Thursday, September 30, 2010

Cristianesimo e civilta' giuridica europea

Verita' e storicita' non necessariamente si escludono l'una con l'altra, ma, al contrario, continuamente si richiamano, perche' una Verita' astorica non toccherebbe gli uomini, che sono al contrario storici, mentre gli uomini a loro volta, cercano di non rimanere nel caos e nella violenza, ma di interpretare i fatti per trovare in essi una ragione, un bene e un male, un giusto e un ingiusto come l'intera storia della filosofia del diritto dimostra. L'Autore (N. IRTI, La tenaglia. In difesa dell'ideologia politica, Roma-Bari, Laterza, 2008) non ci conduce alla ( necessita' di una) Rivelazione, ma osserva molto pertinentemente che le tecniche non possono giustificare i fini che si pongono, e che dunque la giustificazione razionale di essi deve essere trovata altrove.
(...)
Il principio di lettura, se vogliamo la chiave ordinatrice, la password di questo criptato file che e' l'esistenza, non puo' appartenere soltanto all'esistenza stessa, proprio per la necessita' che cosi' avrebbe di essere spiegato di nuovo: e questo non e' un gioco di parole, ma un'esigenza logica.
(...)
La nostra ragione e' come una ragnatela: essa tesse i percorsi sinuosi delle logiche umane, disegnando cosi' reti nelle quali "intrappolare" le cose della vita, per comprendere il loro posto, il loro significato nell'insieme. Ma, proprio come una ragnatela si appoggia su punti ad essa esterni per reggersi, cosi' i nostri ragionamenti richiedono di poggiarsi su punti-forza esterni ad essi: essi si chiamano principi, e sono appunto gli inizi del nostro ragionare, proprio come gli assiomi della geometria, che non sono dimostrati, ma rendono possibile ogni dimostrazione. E "assioma" [gr: AXIOMA] significa letteralmente "degno di fede", di affidamento, di fiducia: esso e' un salto nel buio, una proposizione a cui aderiamo senza dimostrarla. (...) Sara' poi la congruita' o meno dei ragionamenti a partire da essi, e cioe' la loro rispondenza alla realta', a verificare. o a falsificare, i ragionamenti stessi. Infatti la nostra ragione non e' misura delle cose, ma al contrario le cose misurano la verita' o falsita' dei nostri ragionamenti (Cfr. Summa Theol., I-II, q.91, a. 3: Non ratio est mensura rerum, sed potius e converso.)


Quaderno N°3740 del 15/04/2006 - (Civ. Catt. II 105-208 )
Articolo
IL CRISTIANESIMO E LA CIVILTÀ GIURIDICA EUROPEA
Ottavio De Bertolis S.I.
Molti aspetti della cultura giuridica occidentale derivano dalle concezioni presenti nel diritto canonico: il rifiuto della sacralità del potere umano, e quindi la distinzione tra sfera religiosa e sfera politica; il concetto di persona come soggetto di relazione, che ha la sua radice nella Trinità; l’uguale dignità, e quindi la libertà di tutti a livello di individui e di popoli, per la presenza in ciascuno dello stesso Spirito di Cristo. In ogni caso il dato di fede non impone norme al legislatore civile, ma propone valori. L’Autore è professore nella Facoltà di diritto canonico della Pont. Università Gregoriana (Roma).

© Civiltà Cattolica pag.145-156

Proprio il problema della competenza delle competenze, ossia l'inevitabile storico dissidio tra potere secolare e spirituale, e' cio' che dimostra che "il nostro specifico ordinamento occidentale liberal-democratico e cresciuto in simbiosi e dialettica con uno specifico ordinamento morale" (P. PRODI, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 1998, 463).
Qui stanno le radici della de-magnificazione del potere e dello sviluppo successivo delle liberta' costituzionali, Il che significa che per la sopravvivenza della nostra civilta' occidentale liberale e costituzionale e' necessario che la querelle sulla competenza delle competenze rimanga come tale: se infatto ci limitiamo "alla giustizia come ordinamento positivo e' la stessa civilta' liberale a soccombere" (p. 482).

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Truth 'and historicity' are not necessarily mutually exclusive with each other, but on the contrary, continually refer to each other, because a non-historical truth would not touch human beings, who are otherwise historical beings, while men in turn, try not to get into chaos and violence, but to interpret the facts to find reason in them, both good and evil, justice and injustice as the whole history of philosophy of law shows. The author (IRTI N., La tenaglia. In difesa dell'ideologia politica, Roma-Bari, Laterza, 2008 ) does not lead us to (the necessity of a) Revelation, but notes very pertinently that the techniques can not justify the ends posed, and therefore the rationale for them must be found elsewhere.
(...)
The principle of reading, if you want the ordering key, the password of this encrypted file and that is existence, can not' belong only to the same existence, because then that would have to be explained again, and this is not 'a play on words, but a requirement of logic.
(...)
Our reason is like a spider web: it weaves the winding paths of human logic, drawing so many networks in which "trap" the things in life, to understand their place, their meaning across. But, just like a spider web is supported by external stand point to it, so our reasonings require to be based on points-force external to them: they are called principles, and are just the beginning of our thinking, just as the axioms of geometry, which are not proven, but make possible every demonstration. And "axiom" [gr: Axiom] literally means "worthy of faith, reliance, trust: it is a leap in the dark, a proposition to which we adhere without proof. (...) Then fairness or otherwise of the reasonings from them, and that means 'their correspondence to reality', what will verify or lalsify the argument itself. In fact, our reason is not 'measure of things, but otherwise things measure the truth or falsity of our reason (cf. Summa Theol., I-II, q.91, a. 3: Non ratio est mensura rerum , sed potius e converso.)


Quaderno No. 3740 of 15/04/2006 - (Civ. Catt. II 105-208)
Article
CHRISTIANITY AND CIVILIZATION OF EUROPEAN LAW
Ottavio De Bertolis S.I.
Many aspects of Western legal culture derived from the concepts in the canon law: the rejection of the sacredness of human power, and thus the distinction between the religious sphere and political sphere, the concept of a person as a subject of the relation, which has its roots in the Trinity; the equal dignity, and therefore the freedom of everyone at the level of individuals and peoples, because of the presence in each of the same Spirit of Christ. In any case, the content of faith does not impose rules on civil law, but suggests values. The author is a professor in the Faculty of Canon Law of the Pont. Gregorian University (Rome).

© Catholic Civilization pag.145-156

It is exactly the question of competence of competences, that is the inevitable historic split between secular and spiritual power, that shows that "our particular Western liberal-democratic order and raised in symbiosis and dialectic with a specific moral order" (P . PRODI, A story of justice, Bologna, Il Mulino, 1998, 463).
Here are the roots of the de-magnification of power and the subsequent development of constitutional freedom which means that for the survival of our Western liberal constitutional civilization it is required that the controversy concerning the powers of powers remain as such because, when the we simply limit ourselves to "positive law and justice" 'liberal civilization itself' will succumb" (p. 482).

Saturday, September 25, 2010

Postcolonial studies

Amselle, Jean-Loup, Il distacco dall’Occidente
Meltemi, Roma 2009, pp. 252, € 24,00, ISBN 978-88-8353-688-5
Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010

Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità

Indice - L'autore - Link

Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.

Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.

La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.

Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.

Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).

In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.

Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.

A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.
torna all'inizioIndice

Introduzione

1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale

Conclusione

Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia

Bibliografia

Indice dei nomi propri

L'autore

Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).

Link

Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:
http://www.meltemieditore.it/PDFfiles/ildistaccodalloccidente_interviste.pdf

Postcolonial studies

Amselle, Jean-Loup, Il distacco dall’Occidente
Meltemi, Roma 2009, pp. 252, € 24,00, ISBN 978-88-8353-688-5
Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010

Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità

Indice - L'autore - Link

Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.

Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.

La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.

Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.

Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).

In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.

Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.

A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.
torna all'inizioIndice

Introduzione

1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale

Conclusione

Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia

Bibliografia

Indice dei nomi propri

L'autore

Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).

Link

Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:
http://www.meltemieditore.it/PDFfiles/ildistaccodalloccidente_interviste.pdf

Thursday, September 16, 2010

Ermeneutica delle sacre scritture

September 14, 2010, 9:00 PM New York Times
The Meaning of the Koran
By ROBERT WRIGHT

Robert Wright on culture, politics and world affairs.

TAGS:

JIHAD, SACRED TEXTS, THE KORAN

Test your religious literacy:

Which sacred text says that Jesus is the “word” of God? a) the Gospel of John; b) the Book of Isaiah; c) the Koran.

The correct answer is the Koran. But if you guessed the Gospel of John you get partial credit because its opening passage — “In the beginning was the word, and the word was with God” — is an implicit reference to Jesus. In fact, when Muhammad described Jesus as God’s word, he was no doubt aware that he was affirming Christian teaching.

Extra-credit question: Which sacred text has this to say about the Hebrews: God, in his “prescience,” chose “the children of Israel … above all peoples”? I won’t bother to list the choices, since you’ve probably caught onto my game by now; that line, too, is in the Koran.

I highlight these passages in part for the sake of any self-appointed guardians of Judeo-Christian civilization who might still harbor plans to burn the Koran. I want them to be aware of everything that would go up in smoke.

But I should concede that I haven’t told the whole story. Even while calling Jesus the word of God — and “the Messiah” — the Koran denies that he was the son of God or was himself divine. And, though the Koran does call the Jews God’s chosen people, and sings the praises of Moses, and says that Jews and Muslims worship the same God, it also has anti-Jewish, and for that matter anti-Christian, passages.

The regrettable parts of the Koran — the regrettable parts of any religious scripture — don’t have to matter.
This darker side of the Koran, presumably, has already come to the attention of would-be Koran burners and, more broadly, to many of the anti-Muslim Americans whom cynical politicians like Newt Gingrich are trying to harness and multiply. The other side of the Koran — the part that stresses interfaith harmony — is better known in liberal circles.

As for people who are familiar with both sides of the Koran — people who know the whole story — well, there may not be many of them. It’s characteristic of contemporary political discourse that the whole story doesn’t come to the attention of many people.

Thus, there are liberals who say that “jihad” refers to a person’s internal struggle to do what is right. And that’s true. There are conservatives who say “jihad” refers to military struggle. That’s true, too. But few people get the whole picture, which, actually, can be summarized pretty concisely:


Bay Ismoyo/Agence France-Presse — Getty Images
Reading the scripture.
The Koran’s exhortations to jihad in the military sense are sometimes brutal in tone but are so hedged by qualifiers that Muhammad clearly doesn’t espouse perpetual war against unbelievers, and is open to peace with them. (Here, for example, is my exegesis of the “sword verse,” the most famous jihadist passage in the Koran.) The formal doctrine of military jihad — which isn’t found in the Koran, and evolved only after Muhammad’s death — does seem to have initially been about endless conquest, but was then subject to so much amendment and re-interpretation as to render it compatible with world peace. Meanwhile, in the hadith — the non-Koranic sayings of the Prophet — the tradition arose that Muhammad had called holy war the “lesser jihad” and said that the “greater jihad” was the struggle against animal impulses within each Muslim’s soul.

Why do people tend to hear only one side of the story? A common explanation is that the digital age makes it easy to wall yourself off from inconvenient data, to spend your time in ideological “cocoons,” to hang out at blogs where you are part of a choir that gets preached to.

Makes sense to me. But, however big a role the Internet plays, it’s just amplifying something human: a tendency to latch onto evidence consistent with your worldview and ignore or downplay contrary evidence.

This side of human nature is generally labeled a bad thing, and it’s true that it sponsors a lot of bigotry, strife and war. But it actually has its upside. It means that the regrettable parts of the Koran — the regrettable parts of any religious scripture — don’t have to matter.

After all, the adherents of a given religion, like everyone else, focus on things that confirm their attitudes and ignore things that don’t. And they carry that tunnel vision into their own scripture; if there is hatred in their hearts, they’ll fasten onto the hateful parts of scripture, but if there’s not, they won’t. That’s why American Muslims of good will can describe Islam simply as a religion of love. They see the good parts of scripture, and either don’t see the bad or have ways of minimizing it.

So too with people who see in the Bible a loving and infinitely good God. They can maintain that view only by ignoring or downplaying parts of their scripture.

For example, there are those passages where God hands out the death sentence to infidels. In Deuteronomy, the Israelites are told to commit genocide — to destroy nearby peoples who worship the wrong Gods, and to make sure to kill all men, women and children. (“You must not let anything that breathes remain alive.”)

As for the New Testament, there’s that moment when Jesus calls a woman and her daughter “dogs” because they aren’t from Israel. In a way that’s the opposite of anti-Semitism — but not in a good way. And speaking of anti-Semitism, the New Testament, like the Koran, has some unflattering things to say about Jews.

Devoted Bible readers who aren’t hateful ignore or downplay all these passages rather than take them as guidance. They put to good use the tunnel vision that is part of human nature.

All the Abrahamic scriptures have all kinds of meanings — good and bad — and the question is which meanings will be activated and which will be inert. It all depends on what attitude believers bring to the text. So whenever we do things that influence the attitudes of believers, we shape the living meaning of their scriptures. In this sense, it’s actually within the power of non-Muslim Americans to help determine the meaning of the Koran. If we want its meaning to be as benign as possible, I recommend that we not talk about burning it. And if we want imams to fill mosques with messages of brotherly love, I recommend that we not tell them where they can and can’t build their mosques.

Of course, the street runs both ways. Muslims can influence the attitudes of Christians and Jews and hence the meanings of their texts. The less threatening that Muslims seem, the more welcoming Christians and Jews will be, and the more benign Christianity and Judaism will be. (A good first step would be to bring more Americans into contact with some of the overwhelming majority of Muslims who are in fact not threatening.)

You can even imagine a kind of virtuous circle: the less menacing each side seems, the less menacing the other side becomes — which in turn makes the first side less menacing still, and so on; the meaning of the Abrahamic scriptures would, in a real sense, get better and better and better.

Lately, it seems, things have been moving in the opposite direction; the circle has been getting vicious. And it’s in the nature of vicious circles that they’re hard to stop, much less reverse. On the other hand, if, through the concerted effort of people of good will, you do reverse a vicious circle, the very momentum that sustained it can build in the other direction — and at that point the force will be with you.

Postscript: The quotations of the Koran come from Sura 4:171 (where Jesus is called God’s word), and Sura 44:32 (where the “children of Israel” are lauded). I’ve used the Rodwell translation, but the only place the choice of translator matters is the part that says God presciently placed the children of Israel above all others. Other translations say “purposefully,” or “knowingly.” By the way, if you’re curious as to the reason for the Koran’s seeming ambivalence toward Christians and Jews:

By my reading, the Koran is to a large extent the record of Muhammad’s attempt to bring all the area’s Christians, Jews and Arab polytheists into his Abrahamic flock, and it reflects, in turns, both his bitter disappointment at failing to do so and the many theological and ritual overtures he had made along the way. (For a time Muslims celebrated Yom Kippur, and they initially prayed toward Jerusalem, not Mecca.) That the suras aren’t ordered chronologically obscures this underlying logic.

Successo o Fedelta'

Si può paradossalmente dire che il vero successo del cristiano è l'accettazione del suo insuccesso; il Signore non ti richiede tanto il successo quanto la fedeltà.