Wednesday, February 27, 2008

Ecologia

I limiti dell’ecologismo e le opportunita' dell’ecologia umana

Monsignor Crepaldi spiega l’ambiente secondo la dottrina sociale della Chiesa


di Antonio Gaspari


ROMA, martedì, 26 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Sta destando molto interesse il libro “Ecologia ambientale ed ecologia umana. Politiche dell'ambiente e dottrina sociale della Chiesa” (Edizioni Cantagalli), scritto da monsignor Gianpaolo Crepaldi e dal professor Paolo Togni.

Intervistato da ZENIT, monsignor Crepaldi, Vescovo di Bisarcio e Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha spiegato che “la lacuna principale delle più diffuse ideologie ecologiste è di voler salvare la natura concentrandosi sulla natura stessa”.

“Per riuscire ad ottenere dei buoni risultati – ha precisato il presule – bisogna concentrarsi non sulla natura materialmente intesa, ma sull’uomo e sulla sua vocazione e su Dio, che ha voluto associare l’uomo alla sua creazione”.

“Per conseguenza, ma solo per conseguenza – ha sottolineato monsignor Crepaldi – salveremo anche le foche e i panda, le falde acquifere e l’aria che respiriamo. Solo l’ecologia umana è veramente risolutiva dei problemi dell’ecologia ambientale”.

Alla domanda su quali sono le contraddizioni dei movimenti ambientalisti, il Segretario di Scienza e Pace ha spiegato che “i fautori dell’ecologismo come ideologia spesso sono solerti nel rispetto della natura fino a bloccare lo sviluppo economico, ma poi non battono ciglio quando la tecnica e la bioingegneria invadono l’uomo stesso e lo fabbricano in laboratorio”.

“Si preoccupano per i pericoli di estinzione della tigre in India – ha aggiunto – ma passano sopra al sacrifico di embrioni umani”.

Monsignor Crepaldi ha ricordato che “già il famoso Rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo del 1972 o il Rapporto Brundland del 1975 tendevano a concentrarsi quasi esclusivamente sull’ambiente, trascurando la dimensione sociale ed etica dell’ecologia umana, insinuando eccessive paure e impedendo di vedere in modo adeguato i rimedi”.

In merito alla definizione di “ecologia umana” (espressione tratta dalla Centesimus annus di Giovanni Paolo II) il Segretario del Dicastero vaticano ha detto che “non esiste solo l’ecosistema perché anche l’uomo ha una sua natura ed anche i rapporti sociali, prima di tutto quelli familiari, hanno una loro natura che va rispettata”.

“Teniamo presente – ha sottolineato monsignor Crepaldi – che quando si procurano danni di natura ambientale il motivo ultimo è che si è alterato qualcosa nell’ecologia umana, nel corretto funzionamento dei rapporti sociali. Ogni ferita all’ecologia umana comporta anche un danno per l’ambiente”.

A proposito del rapporto tra umanità, ambiente e sviluppo, il Vescovo di Bisarcio ha sostenuto che “la deforestazione è causata dalla povertà, che non è un fenomeno naturale, ma una disfunzione nell’ecologia umana”.

“La guerra – ha continuato – produce danni ambientali rilevanti, distrugge risorse e spesso impedisce per molto tempo l’agricoltura. Il degrado urbano delle periferie appartiene all’ecologia umana, ma produce anche danni ambientali, come abbiamo visto nel caso delle rivolte delle periferie parigine”.

Monsignor Crepaldi si è poi domandato: “le pandemie che mietono vittime in giro per il mondo sono fenomeni naturali o lacerazioni nell’ecologia umana?”; “quante malattie oggi hanno origine psichica e non derivano da deficienze organiche ma da solitudine, abbandono, mancanza di senso, vale a dire da carenze nell’ecologia umana?”.

In merito a quelle che nel libro vengono definite come “ideologie ecologiste”, monsignor Crepaldi ha criticato il “biologismo”, ossia “la riduzione di tutto l’umano al biologico” ed ha respinto l’idea della “sostanziale omogeneità della biosfera senza la possibilità di stabilire una superiorità dell’uomo sugli altri viventi”.

Il Segretario del Dicastero vaticano si è detto contrario anche al “catastrofismo”, “che se la prende con la sovrappopolazione, vedendo in essa la causa del degrado ambientale”.

Secondo monsignor Crepaldi, “oltre che errata questa ideologia è anche molto pericolosa perché può motivare violente politiche neomalthusiane”; ed ha aggiunto che “l’aborto o l’eutanasia, sono gli atti maggiormente contrari all’ecologia umana”.

Il presule ha qundi espresso critiche anche nei confronti dell’ideologia del “tecnicismo” che “vorrebbe correggere i danni provocati dalla tecnica con la sola tecnica”; oppure il “naturalismo egotistico” secondo il quale “la natura è una immensa ‘beauty farm’ in cui narcisisticamente ritrovare se tessi”.

“In tutti questi casi – ha affermato – la natura non è più dialogo tra l’uomo e Dio e compito da assumere responsabilmente”.

“L’uomo – ha ribadito monsignor Crepaldi – non è il nemico della natura”, così come “il progresso e lo sviluppo, l’aumento della popolazione non sono nemici della natura” e “non è con il pauperismo o con la decrescita che si limita il degrado ambientale, ma con una nuova assunzione di responsabilità e ricostruendo l’ecologia umana, la coscienza morale delle persone e i veri valori dello stare assieme”.

In conclusione il Vescovo di Bisarcio ha ricordato che nell’ultima Enciclica “Spe salvi” il Pontefice parla dei monaci di San Bernardo di Chiaravalle, che “dissodavano i boschi, non senza però dissodare le anime”, perché “nessuna positiva strutturazione del mondo può nascere là dove le anime inselvatichiscono”.

Monday, February 18, 2008

"Una inutile passione" (Sartre)

"L'uomo è una passione inutile" in quanto la realtà lo conduce comunque allo scacco, ovvero alla sconfitta inevitabile.

"Man is a useless passion" (Sartre)

「人間とは無駄な熱情である」サルトル

Sunday, February 17, 2008

Preghiera di Homer Simpson

«Caro Dio: gli dei sono stati benevoli con me. Per la prima volta nella mia vita, ogni cosa è assolutamente perfetta. Quindi ecco il patto: tu fermi ogni cosa così com’è, e io non ti chiederò mai più niente. Se è ok, per favore non darmi assolutamente nessun segno... (silenzio). Ok, affare fatto. In gratitudine, io ti offro questi biscotti e questo latte, se vuoi che li mangi per te, non darmi nessun segno... (silenzio) sarà fatto!».

(Homer Simpson)





"Dear Lord: The gods have been good to me. For the first time in my life, everything is absolutely perfect just the way it is. So here's the deal: You freeze everything the way it is, and I won't ask for anything more. If that is OK, please give me absolutely no sign. OK, deal. In gratitude, I present you this offering of cookies and milk. If you want me to eat them for you, give me no sign. Thy will be done." - Homer Simpson


Sunday, February 10, 2008

Occidente e Cristianesimo

Occidente e Cristianesimo: il conflitto delle interpretazioni e la “riserva escatologica” della fede

intervento pronunciato da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del dibattito-incontro su "L’avvenire del Cristianesimo", tenutosi il 24 gennaio al Centre Culturel Saint Louis de France di Roma.


Il destino dell’Occidente si è prestato alle interpretazioni più diverse, spesso tra loro in conflitto. Fra le metafore utilizzate non poche si muovono in direzione di un giudizio tragico, come ad esempio quelle di “tramonto” e di “naufragio”. È Oswald Spengler a privilegiare la categoria di “tramonto”: nata in opposizione alla modernità decadente, la sua opera Il tramonto dell’Occidente [1] ne è in realtà un estremo epigono. Essa intende dimostrare le tendenze dissolvitrici insite nella modernità occidentale, leggendo il processo in atto sotto il segno di un inevitabile declino: le due anime del Faust, la tecnica e la tragica, sono polarizzate a scapito della seconda. La svolta non può essere data per Spengler dalla democrazia, mera dittatura del denaro, né dalle ideologie del progresso schiave della tecnica, come il socialismo, ma da una tensione tragica, che riconcili storia e natura in un nuovo inizio. Non è difficile constatare come queste analisi abbiano potuto produrre terribili frutti, legati a letture ideologiche e violente tanto di destra, quanto di sinistra.

Ben diversa è l’origine della metafora del “naufragio”, scelta da Hans Blumenberg nella sua opera Naufragio con spettatore [2] come chiave di comprensione della condizione attuale dell’Occidente. Punto di partenza è il testo in cui Lucrezio presenta lo spettatore che dalla riva assiste rassicurato a un naufragio [3]: la contrapposizione tra la sicurezza della terraferma e il mare in tempesta, esprime la condizione “classica” dell’esistenza, certa di un punto di appoggio da cui poter guardare la scena della vita e del mondo. È questa certezza che si perde nel tempo della modernità: “Vous êtes embarqué”, dirà Pascal [4]. Il naufrago è ormai lo stesso spettatore: non c’è più lo stabile punto di vista a partire dal quale ci si possa porre come spettatori distaccati. L’onda, sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano, siamo noi stessi. La condizione post-moderna, cui è approdato il viaggio dell’Occidente, consiste insomma nel nuotare da naufraghi in mezzo al mare della vita, cercando di costruire una zattera su cui rifugiarci.
I modelli interpretativi della crisi dell’Occidente, che ho voluto richiamare, presentano una convergenza impressionante con molti dei giudizi raccolti dall’inchiesta de La Croix sulla condizione del cristianesimo occidentale oggi: se all’idea di Occidente si sostituisce in essi quella di cristianesimo, la convergenza appare evidente. Ecco solo alcuni esempi di valutazioni, registrate dall’inchiesta a proposito del presente e dell’avvenire della vicenda cristiana: “déclin annoncé”, “pessimisme lancinant”, “enfouissement”, “glissement d’identité”… Sembra quasi che per non pochi Occidente e Cristianesimo si identifichino “tout-court” nella loro parabola di grandezza e di caduta: in questo senso, l’inchiesta ha colto un luogo comune presente in modo pervasivo in molti degli interpreti dell’attuale vicenda cristiana. È giusta, però, questa identificazione assoluta? Ed è giusto trarne la conseguenza che “declino dell’Occidente” significhi senz’altro “declino del cristianesimo”? O, invece, la “riserva escatologica” della fede non comporta sorprese che non sono quantificabili nei termini di un semplice giudizio storico o di una valutazione di processi culturali puramente mondani?

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1. Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeshichte, 2 vol.: 1918, 1922; nuova edizione 1923 (la traduzione italiana è di Julius Evola 1957; riedizione Parma 1991).

2. Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt am Main 1979 (traduzione italiana: Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna 1985).

3. Cf. Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4.

4. Pensées, in Oeuvres complètes, éd. J. Chevalier, Paris 1954, n. 451 (= 233 Brunschvigc). Blumenberg pone questa frase in esergo al suo libro.

5. Die letzten Dinge, Mainz 19896 (traduzione italiana: Le cose ultime, Brescia 1997).

Rivelazione come luce

Dal trattato «Contro le eresie» di sant'Ireneo, vescovo
(Lib. IV, 13, 4-14, 1; Sc 100, 534-540)

Sabato dopo le ceneri, Ufficio letture

Nostro Signore, Verbo di Dio, prima condusse gli uomini a servire Dio, poi da servi li rese suoi amici, come disse egli stesso ai discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15). L'amicizia di Dio concede l'immortalità a quanti vi si dispongono debitamente.
In principio Dio plasmò Adamo non perché avesse bisogno dell'uomo, ma per avere qualcuno su cui effondere i suoi benefici. In effetti il Verbo glorificava il Padre, sempre rimanendo in lui, non solamente prima di Adamo, ma anche prima di ogni creazione. Lo ha dichiarato lui medesimo: «Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria, che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17, 5).
Egli ci comandò di seguirlo non perché avesse bisogno del nostro servizio, ma per dare a noi stessi la salvezza. Seguire il Salvatore, infatti, è partecipare della salvezza, come seguire la luce significa essere circonfusi di chiarore.
Chi è nella luce non è certo lui ad illuminare la luce e a farla risplendere, ma è la luce che rischiara lui e lo rende luminoso. Egli non dà nulla alla luce, ma è da essa che riceve il beneficio dello splendore e tutti gli altri vantaggi.
Così è anche del servizio verso Dio: non apporta nulla a Dio, e d'altra parte Dio non ha bisogno del servizio degli uomini; ma a quelli che lo servono e lo seguono egli dà la vita, l'incorruttibilità e la gloria eterna. Accorda i suoi benefici a coloro che lo servono per il fatto che lo servono, e a coloro che lo seguono per il fatto che lo seguono, ma non ne trae alcuna utilità.
Dio ricerca il servizio degli uomini per avere la possibilità, lui che è buono e misericordioso, di riversare i suoi benefici su quelli che perseverano nel suo servizio. Mentre Dio non ha bisogno di nulla, l'uomo ha bisogno della comunione con Dio.
La gloria dell'uomo consiste nel perseverare al servizio di Dio. E per questo il Signore diceva ai suoi discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16), mostrando così che non erano loro a glorificarlo, seguendolo, ma che, per il fatto che seguivano il Figlio di Dio, erano glorificati da lui. E ancora: «Voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria» (Gv 17, 24).

「光のうちにある人々は、自分が光を照らし出し、輝かせるのではなく、光から照らし出さ
れ、輝かされるのであって、自分たちは光に何も与えず、光から恵みを受け、照らし出され
るのである。」

灰の式後の土曜日

第二朗読:聖イレネオ司教の『異端反駁』

Friday, February 08, 2008

Dove sta la grandezza di Confucio

I riti confuciani e la sacralita' del vivere sociale.

Dove sta la grandezza di Confucio


Chi leggesse la collezione dei detti Confucio, senza nessuna introduzione, avrebbe senza dubbio l'impressione di trovarsi di fonte ad un moralista prosaico, arcaico e irrilevante nella vita moderna. Ma uno studio piu' approfondito puo' rivelare un Confucio come profondo pensatore.
Prendiamo, per esempio, una delle virtu' confuciane fondamentali: 礼("REI" in giapponese, "LI" in cinese). Questo carattere cinese ha il senso di "rito", "rituale", "cerimonia". Se facciamo l'etimologia del carattere antico 禮, di cui l'attuale e' una semplificazione, vediamo che e' composto da due parti. A sinistra un radicale che significa "rivelare" ed e' usato spesso in connezione con il sacro. A destra abbiamo la stilizzazione di una offerta sopra un altare. Quindi una cerimonia sacra che rivela qualcosa. Il REI per Confucio e' la cerimonia che rivela la sacralita' della vita in societa'.
H. Fingarette (Confucius. The secular as sacred, 1972), cosi' spiega questi concetti per lettori occidentali. Mettiamo che io incontro per strada un conoscente; io sorrido, gli vado incontro, stendo la mia mano e stringo la sua. Sta a vedere il portento! Senza nessun comando, stratagemma, forzatura, manovre speciali o arnesi, senza nessuno sforzo per far fare qualcosa all'altro, lui spontaneamente si volge verso di me, mi sorride, alza la mano verso la mia. Noi ci stringiamo la mano, non perche' io muovo la sua ne' perche' lui muove la mia, ma per uno spontaneo atto di perfetta cooperazione. Normalmente noi non siamo coscienti della finezza e della sorprendente complessita' di questo coordinato atto "rituale". Questa finezza e complessita' diventano evidenti, se uno deve imparare questo gesto da un libro di istruzioni come succede per i giapponesi che non hanno questa abitudine e per i quali l'inchino e' la cosa piu' naturale di questo mondo.
Normalmente noi non siamo coscienti neanche del fatto che questo "rito" ha una sua vita, che noi siamo "presenti" l'uno all'altro, almeno in una minima parte. Come direbbe Confucio, ci sono sempre le componenti generali e fondamentali di buona fede reciproca e rispetto. Il rispetto reciproco contenuto in una stretta di mano e' diverso da un atto cosciente di rispetto reciproco. Quando io sono cosciente del rispetto per qualcuno tendo ad essere piu' enfaticamente pio oppure leggermente in imbarazzo, cosi' che la nostra piccola "cerimonia" rivelera' qualche incongruente stranezza (io stendo la mia mano troppo presto e rimane sospesa per aria). No, l'autenticita' del rispetto reciproco non richiede che io senta coscientemente rispetto o che io concentri la mia attenzione sul rispetto per qualcuno; e' pienamente espressa dalla corretta, "viva", spontanea esecuzione dell'atto. Come gli acrobati del trapezio volante, per capirci, hanno completa confidenza nel partner (ma non pensano alla confidenza che ha il partner), anche noi che ci stringiamo la mano, anche se il rischio e' minore, dobbiamo avere (ma non pensarci) rispetto e fiducia. Altrimenti ci troveremmo a fare gesti strani e innaturali, che trasmettono facilmente all'altro una evidente incongruenza.
E' chiaro che non occorre una grande quantita' di rispetto e di buona fede per eseguire con ragionevole successo una stretta di mano o un saluto. Tuttavia una persona sensibile riesce spesso a sondare da una stretta di mano la profondita' dei sentimenti dell'altro. La profondita' di relazioni umane che si puo' esprimere in un gesto "cerimoniale" e' possibile, in buona parte, proprio per la notevole specificita' di questo tipo di cerimonie. Per esempio, se tu incontri un tuo vecchio insegnante, ovviamente sarai tu che spontaneamente si avvicina a lui/lei, piu' che aspettare che cammini verso di te. Tu esprimerai una certa qual riserva nella stretta di mano, anche se sara' calorosa. Non batterai una mano sulla sua spalla, mentre e' probabile che lui/lei lo faccia. Ci possono essere cosi' tanti diversi atteggiamenti, alcuni appena percettibili, ma tutti significativi, nelle possibili variazioni di un gesto.
Se noi cercassimo di descrivere tutte queste sottili distinzioni e le loro regole, noi produrremmo qualcosa di molto simile al decimo libro dei "Dialogi" di Confucio, il cui cerimoniale a noi lettori moderni, sembra la quintessenza di un tradizionalismo antiquato. Ma e' proprio in questo modo che i rapporti umani vengono coordinati in ogni societa' civile, senza sforzo ne' pianificazione, ma semplicemente attraverso l'esecuzione del gesto rituale appropriato ad ogni appropriata situazione. Anche se questo potere che ha il REI di fondare la societa' civile, dice Confucio, dipende da un previo apprendimento. Non e' innato.

Il potere conferito senza sforzo dal REI puo' essere usato anche per fare "miracoli", anche se noi non lo consideriamo mai da questo punto di vista. Supponiamo che io, mentre sto facendo lezione, mi accorga che ho dimenticato un libro nella mia stanza e che adesso lo voglia usare. Io non ho poteri magici, non c'e' altra via per me che seguire una certa procedura: camminare verso la mia stanza, aprire la porta, sollevare il libro e trasportarlo fino all'aula. Eppure tutto questo io lo posso fare anche attraverso una magia. Io mi rivolgo, educatamente, cioe' in modo cerimoniale, ad uno dei miei studenti e semplicemente formulo nel modo appropriato e gentile il mio desiderio che egli mi porti il libro. Questa appropriata formulazione del mio desiderio e' tutto quello che ci vuole; non c'e' bisogno che io lo forzi, lo minacci, che usi dei trucchi. Oltre alla formulazione io non devo fare nient'altro. In pochi attimi il libro sara' nelle mie mani come desideravo. Questo e' il modo peculiare con cui gli esseri umani producono qualcosa. Il fondatore di una qualsiasi istituzione sociale (scuola, impresa, stato, congregazione religiosa, ecc.) ha dovuto rivolgersi nel modo appropriato ai suoi collaboratori per poter raggiungere il suo scopo. Da qui nasce ogni grande impresa e ogni grande civilta'. Al contrario, l'uso non appropriato del cerimoniale produce malcontento, risentimento, odio, guerre. Non si tratta solo di "linguaggio non-verbale", possiamo parlare di una Ontologia della cerimonia.
Gli esempi della stretta di mano e del richiedere un favore sono semplici, la morale e' profonda. Questi gesti complessi ma familiari, sono caratteristici di ogni rapporto umano al livello massimo della loro umanita': gli esseri umani si distinguono di piu' da qualsiasi altra cosa del mondo proprio quando non si trattano come oggetti fisici o come animali che devono essere spinti, minacciati, forzati, manovrati. Guardando a queste "cerimonie" dal punto di vista del REI confuciano, noi capiamo come i riti espressamente sacri possono essere visti come una estensione enfatica, intensificata e finemente elaborata dei rapporti civili di ogni giorno.

J.L. Austin (How to Do Things with Words, 1962) ha richiamato l'attenzione sulle "espressioni performative". Queste non sono semplici predicati circa qualche oggetto, o azione. Sono invece l'esecuzione stessa dell'atto. "Io lascio i miei libri a mio fratello", detto o scritto nel modo e nella situazione appropriata, non e' un la descrizione di qualcosa che sto per fare o faro', ma e' l'atto stesso di lasciare in eredita'. Durante la celebrazione di un matrimonio, "si" non e' la descrizione di un atto mentale interiore di accettazione, e' l'atto stesso che pone in essere il contratto. "Prometto..." non e' la descrizione di cio' che ho fatto un attimo prima dentro la mia testa, non e' per niente descrittivo, le parole dette in se stesse sono l'atto di promettere. E' attraverso le parole, e la cerimonia di cui fanno parte, che io mi impegno in un modo, per chi "sempre si rivolge al REI", piu' potente, piu' difficile da sfuggire che gli stratagemmi e le forzature. Confucio ci sta dicendo che e' chi usa il potere del REI che puo' influenzare perfino chi gli sta sopra, non chi ha solo la forza fisica.
Non c'e' potere del REI se non c'e' convenzione appresa e accettata, o se le parole magiche (parola sacra e potente, mantra) sono pronunciate nella situazione sbagliata, o se la cerimonia non e' completata, o se chi eseguisce la cerimonia non e' "autorizzato" (autorizzazione e' un altra cerimonia). Non e' che ci sia un potere a parte che noi poi utilizziamo in una cerimonia, e' il potere 'della' cerimonia. Io non posso lasciare il mio schiavo a qualcuno, se nella societa', non c'e' la convenzione della vendita degli schiavi. Non posso scommetre due dollari se qualcunaltro non completa la scommessa accettando. Non posso dichiarami "innocente" di un delitto mentre sto cenando a casa.
Promesse, impegni, scuse, richieste, complimenti, patti e molte altre cose simili, non sono niente se non sono cerimonie. E' attraverso la cerimonia che la parte piu' caratteristicamente umana della nostra vita e' vissuta. L'atto cerimoniale e' l'atto primario, fondativo e irriducibile di ogni evento propriamente umano.
La parola non puo' essere capita isolata dall'uso convenzionale (cf. Frege) in cui e' radicata; gli atti convenzionali non possono essere capiti se isolati dal linguaggio che li definisce e che sono parte dell'atto. Non c'e' movimento puramente fisico che possa essere considerato una promessa, nessuna parola in se stessa, indipendente dal contesto cerimoniale, circostanze e ruoli possono essere una promessa. Parola e movimento sono solo astrazioni del concreto atto cerimoniale. Si ricordi che anche nell'eucarestia forma e materia sono indissolubili.

Cerimonie in Oriente e Occidente

Perche' mai la cortesia e' considerata in Occidente con sospetto? si chiede Roland Barthes (L'empire des signes, 1970). Perche' la cortesia viene ritenuta un elemento di distanza (se non addirittura di fuga) oppure di ipocrisia? Perche' un rapporto "informale" (detto "avec gourmandise" con ingordigia dice Barthes) e' piu' auspicabile di un legame sottoposto a codici?

Metafisicamente l'uomo occidentale si ritiene composto da una "interiorita'" individuale, autentica (luogo dell'incontro col divino e da cui sorge la personalita' e la dignita' dell'individuo) e da una "esteriorita'" sociale, potenzialmente fittizia, falsa. Secondo questa concezione il gesto cortese e' il segno di rispetto scambiato tra una pienezza e un'altra, attraverso il medium della mondanita' che potenzialmente puo' falsare il rapporto. Qui viene considerata la possibilita' che operi il peccato originale, che non viene considerato in Oriente. Tuttavia, dal momento che e' l'interiorita' della "persona" che si ritiene rispettabile, e' logico che si conosca meglio questa persona negando le possibili connivenze con interessi mondani. E' dunque il rapporto preteso franco, brutale, nudo, privo (o cosi' almeno di pensa) di ogni mediazione, indifferente ad ogni codice di mediazione, che rispettera' meglio il valore individuale dell'altro. Essere informali e' essere piu' veri, questo suggerisce conseguentemente la morale occidentale.

La cortesia orientale, a causa della minuzia dei suoi codici ci appare esageratamente rispettosa (cioe', ai nostri occhi, "umiliante") perche noi la decifriamo secondo le nostre abitudini, a partire da una metafisica della persona diversa. "la Forma e' il Vuoto" (色即是空) proclama una celebre sutra buddista.E' cio' che, attraverso una pratica della forma (termine il cui senso plastico e il senso mondano sono indissociabili), esprimono la cortesia del saluto all'orientale. Le nostre formule di linguaggio sono molto fuorvianti, si lamenta Barthes. Perche' se si dice che in Giappone "la cortesia e' una religione", si lascia intendere che c'e' in essa qualcosa di sacro; l'espressione deve invece essere formulata in modo da suggerire che la religione non e' in Giappone che una forma di cortesia, o meglio, che la religione e' stata sostituita dalla cortesia.

Matteo 5:43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; (Cf. Lev. 19,18)
Matteo 5:44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
Matteo 5:45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
Matteo 5:46 Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?
Matteo 5:47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?
Matteo 5:48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Tuesday, February 05, 2008

節分

【掲示板の言葉】
鬼は外 福は内
私の身勝手が
豆をまく

南御堂 難波別院

 子どもたちが「鬼は~外、福は~内」と豆をまく姿は冬の風物詩で、微笑ましい光景である。関西ではいつ誰が考えたのか、節分に陰陽道でいうその年の恵方とやらを向いて巻きずしを切らずに食べて福を願うという、滑稽な風習もある。
 福を願い災いを避けたいという思いは、人間の自然な心でもあるが、「鬼の居ぬ間に洗濯」という言葉があるように、人は自分にとって不都合な事や存在を鬼にしたいものである。
 不都合、不服従、不如意を鬼に仕立て上げて、鬼退治したいという心の奥底には、人間の身勝手が潜んでいる。もしかすると、その心こそが、鬼の形相となって家族の中での鬼退治ならぬ、昨今の殺戮事件を生んでいるのかもしれない。 

Monday, February 04, 2008

Il Vangelo in Cina

Il Vangelo in Cina

Il primo documento che narra la presenza del cristianesimo in Cina è la stele di Xian, conservata nel museo delle «10 mila stele» (Bolin). Si tratta di una pietra alta più di 3 metri, scritta in cinese e in siriaco, dove si racconta del monaco Alopen, che nel 635 giunge nella capitale dell’impero Tang – Chang An, a quel tempo forse la città più cosmopolita del mondo – e lì predica la «religione della luce» (jing jiao). Chang An aveva già visto l’arrivo di un’altra religione straniera: il buddismo. Tempo dopo giungerà anche l’islam. L’imperatore Tang Taizhong, in un decreto del 638 ne permette la diffusione, giudicandola «eccellente… vivificante per l’umanità, indispensabile». La comunità a Chang An è la prima, documentata comunità cristiana in Cina. Si tratta, molto probabilmente di una comunità di monaci siriaci (antenati nestoriani della Chiesa caldea), giunti a Chang An lungo la Via della Seta, che collegava il commercio del Mediterraneo con quello dell’Estremo Oriente.

Le comunità siriache fuggiranno nell’Asia centrale, non lasciando quasi alcuna traccia fino al 1997. In quell’anno, uno studioso americano, Martin Palmer, scopre nella pagoda Da Qin – a Lou Guan Tai, nei dintorni di Xian – figure e statue che ricordano l’iconografia cristiana d’oriente.

Giovanni da Montecorvino nacque a Montecorvino Rovella, nel salernitano, nel 1246. Entrò nell’ordine dei frati minori dopo una giovinezza ricca di soddisfazioni mondane. Verso il 1279 fu inviato con altri frati in Armenia, in Persia e altre regioni del Medio Oriente. Nel 1289 tornò in Italia per riferire al pontefice Niccolò IV e averne ordini e istruzioni.
Ripartì nello stesso anno per le missioni d’Oriente, legato pontificio presso re e principi orientali, in particolare presso il Gran Khan della Cina, Kubilai.
Suoi compagni di viaggio furono il domenicano Nicola da Pistoia e il mercante Pietro di Lucalongo.
Dalla Persia si recò via mare in India, nel 1291, dove predicò per 13 mesi e battezzò circa 100 persone. Raggiunse la Cina nel 1294, per scoprire però che Kubilai Khan era appena morto e che Timurleng (1294–1307) gli era succeduto al trono. Sebbene quest’ultimo non volesse abbracciare il cristianesimo, non pose ostacoli sulla via del missionario, che, a dispetto dell’opposizione dei nestoriani che già si trovavano in Cina, entrò presto nelle grazie di Timurleng. Nel 1299 frate Giovanni costruì la prima chiesa di Pechino e nel 1305 ne costruì un’altra con annesse officine e case per 200 persone, proprio davanti al palazzo imperiale. In quegli anni riscattò da famiglie non cristiane circa 150 ragazzini, insegnò loro il greco e il latino e li educò al servizio liturgico. Tra le 6000 persone convertite vi fu un re nestoriano, George, un vassallo del Gran Khan menzionato da Marco Polo. Giovanni lavorò in totale solitudine per ben 11 anni, finché nel 1304 un legato tedesco, Arnoldo di Colonia, fu inviato ad aiutarlo. Nel 1307 Clemente V, soddisfatto dai successi del missionario, inviò altri sette francescani con l’incarico di consacrarlo arcivescovo di Pechino e vescovo di tutta la Cina. Di questi frati, solamente tre giunsero a destinazione: Gerardo, Pellegrino e Andrea da Perugia. Essi consacrarono frate Giovanni nel 1308 e gli succedettero nella sede episcopale di Zaiton. Il primo grande apostolo della Cina morì a Pechino nel 1328. Ebbe esequie solenni, alla presenza di una grande folla di fedeli e di pagani, e il suo sepolcro divenne presto oggetto di venerazione.

Tommaso d'Aquino 1225-1274

Anche la famiglia Polo(1254-1324), andata in Cina per il commercio, è stata strumento di evangelizzazione. Fra l’altro, Matteo e Nicolò Polo erano stati incaricati da Khubilai Khan a tornare in Italia, chiedendo al Papa di inviare in Cina dei sapienti cristiani per fondare una università. Ma le lotte fra papato e regni nazionali in Europa non permisero di soddisfare la domanda. E la vittoria della dinastia Ming (1368-1644)

Sunday, February 03, 2008

Spiritualita' missionaria

L’annuncio non è un problema di linguaggio o di fatti da mostrare. Ma esprime la relazione profonda con un Dio che manda a suo nome

Missione: inviati, non propagandisti

di Pierangelo Squeri



Pubblichiamo l’estratto di un intervento tenuto dal teologo Pierangelo Sequeri, docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, durante una conferenza sul tema «Teologia e missione» svoltasi al Centro Pime di Milano. Il testo non è stato rivisto dall’autore.

Di fronte all’urgenza della missione evangelizzatrice della Chiesa sono due gli atteggiamenti ricorrenti. Il primo viene espresso in questo modo: la missione oggi è un problema di linguaggio. Si pensa che su di noi gravi un problema di fraintendimento; si ha come la sensazione che se solo si trovassero le parole giuste si arriverebbe allo scopo. Ci si interroga perciò continuamente su «come parlare ai giovani» o «come parlare all’uomo contemporaneo», come se i cristiani non avessero un linguaggio comprensibile o non fossero anch’essi «uomini contemporanei». Non si ha il coraggio di dire che non abbiamo risolto il problema vitale della teologia: non la questione del comunicare, ma quella del pensare. Abbiamo un pensiero del cristianesimo rozzo, molto opaco. Questa è la vera questione della teologia.
C’è poi un secondo atteggiamento nei riguardi della missione: nell’intuizione - magari un po’ vaga e confusa - che il problema del linguaggio sia una specie di «araba fenice», si pensa che la missione sia, nella sua sostanza, non un problema di linguaggio, ma questione alternativa ad esso. Viene il sospetto di essersi inutilmente accaniti nel pensare, nel formulare idee e nel trasmettere parole. La missione cristiana - si pensa - è invece questione di fatti, di cose, di rapporti che possono farsi strada in alternativa alla parola. Quasi suggerendo all’interlocutore che, per avvicinarsi al mistero cristiano si deve fare un salto oltre la parola, verso l’ineffabile, e rivolgersi all’«esperienza vissuta».
Questi modi di sentire riflettono un disagio, esprimendolo però in modo astratto. Trasformano il problema della missione in un problema di metodo. Ho la sensazione che le Chiese, anche la Chiesa cattolica, siano pervase dalle «questioni di metodo»; si parla, di volta in volta, di metodo dell’evangelizzazione, della catechesi, di metodi di preghiera, di spiritualità… e di missione cristiana. Continuiamo a pensare al problema del linguaggio e dell’esperienza e ci facciamo istruire troppo poco dalla parola dell’Evangelo su ciò che è in gioco nell’evangelizzazione.
La missione non è «il problema del linguaggio applicato al cristianesimo» o «il problema dell’esperienza del senso applicata al cristianesimo». Il Signore Gesù in alcune occasioni non vuole che parlino di lui e dei miracoli che compie. Il miracolo - allora come oggi - è sottoposto al rischio di una testimonianza contraria a quella intesa da Gesù. Il miracolo come argomento per l’incantamento delle folle, come arma polemica per far tacere l’interlocutore, sono significati contrari all’Evangelo di Gesù, ma spesso fin da allora ritenuti molto congruenti con la missione evangelizzatrice. In quest’ottica non c’è differenza tra la guarigione di un lebbroso e lo svolazzare di Gesù sul pinnacolo del tempio: l’effetto è comunque garantito. Per Gesù la differenza è invece decisiva: guarire il lebbroso è atto dell’evangelizzazione; buttarsi dal pinnacolo del tempio, è un gesto del Satana.
Facciamo un passo indietro nella tradizione biblica individuando il legame fra due concetti: memoria e comandamento. Prendiamo come riferimento due testi in particolare: il primo è nel libro del Deuteronomio ai capitoli 5 e 6, il secondo è il luogo in cui viene istituita l’Eucaristia, che è proprio la radice della missione, l’invio dopo aver visto il Signore risorto. Questi due testi ci dicono che l’invio deve essere autorizzato, perché non sia parlare semplicemente di sé. Oggi parlando di Gesù e dell’Evangelo, parliamo troppo di noi. Si è attenuato il senso del comandamento, dell’autorizzazione, appunto. E invece è proprio questo atteggiamento a fare da termine medio fra la memoria - che è il luogo nel quale si custodisce fedelmente la parola, l’azione, la vita e la persona del Signore - e la missione, che è il modo nel quale la relazione col Signore si dispiega a vantaggio di terzi. La missione è il dispiegarsi della relazione con il Signore, non della propaganda religiosa o della istituzione ecclesiastica.

Nel libro del Deuteronomio c’è il famoso modello della preghiera di Pasqua dove c’è l’interrogatorio rituale. Quando il tuo bambino ti domanderà: «Perché‚ dobbiamo fare queste cose?», tu gli risponderai: «Perché‚ figlio mio, una volta non eravamo nessuno, non avevamo una terra, una casa, non avevamo più nemmeno il coraggio di mettere al mondo dei figli perché li prendevano altri per farli lavorare per loro. Ci sembrava di averli già condannati a morte. E invece, grazie a questo Dio, abbiamo trovato una terra, una casa e adesso abbiamo una tavola dove celebrare la Pasqua in pace. Se questo Dio ci chiedesse di camminare sulle mani, ti giuro, figlio, che io, tuo padre, all’età che ho, camminerei sulle mani». Questa è una risposta. Non «perché‚ è così» o «perché‚ è prescritto così».
Sarebbe già molto se noi potessimo concepire la missione come il dispiegarsi della relazione col Signore, la cui memoria è il grembo che - nella preghiera, nella celebrazione dell’Eucaristia, nella lettura delle sacre Scritture - sempre si ravviva. Un dispiegarsi vitale: non è solo linguaggio o esperienza, ma è musica, danza, anche equazioni di secondo grado, se necessario. Ed è un dispiegarsi a favore di terzi: se ha anche solo un vago sentore di minaccia, non ha trovato la sua forma. Il dispiegarsi della relazione con il Signore è anche un giudizio sul mondo, ma la sua ragion d’essere è di essere a favore di terzi. La memoria custodisce l’idea che il Signore vuole essere seguito, non subìto. Racchiude il senso di una relazione lungamente custodita, di una relazione desiderata, che ci tiene in vita, una relazione in cui ci sentiamo amati.
Il cristianesimo manageriale della missione ci sta portando all’asfissia. Per questo il dispiegamento ha bisogno di un termine medio. Altrimenti la memoria viene come «inglobata» dal testimone, che di-spiega se stesso, cosicché - a priori - tutte le cose che fa sono opera della missione. La Chiesa parla di sé e dice: «Tu mi guardi e praticamente... ecco il Signore». Non è così facile. Come avviene per i discepoli di Emmaus, tra la memoria che coltivano e la capacità di essere memoriale di Gesù a favore di terzi, il termine medio è l’assimilazione del senso del Crocifisso. Non come generica teologia del dolore; piuttosto come scoperta che la forma propria del Crocifisso è la libera obbedienza di Gesù a un comandamento che viene dal Padre e che dice: «Chi vuole rappresentare Dio, in qualunque modo lo rappresenti, lo deve rappresentare nell’atto di dare la vita».
Piuttosto che trasformare la missione in propaganda, come se le opere cristiane rappresentassero automaticamente le opere di Gesù, è meglio... innaffiare i fiori. Infatti rappresenta Dio ogni gesto, anche piccolo, che sia capace di mostrare in se stesso di essere un atto di «dare la vita» a qualsiasi cosa: dare la vita a un fiore, a un figlio, a un affetto, dare la vita guarendo un lebbroso, mandando via qualcuno pacificato che «rinasce», rifiorisce, appunto. E se proprio non c’è un altro modo, piuttosto che affermare la missione negando una vita, piuttosto che rappresentare Dio attraverso la soppressione di una vita, non resta che dare la propria.

Nemmeno la morte del testimone è la rappresentazione di Dio, ma la vita che questa morte lascia all’altro. Pur di salvare quella rappresentazione di Dio che lo vede sempre in atto nella salvezza della vita, il Figlio (ma anche il buon discepolo) è disposto anche a dare la propria. Questo passaggio ha bisogno di essere autorizzato, di avere la forma del comandamento. Per il cristiano, ogni giorno l’atto della missione vuole ritrovare la letizia dell’essere autorizzato, dell’essere in qualche modo al riparo dall’idea di essere voluto in una (forse) generosa volontà di potenza, di efficacia a favore dell’Evangelo, ma che in realtà è un atto di auto-rappresentazione. Si pensa: «Siccome noi ormai siamo Chiesa, e quindi testimoni, qualsiasi buon fine, purché vada da quella parte, è rappresentazione di Dio». Non è così.

La mediazione del comandamento significa che gli apostoli devono ogni volta essere inviati, che le figure e le forme dei ministeri e dei carismi devono ogni volta essere donate, cosicché io mi ricordi che quello che ho da dare non è mai me stesso, ma qualcosa che mi è dato. La missione non deve mai diventare «colonizzazione» dell’altro, dove io mi allargo. La nostra equazione è semplice: io porto il Signore in me e, quando mi allargo, si allarga anche il Signore. Il Signore, al contrario, viene portato solo quando si è in grado di ascoltare - prima di tutto per se stessi - un’autorizzazione a fare memoria di Lui in quel modo.
Il Figlio non dà la vita per uno spontaneo slancio del cuore. Il Crocifisso non è un fanatico, non è un ossesso, non pensa affatto che Dio sia lodato quando l’uomo soffre. Il Crocifisso sa che quella morte - più di una volta rifiutata prima, come ci dice l’Evangelo -, è accolta esattamente nel momento in cui viene autorizzata e quindi anche chiesta. In quel momento, pur essendo la morte sempre un atto criminale e mai una grazia, essa diviene comandamento e forma in cui Dio ha trovato la strada per trasformarsi nella rappresentazione di una vita donata.

(Mondo e missione, dicembre 2007)

I have a dream...

"All we know is that this guy had a dream. We don't know what that dream was"

H.L. TAYLOR, University of Buffalo, on how Martin L. King's icon status oversimplifies his complex message.

(from: TIME. febbruary 4, 2008)