura locale si mette al servizio della vita cristiana, non imponendosi dall'alto, come un peso in più, ma lasciando spazio a nuove iniziative, garantite da un progetto diocesano» (42-43).
La scelta parrocchiale e territoriale della Chiesa italiana si diversifica in maniera chiara dall'esperimento della diocesi francese. Ma l'esperienza e le sue suggestioni meritano di essere ascoltate.

Lorenzo Prezzi

1 Il vol. porta oltre alla firma del vescovo Rouet anche quella di alcuni collaboratori dell'impresa: E. Boone, G. Bulteau, J.-P. Russeil, A. Talbot.

http://arts-cultures.cef.fr/livr/livrpast/lpast41.htm
Présentation de l'Éditeur (4ème de couverture)
Un nouveau visage d'Église L'expérience des communautés locales à PoitiersAlbert RouetE. Boone, G. Bulteau, J-P Russeil, A. Talbot
Depuis dix ans, Mgr Albert Rouet a ouvert la porte à L'inventivité dans le diocèse de Poitiers pour promouvoir une église de communion dans le sillage du concile Vatican II. Il lui paraît temps de dresser le bilan d'une entreprise qui ne prétend nullement s'ériger en modèle mais dont les enjeux dépassent de beaucoup son seul diocèse. Une autre structure doit se mettre en place qui évite la centralisation et invente d'autres modalités d'exercice du ministère presbytéral. Une révolution copernicienne : passer de laïcs aides d'un prêtre autour duquel tout tourne, à des communautés locales responsables, constituées d'une équipe de base animatrice, avec un prêtre. La paroisse aussi doit changer de forme quand son organisation joue à guichets fermés : les regroupements de paroisses réunissent des convaincus en un point géographique mais retirent d'autres localités les forces dont elles ont besoin pour tenir. Bref, il faut préparer l'avenir en quittant les modèles intenables. Ces pages, écrites en collaboration avec deux laïcs en responsabilité et deux prêtres, livrent la théologie de cette initiative. Elles racontent son impact social et les évolutions de ses responsables.
Mgr Albert Rouet, archevêque de Poitiers, membre du Conseil permanent de l'épiscopat. Il a reçu en 2002 le prix de Littérature religieuse pour son livre la chance d'un christianisme fragile, Bayard.Avec Éric Boone, laïc, théologien et directeur adjoint du Centre théologique de Poitiers. Gisèle Bulteau, laïque, chargée de l'accompagnement des communautés locales dans le diocèse de Poitiers.Jean-Paul Russeil, vicaire épiscopal, enseignant en ecclésiologie.André Talbot, prêtre, directeur du Centre idéologique de Poitiers, enseignant en éthique sociale et politique.

Bayard 2005 - 20,5x12 cm - 250 pages - 15,90 euros

Commentaires d'ACF
La plupart des diocèses ont restructuré les paroisses selon un schéma à peu près identique. Le diocèse de Poitiers a suivi une autre voie qui est présentée dans un livre intitulé Un nouveau visage d'Église. Ce titre exprime bien le but de la réforme entreprise dans le diocèse. Non pas chercher à aménager la vie paroissiale à cause de la diminution du nombre de prêtres d'année en année, mais lire la situation comme un appel de l'Esprit. Présenter le livre de Mgr Rouet dans cette perspective sera contesté car les diocèses, en remodelant la géographie paroissiale, ont voulu, eux aussi, se mettre à l'écoute de l'Esprit Saint. C'est dire que ce livre était attendu.
Ce livre a été rédigé non seulement par Mgr Rouet mais aussi par Éric Boone, laïc théologien, Gisèle Bulteau, laïque chargée de l'accompagnement des communautés locales, le P. Russeil, vicaire épiscopal et le P. Talbot, directeur du Centre théologique de Poitiers. Avec les responsables des communautés locales, ils se sont fortement impliqués dans une recherche audacieuse pour que l'Église qui est à Poitiers ait un autre visage.
Ce qui frappe d'emblée, c'est l'option prise dès le départ de distinguer la structure à mettre en place de son fonctionnement et son animation par des personnes qui allaient recevoir la mission de faire vivre l'Église dans un secteur. Ainsi, le diocèse a refusé d'entreprendre une restructuration qui ramène l'essentiel de la vie chrétienne autour d'un point unique - là où réside le prêtre. Cette option aurait favorisé le prêtre placé à la tête de cet ensemble. Le pasteur aurait pu rayonner et garder la main sur tout ce qui se vit sur le territoire qui lui est confié. « On ne remplace pas un prêtre par un ou des laïcs, surtout dans des structures pensées par des prêtres, faites pour eux, dirigées par eux. » (p. 28.) Il fallait absolument éviter de cléricaliser les laïcs impliqués dans cette refondation. Une véritable révolution copernicienne est décrite par Mgr Rouet : « Passer de l'état de laïcs qui tournent autour du prêtre "pour aider monsieur le curé" en adjoints dévoués et effacés au statut de communautés réelles, responsables, avec un prêtre à leur service... » (p. 35.)
Alors, quelle voie a été suivie ? On a créé des équipes de trois personnes qui acceptent de remplir les trois responsabilités de l'Église : annoncer la foi, prier et servir l'homme. Chaque équipe se propose de prendre en charge un secteur... petit ou grand, cela n'a pas d'importance, pourvu que la mission de l'Église soit remplie. L'histoire de ces naissances des équipes locales est plus riche que ce qui est dit ici. Il faut lire le témoignage de Gisèle Bulteau qui a accepté une responsabilité diocésaine auprès de ces communautés locales, l'itinéraire de foi des communautés locales décrit par J.-P. Russeil, les réflexions sur la formation par É. Boone et l'insistance d'A. Talbot pour que ces communautés locales soient au service de la communauté humaine et travaillent en lien avec la mission originale des mouvements apostoliques et des services de l'Église.
Mgr Rouet termine ce livre, écrit à plusieurs, en soulignant que c'est à travers des petites choses et une place différente des prêtres que l'Église prend un autre visage : un peuple de Dieu qui ose créer, innover, une communauté locale souple qui se laisse dynamiser par le souffle de l'Esprit.
Ce livre provoque à regarder la réalité pastorale en face, à mener une réflexion courageuse et invite à l'audace de la création.
Qu'on nous permette de poser une question qui sûrement fait partie de la réflexion mais dont le livre ne parle pas. Est-ce que cette nouvelle façon de vivre l'Église sert l'inculturation de l'Évangile dans notre société en pleine mutation ? Précisons cette question en tournant nos regards vers les laïcs qui ont pris des responsabilités. Aujourd'hui, on parle beaucoup des classes moyennes, d'une nouvelle aristocratie, d'un monde ouvrier devant prendre à bras-le-corps de nouveaux défis. Dans le livre, il est bien question de communautés vietnamienne, polonaise... Mais la France est aujourd'hui composée de plus en plus de Français d'origines diverses. Ce n'est pas parce qu'un laïc reçoit une responsabilité ecclésiale que son origine sociale, sa sensibilité, sa mémoire sont remplacées :- par le dévouement qu'il met pour remplir au mieux la mission confiée, - ou par la générosité qui mange souvent son temps mais pas son être profond.
Cela peut être une chance d'être divers culturellement pour assumer ensemble une responsabilité d'Église, car l'inculturation de l'Évangile passe par une lucidité sur soi-même et sur les autres, par un partage en équipe. Ce partage est riche si chacun livre sa foi inculturée dans l'aujourd'hui !
Abbé Robert Pousseur Novembree 2005