Saturday, July 21, 2007

Teologia delle religioni secondo Ratzinger

P. Coda, La teologia di Joseph Ratzinger. Nello spazio della storia Regno-att. n.12, 2007, p.415

* Il presente contributo è stato pubblicato sulla rivista della Pontificia accademia teologica PATH 6(2007) 1,239-253.


(...)Individuando la centralità e l'urgenza della questione per la coscienza e la missione della Chiesa, Ratzinger ha chiaro sin da questo momento che il terreno sul quale occorre muoversi non è quello della questione della «salvezza dei non cristiani».5 Anche se in proposito egli non manca di offrire in quegli stessi anni un fondamentale e circostanziato saggio, degno d'esser preso ancor oggi in considerazione.6 La questione, piuttosto, è propriamente quella di precisare e discernere teologicamente il posto del cristianesimo nella storia delle religioni e dunque, di concerto, di precisare e discernere il posto delle religioni in quella storia della salvezza che, dal punto di vista della fede cristiana, rinviene per grazia il suo vertice escatologico nell'evento di Gesù Cristo. Di qui la peculiare e decisiva indicazione metodologica formulata da Ratzinger per impostare e affrontare correttamente la questione, che viene da lui stesso così riassunta anni dopo: «Le religioni, in fondo, sono sempre trattate come massa indistinta, considerate sempre sotto il profilo della possibilità di salvezza. La mia opinione, dopo gli anni dedicati allo studio della storia delle religioni, era che simili qualificazioni teologiche delle religioni dovessero essere precedute da una ricerca fenomenologica non impegnata in primo luogo a valutare il valore sub specie aeternitatis delle religioni e che perciò evitasse di accollarsi un problema sul quale propriamente può decidere solo il Giudice del mondo. Ero del parere che in primo luogo si dovesse cercare di avere una visione panoramica delle religioni nella loro struttura storica e spirituale. Mi sembrava che non si dovesse discutere su di un non meglio definito (e praticamente neanche analizzato) insieme di "religioni", ma che si dovesse in primo luogo cercare di vedere se vi siano stati sviluppi storici comuni e se si possano riconoscere tipi fondamentali».7

Non sfugga la perspicacia e - diciamolo pure - l'arditezza, dal punto di vista teologico, della prospettiva metodologica qui avanzata con la consueta, pacata determinazione dal nostro autore. L'indirizzo da egli proposto, in effetti, implica l'archiviazione di due contrapposti approcci nell'interpretazione del fenomeno religioso, storicamente e concretamente affrontato, che risultano in definitiva aprioristici e persino ideologici: da un lato, quello di una lettura e valutazione teologica delle religioni come «insieme indistinto», prescindendo da una comprensione paziente e calzante delle loro distinte particolarità in un appropriato orizzonte storico; dall'altro, quello di un'analisi «scientifica» delle medesime prescindendo sia dalla presenza in esse di un fattore non riconducibile alla semplice antropologia sia dalla storicità ineliminabile del loro prodursi e del loro riproporsi.
Evitando questi opposti unilateralismi, Ratzinger istituisce invece un metodo di approccio alle religioni che, senza prescindere dalla loro specifica autonomia, sappia coniugare in maniera intrinseca e profonda il metodo (molteplice) della scienza delle religioni e quello propriamente teologico. L'una e l'altra, infatti, scienza delle religioni e teologia, non hanno che da guadagnare da un utilizzo incrociato, e scevro da pregiudizi scientisti o fondamentalisti, dei loro rispettivi metodi. Loro proprio terreno d'incontro diventa allora la storia del fatto religioso, e cioè la concreta configurazione esibita dalle diverse espressioni religiose nel loro cammino storico. Ancora una volta, il pensiero teologico di Ratzinger si lascia guidare, non solo dal punto di vista del contenuto della fede (fides quae) ma insieme e correlativamente dal punto di vista della forma stessa della fede (fides qua), dal riferimento alla storia come luogo dell'incontro tra il Dio vivente e l'uomo concreto, inserito in una comunità e in un orizzonte determinato di spazio e di tempo. Con ciò, tra il resto, mostrando la fecondità di un accesso metodologico come questo non solo per il pensiero teologico, ma per ogni autentico e proficuo esercizio di pensiero in rapporto a qualsivoglia espressione dell'umano.

Una reale dinamica storica

In questa chiara e articolata impostazione metodologica trovano posto, al loro proprio livello d'esercizio, la fenomenologia, la storia e la teologia delle religioni. In tal modo, in particolare, è inoltre destituito di fondamento critico e scientifico, sin dal principio, ogni approccio che assolutizzi uno soltanto di questi metodi a detrimento degli altri: con ciò stesso, in definitiva, contravvenendo a una positiva configurazione e a un proficuo utilizzo del metodo stesso che indebitamente viene assolutizzato.
A cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, Ratzinger ha giustamente di mira un'estensione impropria del metodo fenomenologico come quello che - assai diversamente dalle intuizioni originarie dei suoi propugnatori nello studio del fatto religioso -8 permetterebbe di accedere a una comune «esperienza spirituale» per sé costituente il nucleo sorgivo e comune di tutte le tradizioni religiose, che dunque non farebbero altro che rappresentarne una diversa e alla fine congruente e complementare traduzione storica. Così che, per usare il calzante esempio portato da Ratzinger per illustrare tale posizione, «la diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l'una nell'altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero».9 La plausibilità di una simile tesi, che si fonda in ultima istanza su un dato incontestabile: quello dell'esperienza religiosa come fatto universalmente umano, mostra però il suo carattere ideologico nel fatto che praticamente destituisce di rilevanza e di portata le oggettive differenze tra le diverse esperienze e le diverse tradizioni religiose. Destituendo così di rilevanza e di portata la storia e, di concerto, la rivelazione di Dio in essa. Con ciò, a ben vedere, non solo, in primis, è messa in questione l'originalità ebraico-cristiana, ma anche - direi di conseguenza - l'originalità di ogni altra autentica esperienza e tradizione religiosa, negando la possibilità e il significato di una qualunque storia delle religioni. In realtà, sottolinea Ratzinger, «quando si analizza la storia delle religioni nella sua totalità (nella misura in cui la conosciamo) si ha l'impressione di una staticità molto minore, ci si imbatte in un'imponente dinamica, propria d'una storia reale (che è progresso, non costante ripetizione simbolica dell'uguale)».10
La coniugazione del metodo fenomenologico con quello storico, a partire dal presupposto fondato di una reale intenzionalità dell'esperienza religiosa cui non è estranea la presenza sollecitante e orientatrice dell'azione di Dio, offre la possibilità di realizzare un'equilibrata «critica della ragione storica» in materia di religione.11 Mettendo a frutto, in tal senso, un'ampia e ben calibrata conoscenza maturata nel corso degli anni, Ratzinger giunge a proporne «una formula strutturale che abbracci il momento della storicità (del divenire, dello sviluppo), il momento dell'essere in costante rapporto e il momento delle diversità reali».12
Si possono così distinguere, nella storia delle religioni, tre momenti principali, ritmati da due passi fondamentali che dal primo conducono al secondo e da questo al terzo. Il primo momento è quello delle religioni «antiche» o «primitive»; il secondo momento, determinato da un primo, grande passo in avanti nella storia delle religioni, «consiste nel passaggio dalle esperienze sparse dei primitivi al mito in grande stile»;13 il terzo momento, infine, «consiste nell'uscita dal mito»14 che viene a «determinare l'attuale carattere della religione».15 Questo secondo e decisivo passo si è di fatto verificato in tre modi, di cui vale la pena riportare per intero la precisa descrizione offerta da Ratzinger: «1) Nella forma della mistica, in cui il mito delude come mera forma simbolica e si rafforza l'assolutezza dell'ineffabile esperienza vissuta. Di fatto poi la mistica si dimostra custode dei miti, rifonda il mito, che spiega come simbolo della verità. 2) La seconda forma è quella della rivoluzione monoteistica, la cui forma classica si trova in Israele. In essa il mito è rifiutato come arbitrio umano. Viene affermata l'assolutezza della chiamata divina tramite il profeta. 3) Va aggiunto come terza forma l'illuminismo (Aufklärung), il cui primo grande momento si verificò in Grecia. In esso il mito come forma di conoscenza prescientifica viene superato e s'instaura l'assolutezza della conoscenza razionale. L'elemento religioso diventa privo di significato, al massimo gli rimane una certa funzione puramente formale di cerimoniale politico (= riferito alla polis)».16

Mistica, monoteismo, illuminismo

Ratzinger stesso, a partire dalla «formula strutturale» così formulata, offre alcune precisazioni che sono assai importanti non solo per comprendere correttamente il significato dei due passaggi rispettivamente dal primo al secondo momento e dal secondo al terzo, e insieme la configurazione dei diversi «tipi» di religione che in tal modo si vengono storicamente a stagliare; ma anche per illuminare le opzioni di fondo che, su questa solida base storico-fenomenologica e alla luce di un'adeguata cristologia, determinano l'originale figura di teologia delle religioni in altri luoghi e in altri tempi proposta dall'autore. Soffermiamoci, dunque, sul significato delle tre vie specifiche percorse dall'esperienza religiosa nell'uscire dal mito, invertendo - come del resto fa Ratzinger stesso - l'ordine della trattazione, e cioè partendo dall'ultimo per risalire da esso al primo.
Circa la via dell'«illuminismo», e cioè della critica razionale del fatto religioso, occorre notare, innanzi tutto, che essa, per sé, non è corrosiva o persino distruttiva del medesimo: ma ne implica piuttosto, quando non assolutizzata, una positiva e persino necessaria chiarificazione e ripresa dal punto di vista della ragione. Tant'è che - ed è questa una tesi importante del pensiero complessivo di Ratzinger - la prima e paradigmatica elaborazione culturale della fede cristiana realizzata dai padri della Chiesa ha il suo nerbo, appunto, nell'alleanza consapevole tra la fede cristologica e il logos della filosofia greca, in atteggiamento rigorosamente critico nei confronti delle forme molteplici della mitologia pagana. Senza che ciò evidentemente venga a significare un appiattimento del logos per sé insito nella fede sul logos quale si esprime nella filosofia greco-ellenistica: essendo esso stesso, il logos della ragione greca, sottoposto alla critica radicale del «logos della croce» di cui, ad esempio, parla l'apostolo Paolo (cf. 1Cor 1,18). D'altra parte, Ratzinger non manca di notare che questa critica «si è sviluppata pienamente solo nell'epoca presente», tanto che «per il futuro della religione e delle sue chances nell'umanità, assumerà importanza decisiva il modo in cui la religione sarà in grado di impostare il suo rapporto con essa».17 Non è difficile cogliere in quest'affermazione l'esatto significato e la reale portata di quell'invito a un «nuovo incontro tra fede e logos»che caratterizza il magistero di Benedetto XVI.18
Per quanto riguarda la seconda «via», quella del monoteismo, basti intanto sottolineare la prima e decisiva caratterizzazione genetica che - dal punto di vista formale - Ratzinger ne offre. Il monoteismo, in effetti, costituisce una vera e propria «rivoluzione» nel panorama religioso: il che significa - anche solo a livello fenomenologico-storico - l'irruzione di una novità che come tale non è precontenuta nelle precedenti condizioni di sviluppo del fatto religioso. Degno di nota è il fatto che la precisa dizione di «rivoluzione» - come risulta da esplicito riferimento in nota - è mutuata dalle ricerche del grande storico italiano delle religioni Raffaele Pettazzoni, il quale appunto rivendica, con gli strumenti dell'analisi storica, la dinamica non semplicemente evolutiva ma appunto «rivoluzionaria», rispetto al precedente quadro di riferimento, di fenomeni religiosi come quelli del monoteismo ebraico e poi cristiano, di quello islamico e, in forma meno influente, di quello zoroastriano.19
La specifica originalità di questo monoteismo viene in rilievo, di fatto, da un confronto senza preconcetti con la prima «via» percorsa dall'esperienza religiosa nella sua uscita dal mito: la «via» della mistica. Eccoci così a una terza, importante precisazione. Che cosa infatti ha qui da intendersi, propriamente, per «mistica»? L'accezione con cui il termine è usato non è quella che è dato ritrovare nella tradizione teologica cristiana - dai padri della Chiesa su su, attraverso il Medioevo, sino alla moderna e contemporanea teologia della mistica -,20 ma quella, ancora una volta storico-fenomenologica, che designa «una via presente nella storia delle religioni, una disposizione che non tollera nessuna realtà sovraordinata a sé, considerando in ultima analisi le esperienze ineffabili e misteriose del mistico come l'unica realtà vincolante nell'ambito del religioso».21
Secondo questa precisa accezione, è evidente che si dà un'irriducibilità marcata e persino insuperabile tra la via percorsa dal monoteismo «di rivoluzione» e la mistica «dell'ineffabile»: la stessa irriducibilità che si dà tra mistica, nel senso specifico di cui sopra, e fede, in senso biblico-cristiano. È evidente che su questo punto il nostro autore si giova con perspicacia ed equilibrio delle prospettive teologiche che, nei decenni a lui precedenti, avevano aiutato a distinguere - soprattutto in ambito protestante - tra l'esperienza di fede di fronte all'alterità della parola di Dio e l'esperienza religiosa per sé tendente all'immediatezza del rapporto col divino e - soprattutto in ambito cattolico - tra l'esperienza storica della rivelazione di Dio e quella mitica del darsi simbolico del divino nel ciclo sempre ritornante dell'originario.22
Ciò non toglie che, rileggendo queste pagine da lui scritte a distanza di tempo e giovandosi di ulteriori, preziose messe a punto della fenomenologia e della storia delle religioni così come del costante approfondimento del suo pensiero teologico, Ratzinger possa riconoscere, con umiltà e autentico spirito scientifico, una certa «inadeguatezza» nella designazione contrappositiva un tempo da lui proposta tra mistica e monoteismo: «Oggi parlerei piuttosto di "mistica dell'in-distinzione" e di "comprensione di Dio come persona". In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia "Dio", qualcuno che ci sta di fronte - così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità ("Dio tutto in tutti", 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell'"io" e del "tu" - o se il divino stia al di là della persona e il fine dell'uomo sia l'unirsi a- e il dissolversi nell'Uno-tutto».23
Resta acquisito, in ogni caso, che ciò che distingue le due «vie» è essenzialmente la concezione di Dio che viene derivata, da una parte, dall'esperienza della fede suscitata dalla Parola della rivelazione e, dall'altra, dall'esperienza del trovarsi di fronte - nell'annientamento d'ogni esperienza mondana - all'ineffabilità del divino: «Nel primo caso, "Dio" rimane del tutto passivo e l'elemento decisivo è l'esperienza dell'uomo che sperimenta la sua in-distinzione rispetto all'essere di ogni ente, mentre, nel secondo caso, si crede all'operare di Dio che chiama l'uomo. Da questo fatto consegue una differenza ancor più profonda, che sul piano della fenomenologia della religione balza particolarmente all'occhio e a sua volta genera una serie di ulteriori conseguenze. Ne risulta infatti il carattere storico della fede che si basa sulla rivoluzione profetica e il carattere astorico della via mistica».24

Fede e religione

Il pensiero di Ratzinger, tuttavia, non si ferma a questa puntualizzazione che risulta già di per sé decisiva: perché con essa è tracciato un netto discrimine che non solo permette di collocare con pertinenza, sul piano storico, la fede cristiana, ma consente anche di collocare con altrettanta pertinenza, sullo stesso piano, le altre religioni. Non si ferma qui il pensiero di Ratzinger perché, proprio con ciò, vengono offerte le condizioni appropriate per intuire con pertinenza una soluzione adeguata alla vexata quaestio del rapporto tra fede e religione. Una questione - e Ratzinger non teme di esprimerlo con riconoscenza - che è stata posta definitivamente, anche se con una certa unilateralità, da Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer.25 Le due - fede e religione -, in effetti, non possono e non debbono essere radicalmente contrapposte: com'è possibile, infatti, che si dia una fede (anzi la fede cristiana) senza che s'incarni e si medi essa stessa in una cultura religiosa? D'altra parte, fede e religione non possono e non debbono essere semplicisticamente confuse l'una con l'altra. La fede (in senso lato, come struttura antropologica cui non è estranea l'azione preveniente e orientante della grazia di Dio)26 designa infatti quel nucleo sorgivo e quell'atteggiamento fondamentale dell'essere umano che poi, a livello storico e comunitario, si esprime e si plasma in una specifica tradizione religiosa, culturalmente connotata. Di qui - lo annotiamo solo en passant - quell'organico rapporto di unità/distinzione tra religione e cultura che è una della costanti del pensiero teologico e della strategia pastorale di Ratzinger.27
Ma di qui anche - e ciò c'interessa in questa sede più immediatamente, a motivo del filo di discorso che svolgiamo, seguendo da presso il pensiero di Ratzinger - la possibilità d'immaginare e instaurare «un fecondo dialogo tra le due vie, un dialogo idoneo a superare la dualità insoddisfacente di "monoteismo" e "mistica"».28 Con ciò, a ben vedere, Ratzinger ci offre un'indicazione della massima importanza, degna senz'altro d'essere ripresa e sviscerata nelle sue implicazioni teoriche e pratiche. È certamente promettente e responsabilizzante, infatti, la precisazione secondo cui non solo è possibile e doveroso - come prima si è veduto - intessere un rapporto tra fede e logos, e cioè tra l'esperienza e la dottrina cristiana e l'esercizio critico-illuministico della ragione; ma è altrettanto possibile e doveroso fare ciò per quanto concerne il rapporto tra la fede cristiana e quella forma di religiosità ch'è tipica della mistica, nel senso sopra precisato. Il fatto è che anche l'esperienza ebraica e poi cristiana propiziano una forma peculiare di mistica che, a ragion veduta, può mostrarsi come il gratuito compimento della tensione positiva che per sé è presente nell'atteggiamento mistico perseguito, soprattutto, nelle religioni dell'Estremo Oriente. Fatta salva la distinzione (e lo straordinario guadagno) per cui «la "mistica" biblica non è una mistica dell'immagine ma della parola, la sua rivelazione non è immagine dell'uomo, bensì parola e atto di Dio. Essa non è primariamente il trovare una verità, ma l'agire di Dio stesso che dà forma alla storia».29
Da ciò consegue la possibilità di comprendere più adeguatamente la collocazione della mistica pre-cristiana in rapporto all'esperienza di fede; non solo, ma anche d'intuire il decisivo passo in avanti, rispetto alla prima, costituito dalla seconda e precisamente in ordine all'esperienza di Dio realizzata nell'esperienza di fede: «Secondo queste analisi, l'esperienza vissuta dell'in-distinzione è solo la prima tappa della via mistica oltre la quale ovviamente solo pochi arrivano, e in questo sta la vera e propria tentazione della mistica; lo stadio assai più doloroso del distacco da sé stessi e il passo per entrare nella trascendenza vera e propria viene solo dopo. Questo stadio, secondo tali analisi, esige dall'uomo la crocifissione dello strapparsi da sé e dell'essere abbandonato nel vuoto assoluto, nel quale non v'è più nulla di terreno che sostenga; ma solo così all'uomo si presenta il vero volto di Dio. Avviene così che, se all'uomo è concesso il dono di prendere il largo in questa mistica dell'oscurità e della fede, la mistica precedente della luce e della visione appare come un piccolo preludio, che il mistico, non presago della profondità di Dio, prima era tentato di prendere per la realtà ultima e totale».30
Il Dio personaleIn una serie di «appunti» nella «forma di conferenza» - così li definisce Ratzinger - confluiti nella raccolta di saggi Il nuovo popolo di Dio,31questo filo di pensieri s'arricchisce, qualche tempo dopo, di un'importante e ulteriore indicazione. Dopo aver ribadito, in tale sede, che «l'illuminismo greco e il profetismo in Israele rappresentano ciascuno a suo modo un confronto con il problema del politeismo»,32 Ratzinger precisa infatti che «la posizione speciale della fede d'Israele» consiste essenzialmente nel fatto di «un Assoluto cui si possa parlare e che a sua volta possa parlare».33 In tale contesto, la «religiosità asiatica» - la «via della mistica», per dirlo con la terminologia poc'anzi presa in esame - attesta «una decisione sull'assoluto, che non segue così necessariamente dallo spunto politeistico e che non si registra ad esempio nell'ambito greco: il mondo (e l'uomo con esso e tutto ciò che è personale) viene compreso come l'apparizione finita dell'Infinito, solo apparenza e non essere».34
La differenza tra la fede d'Israele e questa esperienza religiosa è senz'altro invalicabile, per le ragioni già ampiamente documentate. E senza dubbio il compimento cristiano dell'Antico Testamento «significa anzitutto che in Cristo si manifesta con un'ultima concretezza e realtà l'alterità di Dio, il suo essere personale».35 Riaffermato decisamente ciò, Ratzinger, sulla scorta dei lavori di J.A. Cuttat,36 può però precisare - dischiudendo uno straordinario orizzonte di ricerca e di prassi -: «E tuttavia: se la fede cristiana spinge al grado massimo di severità la sua contrapposizione, c'è pur in essa contemporaneamente il superamento della contrapposizione e l'apertura all'unità, anche se in un senso del tutto diverso dall'universalismo simbolico dell'Asia. Cristo non significa infatti soltanto alterità di Dio e uomo, ma anche unità: unità di uomo e Dio, unità di uomo e uomo, in una forma tanto radicale, che Paolo - lasciandosi alle spalle tutta la mistica asiatica dell'unità - può dire: "Voi siete uno solo in Cristo Gesù" (Gal 3,28). E ci troviamo così ricondotti alle parole di Cuttat, dalle quali siamo partiti: "Nel punto dove Oriente e Occidente si incontrano e si dividono, si erige la croce del nuovo Adamo", che crea nella croce l'incunearsi dei due legni divisi, dei due mondi divisi. "Egli, infatti, è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un solo popolo e ha abbattuto il muro che li separava, l'inimicizia... per riconciliarli con Dio, ambedue in un unico corpo, mediante la croce, dopo aver ucciso in se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14ss)».37
La conclusione che Ratzinger trae dalla limpida e suggestiva analisi sin qui condotta è la seguente: «Se la questione ha posto in primo piano ciò che separa, non si deve tuttavia dimenticare ciò che unisce: il fatto che noi tutti siamo parte di un'unica storia che, in vari modi, è in cammino verso Dio. Ci sembra che la conclusione decisiva sia che, per la fede cristiana, la storia delle religioni non è il ciclico ritorno di ciò che è sempre uguale, di ciò che non arriva mai al vero, che rimane al di fuori della storia. Chi è cristiano ritiene che la storia delle religioni sia una storia reale, una strada la cui direzione significa progresso, e il cui cammino significa speranza (...) verso la Gerusalemme eterna, in cui l'unico ed eterno Dio abita in mezzo agli uomini e splende a essi come loro luce per sempre (cf. Ap 21,33; 22,5».38
La singolarità dell'evento cristologico così come - in dipendenza da essa - quella della fede e della tradizione ecclesiale, in altri termini, proprio a partire dalla loro più intima identità sono chiamate a esplicare il significato teoretico e pratico della loro indispensabile e feconda relazione con le altre autentiche esperienze e tradizioni religiose.
Ciò, soprattutto oggi, riveste delle concrete e assai impegnative conseguenze per l'elaborazione di una corretta e incisiva teologia delle religioni, che è senz'altro uno dei compiti più importanti e urgenti della Chiesa.39 Innanzi tutto, mostra che l'impostazione del problema che è a fondamento delle tre posizioni, cui normalmente si fa riferimento per questa questione: l'esclusivismo, l'inclusivismo e il relativismo, è in definitiva fragile e persino scorretta, perché muove da «un'identificazione precipitosa della problematica delle religioni con la questione della salvezza» e da «una considerazione troppo indifferenziata delle religioni».40
In secondo luogo, le considerazioni svolte con cura da Ratzinger a proposito del nostro tema hanno il grande merito di demistificare un atteggiamento astratto, fissista e in definitiva irrealistico del fatto religioso: «Non si deve tramandare solo una compagine strutturata di istituzioni e di idee, ma cercare sempre nella fede la sua più intima profondità, il vero contatto con Cristo. Così si formarono (...) nel giudaismo i "poveri di Israele", così devono continuamente formarsi pure nella Chiesa, e così possono e devono formarsi nelle altre religioni. Quel che conduce le religioni l'una verso l'altra e porta gli uomini sulla via verso Dio è la dinamica della coscienza e della silenziosa presenza di Dio in essa e non la canonizzazione dell'esistente di volta in volta incontrato, che esime gli uomini da una ricerca più profonda».41
Ciò, in conclusione, a partire da una più avvertita e precisa consapevolezza del «posto del cristianesimo nella storia delle religioni», porta a comprendere e vivere all'altezza del disegno di Dio rivelato in Cristo l'identità e la missione della Chiesa. Essa, infatti, «non è tutto, ma esiste per tutti. Essa è l'espressione del fatto che Dio edifica la storia nella reciprocità degli uomini alla luce di Cristo».42 Il messaggio di Cristo, in essa e mediante essa, in realtà, «può esistere solo nella forma del porsi in cammino verso i popoli»43 nel soffio dello Spirito del Padre e del Figlio fatto carne: perché «il solo scambio di relazioni non unisce, solo lo Spirito lo può fare».44

l Si tratta di un contributo senz'altro importante che Ratzinger consacra all'interpretazione teologica della questione in oggetto in H. Vorgrimler (a cura di), Gott in Welt. Festgabe für Karl Rahner zum 60. Geburtstag, Freiburg i. B. 1964, II, 287-305 (tr. it. «La fede cristiana e le religioni del mondo»,in Orizzonti attuali della teologia, II, Roma 1967, 319-347). Tale contributo è ripreso, come I capitolo: «Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni»,nella recente raccolta di saggi dello stesso J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 13-43: qui esso è incorniciato da alcune precise puntualizzazioni offerte dallo stesso autore, utili a una sua proficua e corretta comprensione e a cui facciamo riferimento nella nostra proposta di lettura.

2 Lo sottolinea Ratzinger stesso nella «Osservazione preliminare» che introduce il saggio di cui alla nota precedente nella raccolta Fede Verità Tolleranza, 13.

3 Si trova riscontro di ciò nei contributi raccolti nella Parte IV di J. Ratzinger, Das neue Volk Gottes. Entwurfe zur Ekklesiologie, Patmos Verlag, Düsseldorf 1969 (tr. it. Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 21972), in particolare nel primo tra essi: «I nuovi pagani e la Chiesa», tr. it. 351-364.

4 J. Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni», in Id., Fede Verità Tolleranza, 13-14.
5 Ivi, 15.
6 Cf. J. Ratzinger, «Nessuna salvezza fuori della Chiesa?», in Id., Il nuovo popolo di Dio, 365-390.
7 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 15-16.
8 Penso, in particolare, oltre a Max Scheler, a G. van der Leeuw, G. Widengren, H. Duméry.
9 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 24.
10 Ivi, 25.
11 Ivi, 26.
12 Ivi, 27-28.
13Ivi, 26.
14 Ivi.
15 Ivi.
16 Ivi, 26-27.
17 Ivi, 27.
18 Cf., ad esempio, la lectio magistralis da lui tenuta il 12 settembre 2006 all'Università di Regensburg su «Fede, ragione e università», e il suo discorso al IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona, in Italia, il 19 ottobre 2006; Regno-doc. 17,2006,540 e 19,2006,671.
19 Cf. le precise indicazioni offerte in proposito da Ratzinger, sulla scorta, in particolare, dell'opera di R. Pettazzoni, L'onniscienza di Dio (Torino 1955), nelle note 19 e 20 di p. 33 del contributo qui esaminato.
20 Mi permetto rinviare a ciò che ho scritto in proposito nel mio Il Logos e il Nulla. Trinità religioni mistica, Città Nuova, Roma 22004, 375-522.
21 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 31.
22 Penso, in modo paradigmatico, rispettivamente alle tesi di Karl Barth e a quelle di Henri de Lubac.
23 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 45.
24 Ivi, 37-38.
25 Cf. l'Interludio che segue il saggio sin qui esaminato in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 49-50.
26 Si vedano in proposito le acute suggestioni contenute in «Nessuna salvezza fuori della Chiesa? », in particolare 381-384.
27 Il tema è lucidamente affrontato, a partire dal c. II, nei saggi che compongono Ratzinger, Fede Verità Tolleranza.
28 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 37.
29 Ivi, 41.
30 Ivi, 36. Ratzinger rimanda in nota a R.C. Zaehner, «Zwei Strömungen der muslimischen Mystik»,in Kairos 1(1959), 92-99; P. Hacker, «Die Idee der Person im Denken von Vedànta-Philosophen», in Studia missionalia 13 (1963), 30-52; H.U. Von Balthasar, «Fides Christi», in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, 45-79; rinvia inoltre, per un approfondimento del rapporto tra mistica dell'oscurità e mistica della luce, alla voce «Licht» da lui redatta in Handbuch theologischer Grundbegriffe, II, collo 44-54; nell'Interludio già citato cita infine, in proposito, H Bürkle, Der Marsch auf der Suche nach Gott - die Frage der Religionen, Paderborn 1996 e J. Sudbrack, Trunken vom hell-lichten Dunkel des Absoluten. Dionysius der Areopagite und die Poesie der Gotteserfahrung, Einsiedeln 2001.
31 J. Ratzinger, «Il problema dell'assolutezza della via di salvezza cristiana», in Id., Il nuovo popolo di Dio, 391-404.
32 Ivi, 397.
33 Ivi.
34 Ivi, 398.
35 Ivi, 399.
36 Ratzinger si rifà in particolare, con riconoscenza, a J.A. Cuttat, Begegnung der Religionen, Einsiedeln 1956.
37 Ivi, 399.
38 Ratzinger, «Unità e molteplicità delle religioni», 43.
39 Cf. J. Ratzinger, «Zur Lage von Glaube und Theologie heute»,in Internat. Kath. Zeitschrift Communio (Freiburg i.B.) 25 (1996), 359-372, anche nelle diverse edizioni de L'Osservatore romano (Città del Vaticano); ora anche in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 119-143.
40 Ratzinger, Interludio, in Id., Fede Verità Tolleranza, 53.
41 Ivi, 55.
42 Id., «Nessuna salvezza fuori della Chiesa?»,387.
43 Id., «Il problema dell'assolutezza della via di salvezza cristiana»,403.
44 Ivi, 404.

Thursday, July 12, 2007

Egemonia culturale del Dossettismo di cui sono affetti anche i saveriani

se è vero che veniamo da una stagione lunghissima segnata da un'egemonia culturale (quella maturata sull'asse Gramsci-Dossetti), che ha saputo trasformarsi e adattarsi ai tempi nuovi, prendendo i nomi e le forme dello scalfarismo o del mielismo. Giù giù, sino ai nostri giorni, segnati dalla "produzione di notizie mediante notizie", dalla riduzione dei mass media a "ufficio stampa polivalente", dal giornalismo sempre più eterodiretto. Ma per tutto questo rimandiamo alla lettura delle tesi presentate dalla Fondazione Liberal sotto il titolo "Cambiamo pagina".

Domenico Delle Foglie
Avvenire 11 luglio 07

Wednesday, July 11, 2007

Tommaso e Kant

il p. Sertillanges ha messo in rilievo le affinità fra le concezioni metafisiche e morali di Kant e s. T.: l’impossibilità di un «regressus in infinitum» nelle cause (II via) ha riscontro nel principio kantiano della II antinomia che «dato il condizionato, è data anche la serie intiera delle condizioni e quindi lo stesso Incondizionato». Parimenti circa l’eternità del mondo, la concezione della «libertà noumenale» e il «regno dei fini» Kant esprimerebbe con altri termini la stessa concezione tomista13.
13 S. Thomas d’Aquin, IV ed. Paris, 1925, t. I, p. 149, 281; t. II, pp. 284, 300 sgg., 311, 314.

bene docet, qui bene distinguit

Bene docet, qui bene distinguit

ものの区別がよくつけられる人は、教えるのもうまい。

He teaches well, who makes distinctions.

Ipse vero intellectus eminens solet duabus normis indicari, quarum una sonat: ‘Sapientis est ordinare’[7], altera vero: ‘Bene docet [is], qui bene distinguit’[8]. Ambae tamen videntur esse duae facies unius eiusdemque numismatis, quod est subtile ingenium. Utraque enim regula eo tendit, ut obiectum cognitionis intrinsece distinguatur seu conceptualiter dividatur in partes, quae deinde sint ordinate collocandae atque describendae.

[7] Cf. Aristoteles, Metaphysica II, c. 2, vv. 16-18: “Et [tenemus] sapientiam esse [scientiam] magis dominantem (archikôteran) quam famulantem. Non enim ordinari oportet sapientem, verum ordinare (dei... epitattein).
[8] Cf. Z. Lewandowski, K. Woś, Słownik cytatów łacińskich, Cracoviae 2002, p. 73b.

Sunday, July 08, 2007

Macchiavellismo  権謀術数

Maurizio Viroli, Il sorriso di Macchiavelli
『マキャヴェッリの生涯ーーその微笑の謎』、白水社

「君主は愛されるよりも恐れられるべきであり、信義を重んじるよりも奸計(かんけい)を用いる方が大事を成就できる」

「権謀術数」(けんぼうじゅっすう)の権化(ごんげ)と見られがちであるが、マキャヴェッリの微笑は、自由と平等、そして祖国への愛というより本質的で普遍的な信念故のもの。
(読売新聞、 本、2007年7月8日)