Sunday, January 31, 2010

英 隆一郎 (はなふさ-りゅういちろう

英 隆一郎 (はなふさ-りゅういちろう

「はたして日本人司祭は、本当にキリスト教を宣べ伝えたいと強く望んで
いるのだろうか。彼らの間では、教会共同体をどのようにしたいかという
議論はよく聞くが、信者をいかに増やすかという議論はあまり聞いたこと
がない。」


「人間のわざを捨て、神の前に真にへりくだることができるかどうか。私
達の罪、不信仰、いいかげんさ、世に妥協している態度などなど、そのす
べてを悔い改めなければならない。結局のところ、日本のカトリック教会
は人間の力で何とかしようと思って、人間の力でやってきたのではないだ
ろうか。自分たちの力ではなにもできないことを悟り、真の謙遜に戻ると
き、私たちが何をなすべきかが示され、それをしていく力が与えられるの
ではないだろうか。」

「福音宣教」2010年一月号
34〜39ページ


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Tuesday, January 26, 2010

Marc Chagall




In 1938 the Jewish artist Marc Chagall would complete a remarkable painting titled White Crucifixion. Here the artist depicts a crucified Christ, skirted with a tallith and encircled by a kaleidoscopic whirl of images, that narrates the progress of a Jewish pogrom. The skewed, tau-shaped cross extends toward the arc of destruction and bears particular meaning in that context. Whatever the cross of Christ may mean, in 1938 it was circumscribed by the realities of Holocaust: the onrush of a weapons-bearing mob overruns houses and sets them aflame; a group of villagers seeks to flee the destruction in a crowded boat, while others crouch on the outskirts of the village; an old man wipes the tears from his eyes as he vanishes from the picture, soon to be followed by a bewildered peasant and a third man who clutches a Torah to himself as he witnesses over his shoulder a synagogue fully ablaze.

Chagall’s juxtaposition of crucifixion and the immediacy of Jewish suffering creates an intense interplay of religious expectation and historical reality that challenges our facile assumptions. He does not intend to Christianize the painting, certainly not in the sense of affirming any atoning resolution of the Jewish plight. Rather, in the chaotic world of White Crucifixion all are unredeemed, caught in a vortex of destruction binding crucified victim and modern martyr. As the prayer shawl wraps the loins of the crucified figure, Chagall makes clear that the Christ and the Jewish sufferer are one.
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Sono passati più di vent’anni dalla scomparsa di Marc Chagall, eppure la sua arte è sempre attuale, come il suo modo di dipingere, immagine utopica di un mondo che non c’è e forse non ci sarà mai, dove il sogno e la realtà si mescolano in un flusso continuo, non più separato dalla «iconostasi» dell’immagine che custodisce il mistero, come avrebbe detto Pavel Florenskij.
Non per nulla, ebreo russo, Chagall assorbì molto della cultura religiosa e figurativa dell’ortodossia cristiana, con particolare riguardo al linguaggio dell’icona, una tavoletta che, come sanno bene gli specialisti (o i fedeli) non è mera immagine del Santo o del Cristo, ma vero e proprio strumento di meditazione attraverso il quale, dalla figura rappresenta si può risalire al prototipo per lasciarselo visualizzare nell’anima. L’icona è una finestra, una finestra sul mistero dell’uomo e del mondo, una scala per la preghiera, un bastone per il cammino di fede.

La pittura di Chagall, d’altra parte, sia pure in sedicesimi, segue lo stesso percorso, nel senso che vuole testimoniare come dietro l’apparenza delle cose ci sia molto di più, ovvero la magia del mistero che filtra nella materia degli oggetti, delle persone e degli animali che l’artista rappresenta. Anche la tela dipinta da Chagall, allora, è una finestra, una finestra spalancata sull’immaginario, sul paesaggio interiore di tutti gli uomini nel quale non stupisce vedere una mucca volare o un omino librarsi nel cielo, dove compaiono angeli come nuvole e il sole trasuda gocciole d’oro. Non è un caso, allora, che il Museo Nazionale di Nizza abbia aperto da poco una mostra (26 giugno - 13 ottobre) dedicata a Chagall come «un peintre à la fenêtre», secondo quanto recita l’azzeccatissimo titolo.
Naturalmente, la finestra non tarda a divenire la metafora di tutta la pittura, almeno dal rinascimento in poi, quando gli uomini hanno preso a traguardare il mondo e ad utilizzare la pittura come vero e proprio strumento di conoscenza, prima prospettica e poi visiva. Naturalmente Chagall sa fare anche questo e allora diviene soggetto privilegiato, tale da occupare tutta la tela, come accade in Vue de la fenetre a Zaolchie del 1915, che è anche la copertina del catalogo. Qui, Chagall e Bella, sua moglie, sul lato destro e una natura morta in basso fanno da cornice a una gigantesca finestra che illustra il bosco. Di loro si vedono soltanto le teste, quasi a non voler disturbare la quiete e la bellezza della natura che sono i veri protagonisti del quadro, insieme alla finestra, naturalmente, che appare, però chiusa e permette l’accesso al mondo solo grazie alla trasparenza dei vetri. Potrà infatti l’uomo capire fino in fondo il segreto delle cose o sarà condannato ad essere distante osservatore, incapace di tuffarsi nella maestosità del Tutto?
L’intero percorso pittorico di Chagall è segnato dall’idea di «entusiasmo» nel senso letterale del termine, ovvero dal desiderio e dalla capacità pittorica di esprimere l’en Theò ìstemi, ovvero lo «stare dentro Dio». Una condizione che l’artista esprime grazie al suo singolare linguaggio poetico, fatto di forme ritagliate e fluttuanti, di associazioni cromatiche improbabili, di reinterpretazioni continue del dato reale in senso onirico. Tutti i movimenti delle avanguardie storiche dei primi decenni del ’900, dall’Espressionismo, al Cubismo, al Blaue Reiter, contribuiscono a creare il tessuto linguistico della poetica di Chagall, ma egli li utilizza sapientemente e li piega alla propria volontà espressiva: l’artista sperimenta, utilizza, ma il motivo dominante, straripante, sarà sempre e solo la sua personalissima poetica. Anche la pittura di Chagall diviene una finestra, aperta a tutti gli influssi esterni che però si mescolano in un nuovo ed irripetibile modo di essere. Si va dal passaggio intimista nei ritratti familiari di quegli anni alle composizioni più articolate, sempre orientate a Bella e Ida, e quando Chagall ritorna in Russia sviluppa una visione differente della finestra che diventa il 'tramite' con la natura e l’umano. In Francia dal 1923 la sperimentazione continua e la fenetre pittorica di Chagall scopre il paesaggio francese, anche qui diretta o virtuale, con l’immagine ripresa dall’alto, e sarà allora la forma ad affiancare il colore e a volte a prevalerlo.


da Avvenire

http://fuoridalghetto.blogosfere.it/2008/08/chagall-in-mostra-a-nizza.html

Saturday, January 23, 2010

Perche' la venuta di Gesu' non e' in ritardo

Chiesa e secolarizzazione (Il Regno-attualita, dic. 2009)

La vocazione
messianica


indirizzo di saluto di uno dei testi più antichi della Tradizione ecclesiale, la
Lettera ai Corinzi di Clemente, comincia con queste parole: «La Chiesa
di Dio che si trova a Roma alla Chiesa di Dio che si trova a Corinto». La
parola greca paroikousa, (tradotta nell’originale francese «en séjour», letteralmente «in soggiorno», e resa nella versione corrente italiana con «che si trova»; ndt) indica il soggiorno dell’esilio, del colono o dello straniero, in contrapposizione al dimorare del cittadino, che si dice in greco katoikein. Paroikein, vivere in esilio, definisce sia l’abitare del cristiano nel mondo sia la sua esperienza del tempo messianico.
È un termine tecnico, o quasi tecnico, poiché la Prima lettera di Pietro (1,17) chiama il tempo della Chiesa ho chronos tes paroikias: il tempo della parrocchia, si potrebbe
tradurre, purché ci si ricordi che parrocchia qui significa «soggiorno da straniero».
Il termine «soggiorno» non dice nulla riguardo alla durata cronologica. Il soggiorno della Chiesa sulla terra può durare – e di fatto è durato – secoli e millenni, senza
che ciò cambi alcunché della speciale natura della sua esperienza messianica del tempo. Ci tengo a sottolineare ciò, contro un’opinione spesso ripresa dai teologi, a riguardo
del preteso «ritardo della parusia». Secondo questa opinione, che mi è sempre sembrata quasi blasfema, quando la comunità cristiana delle origini, che attendeva
il ritorno del Messia e la fine dei tempi considerandoli imminenti, si è resa conto che vi era un ritardo di cui non si vedeva la fine, avrebbe allora cambiato
orientamento per darsi un’organizzazione istituzionale e giuridica stabile. Ossia avrebbe smesso di essere paroikein, di soggiornare da straniero, e si sarebbe disposta a katoikein, a dimorare da cittadino, come tutte le altre istituzioni di questo mondo.

L’esperienza del tempo messianico

Se fosse vero, ciò implicherebbe che la Chiesa avrebbe perduto l’esperienza del tempo messianico che le è consustanziale. Il tempo del Messia, come vedremo, non è un periodo cronologico, ma innanzitutto una trasformazione
qualitativa del tempo vissuto. E in questo tempo qualcosa come un ritardo cronologico – come si dice di un treno che è in ritardo – non è nemmeno concepibile.
Esattamente come l’esperienza del tempo messianico è tale per cui è impossibile dimorarvi, così qualcosa come un ritardo non si può produrre. È ciò che Paolo ricorda
ai tessalonicesi: «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore viene come un ladro
di notte» (1Ts 5,1-2). «Venire (erchetai)» è al presente, proprio come il Messia è chiamato nei Vangeli ho erchomenos, colui che viene, che non cessa di venire. Un filosofo
del XX secolo, che aveva ascoltato la lezione di Paolo, lo ripete a suo modo: «Ogni istante è la porta stretta attraverso la quale può passare il Messia» (W. Benjamin).
È dunque della struttura di questo tempo, che è il tempo del Messia come lo descrive Paolo, che vorrei trattare. Un primo malinteso che occorre evitare a questo
riguardo è quello di confondere il tempo e il messaggio messianici con il tempo e il messaggio apocalittici.
L’apocalittica si situa nell’ultimo giorno, il giorno della collera: vede la fine dei tempi e descrive ciò che vede. Il tempo che vide l’Apostolo, al contrario, non è la fine dei tempi. Se si volesse esprimere con una formula la differenza
fra il messianico e l’apocalittico, si dovrebbe dire
che il messianico non è la fine dei tempi, ma il tempo
della fine. Messianico non è la fine dei tempi, ma la relazione
di ogni istante, di ogni kairos, con la fine dei tempi
e con l’eternità. Così ciò che interessa Paolo non è
l’ultimo giorno, l’istante nel quale il tempo finisce, ma il
tempo che si contrae e che comincia a finire. O, se si preferisce,
il tempo che resta fra il tempo e la sua fine.

Una trasformazione radicale dell’esistenza

La Tradizione giudaica conosceva la distinzione tra due tempi o due mondi: l’olam hazzeh, ossia il tempo che va dalla creazione del mondo sino alla sua fine, e l’olam
habba, il tempo che viene dopo la fine del mondo. Questi due termini, nella loro traduzione greca, sono presenti nel testo delle epistole: ma il tempo messianico, il tempo che l’Apostolo visse e il solo che gli interessa, non è né l’olam hazzeh né l’olam habba: è il tempo che resta fra questi due tempi, quando si verifica nel tempo la cesura dell’avvenimento messianico (il quale, per Paolo, è la risurrezione).
Come possiamo rappresentarci questo tempo? In apparenza, se lo si trasferisce come si fa in geometria con un segmento su una linea, la definizione che ho dato ora
– il tempo che resta fra la risurrezione e la fine del tempo
– non pone difficoltà. Ma è tutt’altra cosa se lo si cerca
di pensare sul piano dell’esperienza del tempo che
questo implica. Va da sé infatti che vivere nel «tempo
che resta» o vivere il «tempo della fine» non possono che
significare una trasformazione radicale dell’esperienza e
anche della rappresentazione abituali del tempo. Non è
più la linea omogenea e infinita del tempo cronologico
profano (rappresentabile ma vuoto di qualunque esperienza),
né l’istante puntuale e altrettanto impensabile
della sua fine. Ma non è nemmeno un semplice segmento
prelevato sul tempo cronologico e che andrebbe dalla
risurrezione alla fine del tempo. È un tempo che pulsa
all’interno del tempo cronologico, che lo lavora e lo sforma dall’interno. È, da una parte, il tempo che il tempo impiega per finire, dall’altra il tempo che ci resta, il tempo di cui abbiamo bisogno per fare finire il tempo,
per giungere alla meta, per liberarci della nostra rappresentazione
ordinaria del tempo.
Mentre quest’ultima, in quanto tempo entro il quale crediamo di essere, ci separa da ciò che siamo e ci trasforma in spettatori impotenti di noi stessi, al contrario
il tempo del Messia, in quanto tempo operativo (kairos)
nel quale cogliamo per la prima volta il tempo (il chronos),
è il tempo che noi stessi siamo. È chiaro che questo
tempo non è un altro tempo, che avrebbe il suo luogo in
un altrove improbabile e venturo. È, al contrario, il solo
tempo reale, il solo tempo che abbiamo, e fare esperienza
di questo tempo implica una trasformazione integrale
di noi stessi e del nostro modo di vivere.
È ciò che Paolo dice in un passaggio straordinario,
che è forse la più bella definizione che egli abbia dato
della vita messianica: «Vi dico, fratelli: il tempo si è fatto
breve (ho kairos synestalmenos esti: il verbo systello indica
sia il fatto di calare le vele sia il modo in cui un animale
si abbassa caricandosi per spiccare un salto); d’ora
innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non
l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero;
quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che
comprano, come se non possedessero; quelli che usano i
beni del mondo, come se non li usassero pienamente» (1Cor 7,29-31).
Qualche riga prima, Paolo aveva detto, a proposito
della vocazione messianica: «Ciascuno rimanga nella
condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato
chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi
diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!
» (1Cor 7,20-21). Hos me, «come se non» ci dice ora
che il senso ultimo della vocazione messianica è di essere
la revoca di ogni vocazione. Proprio come il tempo
messianico trasforma dall’interno il tempo cronologico,
così la vocazione messianica, grazie a l’hos me, al «come
se non», è la revoca di ogni vocazione, che cambia e
vuota dall’interno ogni esperienza e ogni condizione fattuale
per aprirle a un nuovo uso.
È un punto importante, poiché ci permette di pensare correttamente questa relazione fra le cose ultime e le cose penultime che definisce la condizione messianica.
Può un cristiano vivere soltanto di cose ultime? Un grande
teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, ha denunciato
la falsa alternativa fra radicalismo e compromesso, che parte per entrambi i casi dal separare nettamente le realtà ultime e le realtà penultime, quelle cioè che definiscono la nostra condizione sociale e umana di tutti i
giorni. Ora, come il tempo messianico non è un altro
tempo, ma una trasformazione del tempo cronologico, così vivere le cose ultime è prima di tutto vivere in modo altro le cose penultime.
La vera escatologia forse non è altro che la trasformazione
dell’esperienza delle cose penultime. Poiché le
realtà ultime hanno prima luogo dentro le penultime,
queste – contro ogni radicalismo – non si possono semplicemente
rifiutare; ma – per la stessa ragione, e contro
ogni possibilità di compromesso – le cose penultime non katargein
– che non vuol dire «distruggere», ma rendere
inoperante, letteralmente «dis-operare» – che Paolo
esprime la relazione fra ciò che è ultimo e ciò che non lo
è. La realtà ultima disattiva, sospende e trasforma la
realtà penultima, ma è tuttavia al suo interno che essa
entra in gioco interamente.
Ciò permette di comprendere la situazione propria
del Regno in Paolo. Al contrario della corrente rappresentazione
escatologica, va ricordato che per lui il tempo
del Messia non può essere un tempo futuro. L’espressione
con la quale indica questo tempo è sempre «ho nyn
kairos», il tempo dell’adesso. Come scrive in 2Cor 6,2:
«[Idou nyn] Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il
giorno della salvezza!». Paroikia e parousia, soggiorno da
straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura
che è espressa in greco con la preposizione para: quella
di una presenza che distende il tempo, di un già che è anche
un non ancora, di un ritardo che non è un rimando
a più tardi, ma uno scarto e una disgiunzione all’interno
del presente, che ci permette di cogliere il tempo.
Si vede bene dunque che l’esperienza di questo tempo
non è qualcosa che la Chiesa possa scegliere di fare o
di non fare. Non vi è Chiesa, se non in questo tempo e
per mezzo di questo tempo.

La Chiesa e i segni dei tempi

Che ne è di questa esperienza del tempo del Messia,
nella Chiesa di oggi? Infatti il riferimento alle cose ultime
sembra a tal punto sparito dal discorso della Chiesa,
che si è potuto dire non senza ironia che la Chiesa di Roma
ha chiuso l’Ufficio escatologico. Ed è con un’ironia
senza dubbio ancora più amara che un teologo francese
ha potuto scrivere «si attendeva il Regno ed è arrivata la
Chiesa». È un’immagine potente, sulla quale dovremmo
riflettere.
Considerando quanto detto sopra sulla struttura del
tempo messianico, è chiaro che non si tratta di rimproverare
alla Chiesa il compromesso in nome del radicalismo.
Non si tratta nemmeno, come ha fatto il più grande teologo
ortodosso del XIX secolo, Fëdor Dostoevskyi, di presentare
la Chiesa di Roma sotto la figura del Grande inquisitore.
Si tratta di un’altra cosa, ossia della capacità
della Chiesa di cogliere ciò che Matteo 16,3 chiama i segni
dei tempi, ta semeia ton kairon.
Quali sono questi segni, che il Vangelo oppone al vano
desiderio di interpretare l’aspetto del cielo? Se la storia
è penultima in riferimento al Regno, questo – si è visto
– ha il suo luogo prima di tutto e sopra tutto nella
storia. Vivere nel tempo del Messia esige dunque la capacità
di leggere i segni della sua presenza nella storia,
di riconoscere nel suo corso il sigillo dell’economia della
salvezza. Agli occhi dei padri – ma anche per i filosofi
che hanno riflettuto sulla filosofia della storia, che è e resta
(anche in Marx) una disciplina essenzialmente cristiana
– la storia si presentava come un campo di tensioni,
percorso da due correnti opposte: la prima – che Paolo,
in un celebre ed enigmatico passaggio della Seconda
lettera ai Tessalonicesi, chiama to catechon – che ritiene
e differisce senza sosta la fine del mondo lungo la linea del tempo cronologico, infinito e omogeneo; l’altra che,
mettendo in tensione l’origine e la fine, non cessa di interrompere
e portare a termine il tempo. Chiamiamo
legge o stato la prima polarità, votata all’economia, ossia
al governo infinito del mondo; e chiamiamo Messia
o Chiesa la seconda, la cui economia – l’economia della
salvezza – è essenzialmente finita.
Una comunità umana non può sopravvivere se queste
due polarità non sono compresenti, se non esiste fra di esse
una tensione e una relazione dialettica.
Ora, è esattamente questa tensione che oggi è spezzata.
A mano a mano che la percezione dell’economia della
salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si
vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio
su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo,
l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna
sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi
profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in
tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e
d’emergenza permanente che i governi del mondo proclamano
oggi è proprio la parodia secolarizzata del perpetuo
aggiornamento del giudizio ultimo nella storia della
Chiesa.
All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento
della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia inaudita
del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che
tradisce con un eccesso di legalità la perdita di ogni vera
legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi
sulla terra non vi è più alcun potere legittimo, e i potenti
del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità. La giuridicizzazione
e l’economicizzazione integrale dei rapporti
umani, la confusione fra ciò che possiamo credere, sperare,
amare e ciò che siamo tenuti a fare o a non fare, dire
o non dire segna non soltanto la crisi del diritto e degli
stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché
la Chiesa non può vivere se non tenendosi, in quanto istituzione,
in relazione immediata con la fine della Chiesa.
E – non bisogna dimenticarlo – nella teologia cristiana vi
è una sola istituzione che non conoscerà la fine e il dissolvimento:
ed è l’inferno. Qui si vede bene – mi sembra –
che il modello della politica di oggi – che aspira a un’economia
infinita del mondo – è propriamente infernale. E
se la Chiesa spezza la sua relazione originale con la paroikia,
essa non può che perdersi nel tempo.
Ecco perché la domanda che pongo, senza di certo
avere alcuna autorità per farla se non quella di un’abitudine
ostinata a leggere i segni dei tempi, si riassume in
questa: si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione
storica e a riprendere la sua vocazione messianica? Poiché
il rischio è che essa stessa sia trascinata nella rovina che
minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.

Giorgio Agamben*

* Il contributo del filosofo Giorgio Agamben, docente di Filosofia
teoretica all’Istituto universitario di architettura di Venezia, qui proposto
in una nostra traduzione dal francese, è stato pronunciato presso
la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009.

"Dio abita la dove lo si lascia entrare"

"Dio abita la dove lo si lascia entrare"

(detto chassidico) cf. Gv 1,2-3

Piero Stefani, il regno-att. dic. 2009


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L'opinione pubblica nella Chiesa

L'opinione pubblica nella Chiesa

"La' dove non appare nessuna manifestazione di opinione pubblica
(...), occorre vedervi un vizio, un'infermita', una malattia della
vita sociale. Cosi anche in seno alla Chiesa: essa corpo vivente,
mancherebbe di qualcosa di vitale se l'opinione ecclesiale mancasse, e
questo sarebbe un difetto che ricadrebbe sui pastori e sui fedeli".

Pio XII, Discorso ai giornalisti cattolici, 17. 2. 1950

Domanda:
I Saveriani hanno una pubblica opinione o solo stampa di regime?


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Sunday, January 17, 2010

Fwd: たぬきの足跡〓






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差出人: Bonazzi Andorea <bonazzi@i.softbank.jp>
日時: 2010年1月17日 14:02:05JST
宛先: Bonazzi Andrea  Gmail <bonazziandrea@gmail.com>
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Friday, January 15, 2010

Miracoli

COMMENTO AL VANGELO DI SAN GIOVANNI OMELIA 8


1. Il miracolo con cui nostro Signore Gesù Cristo cambiò l'acqua in vino, non sorprende se si considera che fu Dio a compierlo. Infatti, chi in quel banchetto di nozze fece comparire il vino in quelle sei anfore che aveva fatto riempire di acqua (Gv 2, 6-11), è quello stesso che ogni anno fa ciò nelle viti. Quel che i servi avevano versato nelle anfore, fu cambiato in vino per opera del Signore, come per opera del medesimo Signore si cambia in vino ciò che cade dalle nubi. Se questo non ci meraviglia, è perché avviene regolarmente ogni anno: la regolarità con cui avviene impedisce la meraviglia. Eppure questo fatto meriterebbe maggior considerazione di quanto avvenne dentro le anfore piene d'acqua. Come è possibile, infatti, osservare le risorse che Dio dispiega nel reggere e governare questo mondo, senza rimanere ammirati e come sopraffatti da tanti prodigi? Che meraviglia, ad esempio, e quale sgomento prova chi considera la potenza anche d'un granello di un qualsiasi seme! Ma siccome gli uomini, ad altro intenti, trascurano di considerare le opere di Dio, e trarne argomento di lode quotidiana per il Creatore, Dio si è come riservato di compiere alcune cose insolite, per scuotere gli uomini dal loro torpore e richiamarli al suo culto con nuove meraviglie. Risuscita un morto, e tutti rimangono meravigliati; eppure ogni giorno ne nascono tanti, e nessuno ci bada. Ma se consideriamo più attentamente, è un miracolo più grande creare ciò che non era, che risuscitare ciò che era. Ed è il medesimo Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che compie tutte queste cose per mezzo del suo Verbo, e lui che le ha create, le regge. I primi miracoli li ha fatti per mezzo del suo Verbo, che è presso di lui e Dio egli stesso; gli altri per mezzo del suo Verbo incarnato e fatto uomo per noi. Come ammiriamo le cose fatte per mezzo di Gesù uomo, così dobbiamo ammirare quelle fatte per mezzo di Gesù Dio. Per mezzo di lui sono stati fatti il cielo e la terra, il mare, ogni ornamento del cielo, l'ubertà della terra, la fecondità del mare: tutte queste cose che ci circondano sono state fatte per mezzo di Gesù Dio. Noi contempliamo queste cose, e se in noi c'è il suo Spirito, ci piacciono e c'invitano a lodare l'artefice; eviteremo così di volgerci a queste opere allontanandoci dal loro artefice o di rivolgere, per così dire, il volto a queste creature voltando le spalle al loro creatore.


IN EVANGELIUM IOANNIS TRACTATUS CENTUM VIGINTI QUATUOR
TRACTATUS 8
Nuptiae factae sunt in Cana Galilaeae.
(Io. 2, 1-4)

1. Miraculum quidem Domini nostri Iesu Christi, quo de aqua vinum fecit, non est mirum eis qui noverunt quia Deus fecit. Ipse enim fecit vinum illo die in nuptiis in sex illis hydriis, quas impleri aqua praecepit 1, qui omni anno facit hoc in vitibus. Sicut enim quod miserunt ministri in hydrias, in vinum conversum est opere Domini; sic et quod nubes fundunt, in vinum convertitur eiusdem opere Domini. Illud autem non miramur, quia omni anno fit: assiduitate amisit admirationem. Nam et considerationem maiorem invenit, quam id quod factum est in hydriis aquae. Quis est enim qui considerat opera Dei, quibus regitur et administratur totus hic mundus, et non obstupescit obruiturque miraculis? Si consideret vim unius grani, cuiuslibet seminis, magna quaedam res est, horror est consideranti. Sed quia homines in aliud intenti perdiderunt considerationem operum Dei, in qua darent laudem quotidie Creatori; tamquam servavit sibi Deus inusitata quaedam quae faceret, ut tamquam dormientes homines, ad se colendum mirabilius excitaret. Mortuus resurrexit, mirati sunt homines: tot quotidie nascuntur, et nemo miratur. Si consideremus prudentius, maioris miraculi est esse qui non erat, quam reviviscere qui erat. Idem tamen Deus Pater Domini nostri Iesu Christi per Verbum suum facit omnia haec, et regit qui creavit. Priora miracula fecit per Verbum suum Deum apud se: posteriora miracula fecit per ipsum Verbum suum, incarnatum, et propter nos hominem factum. Sicut miramur quae facta sunt per hominem. Iesum, miremur quae facta sunt per Deum Iesum. Per Deum Iesum facta sunt coelum et terra, mare, et omnis ornatus coeli, opulentia terrae, fecunditas maris; omnia haec quae oculis adiacent, per Iesum Deum facta sunt. Et videmus haec, et si est in nobis Spiritus ipsius, sic nobis placent ut artifex laudetur: non ut ad opera conversi ab artifice avertamur, et faciem quodammodo ponentes ad ea quae fecit, dorsum ponamus ad eum qui fecit.

Ozawa and Christianity

Sunday, January 10, 2010

日本のコンプレックス

対談 岡田監督×野田秀樹 通じる思いは

http://www2.asahi.com/worldcup/column/theroad/TKY201001100080.html
朝日新聞 2010年1月10日朝刊、18頁

日本は明治維新の後、条約改正で政治的な意味と経済的な意味ではひとまず不平等を乗り越えたけど、文化的にはいまだに自立していない。相変わらず、まず欧米を見るし、若い人は欧米の文化をまねることから入る。私にもあるけど、コンプレックスのようなものが綿々と続いている。

岡田 文化的に自立できていないというのは、周囲が日本を下に見ているのではなくて、日本人自身の中にある問題のような気がしている。例えば、W杯4強というと、「そんなの無理に決まっている」となる。どうして自分たちで抑えてしまうのか。世界を驚かそうとチャレンジすることで誰にも迷惑をかけないのに、規制しようとする。そういう意味でも結果を出さないといけないと思います。

のだ・ひでき 1955年、長崎県生まれ、演出家、劇作家、俳優。東京教育大付駒場高でサッカー部に入るが、ボールに触れる練習が少なく演劇部に。高校2年時に初めての戯曲を自作自演。東大在学中の76年に劇団夢の遊眠社を結成し、日本の演劇を引っ張る。83年に「野獣降臨」で岸田国士戯曲賞。92年に劇団を解散し、ロンドン留学。93年に演劇企画会社「NODA・MAP」を設立し、「キル」「パンドラの鐘」など話題作を発表。2008年多摩美術大教授。09年東京芸術劇場芸術監督に就任、名誉大英勲章OBE受勲。

Terza guerra mondiale?

Jacques Attali makes a point during an interview with The Yomiuri Shimbun in Paris.

Jacques Attali, a renowned French economist and scholar who served as an adviser to President Francois Mitterrand from 1981 to 1991.

http://www.yomiuri.co.jp/dy/national/20100108TDY01301.htm

Jacques Attali: I would say that, in my view, we are going to go through five successive steps, which are not five scenarios, because I believe that all the five steps will happen one after the other.

The first one is, coming through the economic crisis we are in, is the decline of the American power. Certainly a decline of the relative American power, if not absolute. This will not lead, in my view, to the second phase, to the domination by another country. Nobody will like to replace the U.S. as the head of the world. And, the U.S. will not be able to be the head of the world.

In the second phase, it's a place where between 10 and 12 countries will share the burden of leading the world, including Japan, China, India, the European countries, and some others. That will be the second phase.

The third phase will be not the domination by one of these countries...I don't believe, also, that nothing will happen, but pure domination by the market. The market will dominate the world, without any rule of law.

Market without the rule of law is very dangerous because it leads to illegal economy, criminal economy, and lack of coordination, lack of property rights. And then you may see a lot of scarcities and a lot of inequalities, the development of frustration and worse. The fourth phase will be a global war.

The fifth phase, which happens either after the fourth phase or instead of the fourth phase, is a global new order, which will be based on not only individualism, but altruism. A world of lonely, selfish people is not sustainable.

Altruism, at least rational altruism will be the basis of a new world, with a new global government and development of nonmarket economy.

Thursday, January 07, 2010

Colui che non è in grado di darsi conto di tremila anni rimane al buio e vive alla giornata.

Johann Wolfgang Goethe (1749 – †1832).

Wer nicht von dreitausend Jahren
sich weiß Rechenschaft zu geben,
Bleib im Dunkeln unerfahren,
Mag von Tag zu Tage leben.


Entnommen aus dem Werk „West-¨ostlicher Divan“, Kapitel „Buch des Unmuts“,
Gedicht „Wer nicht franzet oder britet“, letzte Strophe


'He who cannot draw on three thousand years is living hand to mouth.'

Colui che non è in grado di darsi conto di tremila anni rimane al buio e vive alla giornata.

Johann Wolfgang Goethe (citazione d’apertura de Il mondo di Sofia)

「三千年の歴史から学ぶことを知らぬ者は、知ることもなく、闇のなかにいよ、その日その日を生きるとも。」

詩劇ファウストの作家としても有名な多才な哲学者、ヨハン・ゲーテの言葉です。学んだ内容そのものが大切なのではなくて、人類が積み重ねて来た叡智のプロセスを学ぶ事に意義があるのだと。いい言葉です。

Saturday, January 02, 2010

塩野七生 『十字軍物語』全4冊が今夏刊行開始

塩野七生 『十字軍物語』全4冊が今夏刊行開始


一月一日の新聞に全面広告が掲載されていました。新シリーズ『十字軍物語』全4冊が新潮社より今夏刊行開始予定です。

今夏刊行予定 『絵で見る十字軍』
今秋刊行予定 『十字軍物語1』
以下2011年刊行予定 『十字軍物語2』『十字軍物語3』


「21世紀の今なお、世界情勢の多くは、キリスト教世界とイスラム世界の対決によって動いている。しかし日本はこのどれにも属していない。にもかかわらず影響を避けることはできない状態にある。ならばこの二つの世界の、今に至るまでの一千年にもわたって続いている対決の歴史を振り返ってみるのも、この二つの大波をかわし乗り切っていいくうえでの一助になるのではないかと考えたのだった。

『わたしは常に、自分自身の想いに忠実に生きてきた。だから、他の人もそうであって当然だと思っている。』(ユリウス・カエサル)

これが古代のローマ人の考えた『寛容』だった。だがその後は、当然ではない中世に入る。私はこの中世を『ローマ人亡き後の地中海世界』と題して、二冊にまとめた。キリスト教世界とイスラム世界に分かれた時代を『海賊』をキーワードにして描いてみたのだった。そして第二の試みのキーワードは『聖戦』となれば、描き出す対象は十字軍になるしかない。今年から始まる、十字軍四部作である。『ローマ亡き後の地中海世界』でのテーマは南ヨーロッパのキリスト教徒と北アフリカのイスラム教徒の対決にあったが、『十字軍物語』では、北ヨーロッパのキリスト教世界と中近東のイスラム世界の対決になるだろう。

そしてもしもあなたに、これを読み続ける好奇心と忍耐があるとしたら、そのときはあなたも考えると思う。この二つの一神教の世界に比べれば、わが日本の多神教の文明も捨てたものではないね、と。

このことに納得いって初めて、われわれ日本人は、キリスト教徒とイスラム教徒との間に立っての説得力をもつ仲介者になれるのではないかと想っている。部外者は当事者たちの長い歴史を知って初めて、彼らの『想い』を共有しながら、その調停に乗り出せるのであるから。」(塩野七生)

Dignità della persona e vita consacrata

Dignità della persona e vita consacrata
Testimoni, Numero 21 del 2009 pag. 13 a cura di Aldo Basso

Note: La presente riflessione si propone di richiamare l'attenzione su ciò che in concreto può significare la promozione della dignità della persona nell'ambito della vita religiosa. Occorre cominciare dal periodo della formazione iniziale e fare poi in modo che questa attenzione sia presente in tutto il dinamismo della vita comunitaria.

Nell'Istruzione Il servizio dell'autorità e l'obbedienza vengono richiamate "alcune priorità nel servizio dell'autorità" e, tra queste, si indica espressamente la seguente: "L'autorità è chiamata a promuovere la dignità della persona" . Si tratta certamente di un obiettivo molto importante, se si pensa al valore continuamente dichiarato nell'insegnamento della Chiesa circa la centralità della persona nell'azione formativa e in ogni ambito della vita sociale.

Promuoverla nel periodo di formazione

Il periodo di formazione ha lo scopo di creare le condizioni affinché una persona arrivi a maturare una scelta consapevole e responsabile circa il suo futuro. Il rispetto e la promozione della sua dignità di persona possono, in questo caso, tradursi concretamente in alcune 'attenzioni' particolari. Ad esempio:
- fornire informazioni corrette circa le esigenze della vita consacrata e il carisma della Congregazione (negli incontri vocazionali, nelle riviste e nei dépliants, nei colloqui personali);
- rispettare i tempi che sono ragionevolmente da prevedere perché la persona maturi una decisione personale;
- evitare atteggiamenti sottilmente manipolativi o ricattatori, facendo leva ad esempio sui sensi di colpa o su forti bisogni di dipendenza e protezione o desideri di fuga da realtà famigliari particolarmente difficili. Tutto ciò suppone, da parte del responsabile della formazione, buona conoscenza di sé, libertà interiore, capacità di discernimento, retta intenzione;
- superare, da parte del formatore, la tentazione di legare a sé le persone sotto la spinta di carenze affettive o dell'ansia per il futuro della propria congregazione o nel tentativo più o meno inconscio di soddisfare bisogni di stima, di riconoscimento, di prestigio;
- parlare con sincerità e rispetto ad una persona che "insiste" per essere accolta nella comunità religiosa, facendole presenti le "'vere" motivazioni che come responsabile della formazione lo lasciano perplesso o non disponibile ad accogliere la sua richiesta.
Il periodo della formazione è un periodo educativo assai importante e delicato. Fare un cammino educativo con chi sta cercando la sua strada nella vita significa - rifacendoci alle parole di Guardini - che io «do a quest'uomo coraggio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti, ed interpreto il suo cammino - non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria. Devo dunque mettere in moto una storia umana e personale… Come credenti diciamo: educare significa aiutare l'altra persona a trovare la sua strada verso Dio» .

Promuoverla nella comunità religiosa

Volendo esprimermi in modo molto sintetico, posso affermare che un superiore, nell'esercizio della sua autorità, promuove la dignità delle persone che gli sono affidate nella misura in cui vive la carità in modo autentico, come insegna la parola di Dio. Di per sé, quindi, non sarebbe necessario perdersi in lunghe considerazioni. Gli spunti che seguono allora hanno semplicemente lo scopo di fare riferimento ad alcune situazioni più significative o problematiche nelle quali si può più facilmente disattendere questa esigenza fondamentale o è più difficile sapere come concretamente realizzarla. Riprendo quanto è indicato nel testo dell'Istruzione, che esplicita la promozione della persona in quattro modalità: «L'autorità è chiamata a promuovere la dignità della persona, prestando attenzione ad ogni membro della comunità e al suo cammino di crescita, facendo dono ad ognuno della propria stima e della propria considerazione positiva, nutrendo verso tutti sincero affetto, custodendo con riservatezza le confidenze ricevute» .

Prestare attenzione ad ogni membro della comunità e al suo cammino di crescita". Gesù incontra le folle, ma è capace anche di riservare un'attenzione particolare e unica a singole persone, ascoltandole e dialogando con loro. L'attenzione per l'altro è, per usare le parole di Simone Weil "la forma più rara e più pura di generosità" (ella aggiunge anche, con una punta di pessimismo, che "a pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono"). È sempre un'esperienza gratificante e incoraggiante quando la persona sente che per l'altro "esiste" ed è riconosciuta nella sua unicità. Al contrario, è un'esperienza molto frustrante quando, ad esempio, un religioso sente di essere semplicemente "un numero" o quando si sente interpellato soltanto nel momento in cui il superiore deve procedere a "spostamenti" e a colmare un vuoto che si è venuto a creare in qualche comunità.
L'attenzione alla persona può trovare applicazione in diversi modi. Ad esempio:
- coltivare una conoscenza personale dei singoli membri. Sono significative le parole che sant'Angela Merici ha lasciato nel suo Testamento spirituale: «Vi supplico ancora di voler ricordare e tenere scolpite nella mente e nel cuore tutte le vostre figliuole ad una ad una; e non solo i loro nomi, ma anche la loro condizione e indole e stato e ogni cosa loro. Il che non vi sarà cosa difficile, se le abbraccerete con vera carità»;
- avere qualche forma di riguardo personale: una telefonata in occasione di qualche ricorrenza particolare, la risposta ad un biglietto di auguri o ad una cartolina, la visita e l'incontro personale;
- far sentire la propria vicinanza alla persona quando questa vive un momento difficile o attraversa un momento di crisi o è segnata da qualche dura prova;
- organizzare la vita quotidiana della comunità in modo tale da favorire nel contempo sia un clima di impegno che un ambiente rilassato e non segnato da frenesia e ritmi incalzanti di lavoro, così da evitare ai membri la sottile sensazione di essere "sfruttati";
- essere capaci di ascolto autentico. È una delle possibilità più quotidiane, anche se di fatto piuttosto rare, di esprimere attenzione alla persona. Il bisogno di sentirsi ascoltati e capiti è molto più forte del bisogno di sentire consigli e ammonizioni.
Non si tratta certamente di incoraggiare la risposta a bisogni infantili da parte di persone che ricercano qualche forma di dipendenza o favorire atteggiamenti di tipo narcisistico. Si tratta, invece, di creare nell'Istituto un clima ricco di umanità, dove si percepisce che la persona "conta" e viene prima delle preoccupazioni istituzionali, organizzative, economiche; dove la comunicazione è aperta e familiare e dove, in definitiva, ci si sforza di essere l'uno per l'altro segno della bontà mite e umile con cui il Signore Gesù incontrava le persone.

Fare dono ad ognuno della propria stima e della propria considerazione positiva. C'è una stima dichiarata ("io ho fiducia in te… sono convinto che il Signore ti abbia dato tanti doni…"), che normalmente conta poco o niente, e una stima espressa e manifestata in modo diretto. Ciò avviene, ad esempio, quando alle persone si affidano responsabilità concrete e significative; quando si dà effettiva e concreta possibilità ai singoli di sviluppare i propri talenti , pur tenendo presenti naturalmente le esigenze più generali di una comunità o di un Istituto (mortificare una persona in qualche sua attitudine o competenza particolare allo scopo di mantenerla… umile può essere espressione di animo gretto e visione assai ristretta del bene delle persone e dell'Istituto stesso); quando le persone hanno libero accesso alle informazioni riguardanti la vita dello Istituto; quando si realizza una forma di "leadership distribuita" .

Nutrire verso tutti sincero affetto. L'affetto per una persona può prendere nomi diversi: benevolenza, vicinanza, interessamento, sostegno morale, comprensione, conforto. Sincerità, a sua volta, significa corrispondenza tra ciò che si sente o pensa e ciò che si manifesta e si dice. È sinonimo di autenticità e trasparenza. Tutti la desiderano e se l'aspettano dalle persone con cui trattano; non tutti (pochi?) sono capaci di offrirla.
L'affetto per una persona è sincero quando le manifestazioni esteriori - parole, gesti, comportamenti - si accompagnano realmente al sentimento interiore corrispondente. Si può mentire per calcolo - e ciò è spregevole -, ma anche per paura e addirittura 'per educazione' (non si vuole recare dispiacere o urtare la sensibilità di una persona e così… non si dice ciò che realmente si sente o si pensa). Si può fingere negli affetti in diversi modi. Ad esempio:
- si chiede a una persona: "come stai?", per mostrare che siamo interessati al suo stato di salute e subito dopo, già mentre quella risponde, si cambia discorso e non si ascolta più;
- per consolare una persona che vive un momento di particolare sofferenza si promette vicinanza e ricordo e poi… non ci si fa più vivi;
- si promette a una persona interessamento per una pratica che le sta particolarmente a cuore o una risposta a una sua richiesta e poi… non ci si fa più sentire;
- non si parla apertamente a una persona circa un suo comportamento non corretto o che è motivo di scandalo, tergiversando e rimanendo nel vago, oppure non le si riferiscono con chiarezza fatti che la riguardano e di cui si è venuti a conoscenza per non apparire poco gentili o mancanti di riguardo o per non ferire la sua suscettibilità;
- si ostenta comprensione e riguardo verso una persona a cui si chiede, ad esempio, un trasferimento che le costa sacrificio, senza però portarla a conoscenza dei veri motivi che stanno alla base della decisione che la riguardano.
Non si può negare che ci si possa trovare di fronte a situazioni obiettivamente difficili o imbarazzanti per chi voglia servire la verità, ma d'altra parte occorre chiedersi in tutta onestà come si possa combinare il dire una cosa per un'altra con la raccomandazione biblica di non mentire: «Ecco ciò che voi dovrete fare: parlare con sincerità ciascuno con il suo prossimo» . È da augurare a tutti di avere un amico sicuro e sincero che ci voglia bene anche così: informandoci in modo disinteressato su come gli altri ci percepiscono e sull'effetto che il nostro agire ha su di loro, fuori delle vie comuni ed ufficiali che spesso sono menzognere e che non di rado tacciono sull'essenziale.

Custodire con riservatezza le confidenze ricevute. Un superiore può essere depositario di confidenze o di informazioni riservate. Rispetto della persona, da questo punto di vista, può significare:
- mantenere strettamente riservate le informazioni che si sono avute come tali e tenere soltanto per sé le confidenze ricevute - cosa che sembra ovvia, ma non è affatto scontata (Manzoni insegna …);- garantire ad ogni membro della comunità il pieno accesso alle informazioni che lo riguardano (anche quelle messe per iscritto e lasciate dai superiori precedenti);
- chiedere espressamente il consenso della persona interessata quando si ritenesse necessario passare ad altri una informazione riservata che la riguarda (ad esempio, in occasione di un trasferimento);-avvisare immediatamente chi viene ad offrire informazioni riservate circa una terza persona che poi queste stesse informazioni saranno passate alla persona interessata. Se "l'informatore" non fosse disponibile a questo passaggio di informazioni, gli si chieda di assumersi la responsabilità di quanto riferisce e di rispondere a una precisa domanda: "perché mi vieni ad offrire queste informazioni?".

Promuoverla quando un membro lascia l'Istituto

Può capitare in qualsiasi congregazione o istituto religioso che qualche membro arrivi a decidere di lasciare la vita religiosa. Le modalità con cui ciò può realizzarsi sono assai diverse, ma è opportuno che ci si interroghi e ci si chieda che cosa significa in concreto 'promuovere la dignità della persona' quando ci si trova di fronte a queste situazioni. Infatti, fino a che una persona non ha formalmente perfezionato la sua uscita dalla congregazione, ella ne è ancora membro e i superiori devono sentirsi moralmente impegnati ad assumere quegli atteggiamenti di rispetto di cui si è fatto cenno fin qui. In concreto, tutto ciò potrebbe significare che si tengono presenti alcune considerazioni:
- la persona in crisi e che eventualmente decide di lasciare non diventa una persona "pericolosa", da cui prendere le distanze, in quanto potrebbe mettere in crisi altri membri dell'Istituto. Può semmai diventare l'occasione, per l'istituto stesso, di interrogarsi sul proprio operato e imparare a correggere eventuali modalità formative. Il difendersi e prendere le distanze, moraleggiando o commiserando, è normalmente frutto della paura e comunque non è rispetto per la persona;
- con la persona che sta ripensando la scelta della sua vita è necessario, da parte dei superiori, continuare un confronto e un dialogo condotti nella verità e nel rispetto reciproci, per portarla ad assumersi responsabilmente le conseguenze delle proprie scelte. Ciò è possibile, tra l'altro, se essa non cerca facili giustificazioni, ricorrendo ad atteggiamenti superficialmente recriminatori nei confronti della formazione avuta, quasi fosse l'unica causa dei suoi problemi, dimenticando che un soggetto rimane sempre il primo responsabile della propria formazione. Da parte del superiore, inoltre, si devono evitare atteggiamenti sottilmente ricattatori ("la congregazione ti ha dato un'istruzione, una laurea…");
- è importante essere disponibili a fornire tutte quelle facilitazioni (incontri di persone, forme di esclaustrazione, esperienze particolari) che nel rispetto dei diritti della comunità e delle norme comuni possono aiutare una persona ad arrivare con più sicurezza ad una scelta;
- sarebbe, quindi, molto limitante e non favorirebbe la promozione della dignità della persona se un superiore, dopo che la persona ha manifestato il suo ripensamento e sembra orientata a 'lasciare', si preoccupasse soltanto di provvedere alla sua sistemazione materiale e stabilire come risolvere sul piano economico il rapporto con lei, trascurando un dialogo e un confronto serio e responsabile.