Saturday, January 29, 2011

Analogia in San Tommaso

La teologia secondo san Tommaso d'Aquino 
In adorazione
discorrendo sull'essere


di Inos Biffi 
Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti. 
Quanto alla denominazione di Dio:  parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco:  di Dio non si può parlare, ma solo tacere. 
Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio. 
San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae. 
In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione:  "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, i, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m). 
Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature:  "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.). 
L'affermazione è ripetuta:  nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte):  "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m). 
In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae  significatae)  e  "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.). 
Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio:  noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza. 
In conclusione:  noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato. 
D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni. 
La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, i, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In iv Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino. 
Con tutto questo, la seconda convinzione  di  san Tommaso è che l'impossibilità  di  conoscere  Dio  univocamente,  cioè  nella sua  essenza,  non  rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende  analogico,  inadeguato  sì,  ma   vero e  provveduto  di  sen- so  (analogice,  et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, i, 13, 5, c). 
Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio. 
Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa". Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m):  Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile. 
È la prospettiva anselmiana:  Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio:  desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione. 
Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è". 
Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo. 
È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere:  egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature. 
Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere:  esse sono oranti per natura loro.



(©L'Osservatore Romano 28 gennaio 2011)

Preghiera

Colui che annuncia la verità deve essere disposto a non essere compreso. Fa', Signore, che nei momenti di incomprensione sappiamo metterci al tuo posto. Fortificaci in modo tale che siamo coerenti rispetto a ciò a cui crediamo. Accordaci la grazia di vivere a volto scoperto, e non permettere che cediamo alla tentazione della viltà: le viltà che si affermano come rivelazioni, o quelle che si nascondono come tradimenti. Infondi nella nostra vita la luce della verità e fa' che sia nostra guida sul cammino della giustizia. 

Thursday, January 20, 2011

Caso Berlusconi: Le parole e i silenzi della Chiesa

SULLA CHIESA GIUDICE NELLA SFERA PUBBLICA E SUI SUOI CORRUTTORI

di Pietro de Marco

L’intelletto politico è segnato nel Novecento, erede delle rivoluzioni moderne, da una costante discriminazione dell’avversario secondo il valore. L’avversario non è tale razionalmente, e reversibilmente, in momenti e su terreni pubblici particolari; è Nemico personale e ad un tempo dell’umanità, della democrazia, della giustizia. I classici della scienza politica, che distinguevano rigorosamente i due livelli di inimicizia, avevano intravisto l’eventualità del loro collasso in uno solo, il Nemico assoluto, anche nelle pratiche conflittuali. La ineluttabilità di un obbligo morale al conflitto, avvertivano, implica un estremo pericolo, poiché la motivazione “per princípi” della lotta politica chiede di prolungare il conflitto fino all’annientamento.
Gli uomini che perseguono risultati radicali devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, “perisca pure il mondo”. La lotta assoluta tra valore e disvalore ha una sua sequenzialità devastatrice: obbliga a creare criminalizzazioni e svalorizzazioni sempre nuove, fino all’annientamento di “ogni vita politica indegna di esistere” (Carl Schmitt). L’inimicizia assoluta è teorizzata e alimentata dall’intelligencija moderna, fattasi titolare del giudizio di validità ultima sulle sfere di giustizia.
La tradizione giuridica, teologico-politica, pastorale della Chiesa è l’antagonista – ed è spesso il bersaglio diretto – di questa istanza “rivoluzionaria” di un giudizio che si pretende superiore e sommario.
Infatti, da un lato la Chiesa cattolica non conosce l’imperativo dell’annientamento di “vite politiche indegne di esistere”, se non nell’assoluta eccezione prevista dalla discussa dottrina del tirannicidio. Questo anzitutto perché non riconosce politiche salvifiche, quelle che simmetricamente si affermano le uniche “degne di esistere”.
Dall’altro lato, la potestà di giurisdizione della Chiesa si regola nell’ordinario del tutto diversamente, distinguendo tra materie che riguardano il foro esterno e quelle pertinenti il foro interno. La giurisdizione di foro esterno si esercita in pubblico e si riferisce al bene comune. L’altra guarda immediatamente e direttamente il bene della singola anima; si esercita nel segreto e ha effetto nella coscienza.
Si tratta di un paradigma giuridico, in effetti antropologico e teologico-politico, alto e complesso. Solo il moralismo militante, il nuovo attore politico della modernità che si realizza nella figura dell’opinione publica-partito, può pensare di alterare ad hoc, se e quando serva, con l’arma del “quarto potere”, l’esercizio civile della razionalità politica e cattolica.
Si osserverà che questo ordine sociale, razionale e cattolico, suppone l’autorità del confessore sulla persona privata, oltre ad una potestà della Chiesa nella sfera pubblica. E che le due istanze debbono coesistere e completarsi. Ma i limiti dell’efficacia “erga omnes” delle decisioni della Chiesa in società pluralistiche non ne invalidano una validità permanente; esse restano, anzi, tanto più esemplari quanto più si palesano gli “effetti perversi” del mancato riconoscimento di “tribunali della coscienza” che abbiano autorità sulle condotte private.
Nello spazio pubblico italiano le richieste alla Chiesa di intervenire, oggi, con condanne contro qualcuno, non solo sono “partigiane” (l’opinione pubblica attiva è sempre partito), ma intendono provocare la Chiesa ad un giudizio pubblico per obiettivi estranei, forse opposti, al senso, al fondamento, della sua destinazione e giurisdizione.
Non solo si vuole indurla ad un metodo improprio, anzi illegittimo, perché anticiperebbe, come fa per definizione l’opinione pubblica, la ponderazione rigorosa dei fatti e delle imputazioni. Ma le si suggerisce di assumerere nella propria prassi l’istituto della “ghigliottina politica”, il corto circuito liquidatorio tra foro esterno e “forum animae”, contro la razionalità rigorosa che canonisti e teologi, tribunali e confessori, hanno praticato nei secoli e praticano.
Non sorprende che si tenti di trasformare la Chiesa in uno strumento aggiuntivo, e decisivo, della mobilitazione dell’intelligencija, anzi, in una parte dell’intelligenciia stessa. Minoranze colte di clero e laicato lo sono già, e obbediscono ai suoi moti con perfetto automatismo. Ma l’arruolamento nella “machine” dell’opinione pubblica eterodiretta è il peggio che possa accadere all’intelletto cattolico e all’istituzione ecclesiastica. È da credere che non accadrà.
*
La predicazione e l’ammaestramento della Chiesa non dimenticano, peraltro, di sanzionare il “libertinaggio irresponsabile”, diffuso da decenni nel circuito perverso dei modelli di esistenza “liberata” (non solo sessuale) generalizzati dai nuovi media.
In un coraggioso saggio sul pudore pubblicato dall’editore Einaudi, Monique Selz scrive: “In questa esibizione che fa vedere tutto, è in gioco niente meno che il tentativo o il simulacro della rivelazione del mistero dell’origine, che porta all’illusione che sia possibile comprendere l’altro totalmente e quindi impossessarsene. Contro questo, il pudore ha il compito di nascondere l’immagine per proteggere l’essere”.
La dittatura della trasparenza impudica del sé, l’ipertrofia delle libertà intime congiunta alla comoda retorica delle virtù pubbliche, il frequente “servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata, per altri scopi” (secondo le parole di monsignor Crociata): per queste strade pubbliche la cosiddetta emancipazione ha camminato e cammina, confermata o anticipata dalle leggi, dalla esibizione dell’orgoglio eversivo, dal “pride” di turno, dai preservativi a scuola e la pillola abortiva nello zainetto, dalla consulenza immoralista dei magazine. Tutto palese, e prevalentemente istituzionale, è ormai questo processo di socializzazione, enormemente diluito nel tempo. E dietro ai tanti educatori “alla libertà” opera una visione del mondo seriosa (non stiamo parlando di veline), programmaticamente rivolta alla decostruzione di principi e istituti.
Nella sfera civile deborda e ad essa sembra appartenere anche quella vita privata un tempo oggetto della chiacchiera sussurrata, della riservata calunnia, e che oggi la vetrina universale dei media di massa rende pubblica. Morale e diritto, però, ci rendono avvertiti. Tra coloro che propongono i modelli del “nuovo”, nel romanzo, nel saggio, nel programma scolastico o nelle leggi di una regione, nella battaglia politica o nella accattivante esibizione del genere Gay Pride, e volentieri dileggiano tutto ciò che è “vero, nobile e giusto”, da un lato, e dall’altro lato colui, chiunque sia, che viene trascinato in pubblico c’è una sostanziale differenza.
Nel primo caso, coloro che propongono un paradigma di emancipazione “libertina” della morale sociale si assumono responsabilità e provocano il nostro giudizio; per parte sua il giudizio cattolico afferma, da molto tempo, che “è in pericolo il bene stesso dell’uomo”.
Nel secondo caso, persone e condotte vengono trascinate da terzi nell’agorà, in modo che le giudichiamo, quasi fossero esse ad esibirsi e presentarsi. Questa procedura piuttosto ci suggerisce, con la mente alla polverosa e assolata piazza dell’adultera, la bruciante frase di Gesù: “Chi di voi è senza peccato…” (Giovanni 8, 7). Infatti non vi è legittimità alcuna in un giudizio del genere; tanto meno legittimità pubblica, poiché quella persona incolpata non attribuisce esemplarità alla condotta di cui la si accusa. Proprio lo spazio privato da cui è stata strappata per dirle:”Così ti mostri a tutti?” fa intendere che tale persona non propone né una dottrina né un paradigma. Altri lo fanno. Non lasciamo che la mobilitazione dei “virtuosi” ci cambi oggi le carte in tavola.
Dunque, né il giudice – a meno non sia un giudice della Lubjanka –, né il giudizio morale del privato dovrebbero accogliere delle deformazioni lesive della persona, fatte per colpire il suo onore, come prove a carico. Giurisdizione e opinione dell’uomo medio si sono, invece, reciprocamente contaminate nel triangolo tra a) intercettazioni a tappeto di dubbia legittimità, b) costruzione e dilatazione mediatica dello scandalo, c) uso politico della peculiare pubblicizzazione del privato nel flusso massmediale. Il giudice si fa parte non tanto per sue interne insindacabili ragioni partigiane, quanto per la contaminazione tra privato e pubblico che, oggi, la pratica delle intercettazioni comporta, senza che egli possa sostenere di non esserne consapevole, anzi attore. Contaminazione che rende liquide le capitali separazioni tra privato e pubblico. E producendo ad arbitrio il “monstrum” di vicende private di interesse pubblico, con procedura inedita nel nostro ordinamento, quella della prova mediatica, apre l’ordinamento stesso al genere del “processo pubblico-politico” rivoluzionario.
Firenze, 19 gennaio 2011

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/01/19/caso-berlusconi-le-parole-e-i-silenzi-della-chiesa/

Wednesday, January 19, 2011

つまづいたおかげで

つまづいたおかげで

つまづたり ころんだりしたおかげで
物事を深く考えるようになりました
あやまちや失敗を繰り返し おかげで少しずつだが
人のやることを暖かい眼で見られるようになりました
何回も追いつめられたおかげで
人間としての自分の弱さと だらしなさを
いやというほど知りました
だまされたり 裏切られたりしたおかげで
馬鹿正直で親切な人間の温かさを知りました
そして 身近な人間の死に逢うたびに
人のいのちのはかなさを いまここに
生きていることの尊さを骨身にしみて
味わったおかげで人のいのちを
ほんとうに大切にする ほんものの人間に
裸で逢うことができました
一人のほんものの人間に めぐり逢えたおかげで
それが縁となり 次々に沢山のよい人たちに
めぐり逢うことができました
だから わたしのまわりにいる人たちは
みんなよい人ばかりなんです

Wednesday, January 05, 2011

Bellezza e verità

Scriveva il cardinale Ratzinger:  "Nella passione di Cristo (...) l'esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire il volto, sputare addosso, incoronare di spine (...) Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l'autentica, estrema bellezza:  la bellezza dell'amore che arriva "sino alla fine" e che, proprio per questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l'ultima istanza del mondo. Non la menzogna è vera, bensì proprio la verità. È un nuovo trucco della menzogna presentarsi come verità e dirci:  al di là di me non c'è in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla, così facendo siete sulla strada sbagliata. L'immagine di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme con lui e crediamo nell'Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza" (La bellezza. La Chiesa, Castel Bolognese, Itaca, 2005, pp. 25-26).


(©L'Osservatore Romano - 5 gennaio 2011)