Monday, August 31, 2009

La dea bendata

PROSPERI ADRIANO
GIUSTIZIA BENDATA PERCORSI STORICI DI UN'IMMAGINE

Editore: EINAUDI
Pubblicazione: 10/2008
Numero di pagine: 259
Prezzo: € 34,00
ISBN-13: 9788806194031
ISBN: 8806194038


La benda sugli occhi, un attributo dell'immagine simbolica della giustizia come donna, è al centro del percorso disegnato nelle pagine di questo libro. Di questo attributo viene qui ricostruito l'atto di nascita nel 1494, la rapida diffusione nel contesto dell'età della Riforma protestante e la fortuna successiva. Indagando le ragioni di tanta e così rapida fortuna (che non toccò però l'Italia) se ne è individuata quella fondamentale nella potente suggestione religiosa della narrazione evangelica di Gesù bendato e deriso: un modello di sofferenza e di perdono che dette nuovo impulso alla figura della dea Giustizia trasmessa dal paganesimo antico alla cultura dell'Europa occidentale. Dopo l'attesa medievale del Giudizio universale, l'esigenza della giustizia imparziale dominata dallo sguardo di Dio trovò la sua incarnazione nell'asserita investitura divina dei poteri politici e religiosi. Per dare poi vita nel Settecento all'idea del tribunale della pubblica opinione come espressione sostitutiva dell'antico simbolo dell'occhio di Dio. Ma nel mondo contemporaneo la spettacolarizzazione di crimini e processi si accompagna a una crisi della giustizia che sembra destinata a rendere nuovamente attuale e problematico il simbolo della benda.

Sunday, August 30, 2009

Inculturazione

Delicatus ille est adhuc cui patria dulcis est;
fortis autem iam, cui omne solum patria est;
perfectus vero, cui mundus totus exsilium est.
ille mundo amorem fixit,
iste sparsit,
hic exstinxit.

Fragile, ancora, è colui per il quale la patria è dolce
Forte, invece, è colui per il quale ogni terra è come la sua patria
ma perfetto è colui per il quale tutto il mondo è come un paese straniero.
Il primo ha fissato il suo amore nel mondo;
il secondo lo ha diffuso;
il terzo ha saputo estinguerlo.


tratto dal Didascalicon III 19, di Ugo di
San Vittore:

Tuesday, August 25, 2009

Annuncio e coerenza

10. Il missionario e’ consapevole del dovere della coerenza, ma non ha l’angoscia della coerenza, perche’ non pone nella propria coerenza il diritti di annunciare ma nella fedelta’ al Signore che a questo lo chiama. Del resto egli non parla di se stesso, ma solo di quanto Dio ha fatto per tutti. E cosi’ puo’ parlare anche se peccatore.

LA RIVISTA DEL CLERO ITALIANO
Anno 2008 - Numero 12

Editoriale I dieci comandamenti del missionario comune

La fede parlata

Non è scontato che i preti parlino della loro fede, e parlino tra di loro nella fede. [...] Questa comunicazione troverà luoghi e tempi differenti ma rimane una necessità per la fede del prete: una fede che non si racconta, non prende parola, muta, alla fine rischia di morire; e vale anche per un prete». Queste parole di don Antonio Torresin, presbitero della diocesi di Milano, ben delineano la centralità del tema trattato, che mira al cuore della spiritualità sacerdotale. A volte ciò che appare scontato rischia addirittura di venir dimenticato. Così è per la fede del prete. Il merito di questo articolo è proprio quello di affrontare un tema difficile con discrezione e coraggio, anzitutto inquadrandolo nella storia della spiritualità sacerdotale, interpretandolo poi alla luce dell’attuale teologia della fede, infine declinandolo concretamente e suggestivamente secondo la prospettiva del racconto lucano dei discepoli di Emmaus.

LA RIVISTA DEL CLERO ITALIANO
Anno 2009 - Numero 1
Antonio torresin
La fede del prete. Un tema rimosso?
pp. 11 (

Wednesday, August 12, 2009

da: Mauricio Y Marassi, Buddismo Mahayana

Il Buddismo nei confronti di altre religioni si comporta come un sistema operativo privo di programmi specifici pwer le varie funzioni. Quando si associa alle sfere religiose di una cultura e' in grado di farle girare - in un certo senso di ottimizzarle - fornendo loro un come, un verso nel realizzare una qualita' spirituale elevata. Al punto che, da molti, il "come", il verso proposto viene percepito vivificante la propria religione.

(Mauricio Y. Marassi, Il Buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture; La Cina, Marietti, 2009, p. 24)

Essendo tutto, o quasi tutto cio' di cui parleremo al di fuori delle caregorie della nostra cultura, usare questa per leggere quelle novita' porterebbe a un'omologazione che le distruggerebbe. (Marassi, 44)

In Cina quelle che noi occidentali consideriamo commistioni tra stato e chiesa non sono, come nei casi della nostra storia, indebite ingerenze dell'uno e dell'altra per dominarsi vicendevolomente, sono il retaggio di una situazione in cui sin dall'inizio non vi e' tra loro una chiara distinzione. (Marassi, p. 50)

["Religio instrumentum imperii" non e' qualcosa d cui scandalizzarsi, ma un dato di fatto.]


Nel caso della morfologia del pensare in cinese e' basilare la parte dovuta alla scrittura in cui questo pensare si rappresenta. In altre parole e' indispensabile dedicare uno spazio all'analisi di quel sistema grafico se vogliamo comprendere il pensante che ad esso e' correlato.[...] Fattore unificante non e' mai stata la lingua bensi la scruttura, e' quindi a questa che occorre fare riferimento nella tracciatura dei significati perche' in quest'ambito i suoni hanno un'importanza limitata: un numeri limitato di suoni ha il compito di rappresentare alcune migliaia di caratteri che sono i veri contenitori di senso.

Da una tale realta' disecende una considerazione essenziale per tutta la successiva
trattazione del discorso; nello nello sviluppo della cultura cinese il rapporto
fondamentale e' tra pensiero e scrittura, non tra pensiero e parola. Quello cinese e' un sistema di scrittura che si rapporta direttamente con il pensiero invece di instaurare 'prima' un rapporto con la parola, come avviene per le scritture alfabetiche nelle quali e' il suono/parola a a essere in contatto diretto son il pensiero, al punto che la parola "si fa" pensiero (in greco una sola parola, logos, indica contemporaneamente "pensiero" e "parola"). Nella cultura indiana, come pure in quella greca, il rapporto fondamentale nella produzione di cultura e' tra pensiero e parola, tra struttura mentale e struttura linguistica: il pensiero/parola ha anticipatodi molti secoli la scrittura, che e' stata importata piu' tardi e poi, volta per volta, adatatta a una lingua fonetica gia' compiuta.
In questo caso invece parliamo di una scrittura priva di suono, muta, che parla direttamente al pensiero, senza la mediazione della parola.
Il suono e la vista passano per canali di comunicazine diversi, come e' evidente dal fatto che una persona puo' essere non-vedente ma sentirci benissimo, e viceversa. Questo vuol anche dire che tra una lingua basata sul rapporto suono/pensiero e una lingua basta sul rapporto immagine/pensiero non ci puo' essere il tipo di comunicazione che siamo abituati a dare per scontato in quel processo che noi chiamiamo "traduzione".
Per noi - che scriviamo segni che rappresentano suoni - il dato nuovo e' che quello "scrivere" fatto di segni complessi, non sempre si puo' agevolmente trasformare in una lingua puramente fonetica, dove il portattore di senso e' il suono.
Il fatto e' che cio' che si vede in un ideogramma, nei segni che lo compongono e 'nella loro storia' - che e' una collezione di significati e di possibili associazioni con altri ideogrammi - e' una specie di scenario, non ha parole univoche che lo descrivano, come non e' dicibile interamente e con parole univoche quello che scorgiamo guardando da una finestra.
Parlare in una lingua a scrittura ideogrammatica e' anche, dire i nomi dei segni e
ascoltare/capire e', anche, tornare dal suono-nome al segno.
[...]Il segno e' "cosa tra le cose" per cui il pensiero, legato al segno invece che a un concetto fatto di parole e percio' astratto, non si allontana dalla realta', la esplora facendone parte. Il segno e' portatore autonomo e ridondante di senso. Bisogna aver chiaro che in questo contesto scompaiono i nostri piu' cari riferimenti linguistici, quelli che esprimono le differenze piu' sottili del nostro filosofare: niente piu' distinzione tra singolare e plurale, tra maschile e femminile e neutro, non piu' sfumature giocate sul filo di un diminutivo modificato da un condizionale, verso un suffisso che permetta di chiamare in gioco un'astrazione. Solo segni che parlano senza coniugazione e senza declinazione cosi' da poter fungere contemporaneamente di volta in volta da nomi, verbi, aggettivi.
(Marassi, 52-57)



"Per voi occidentali il peccato principe e' quello del sesso. Si, anoi sembra ridicolo aver drammatizzato un rapporto tanto naturale, ma il cristianesimo ha capito che il sesso svela gli ultimi segreti mentre noi non abbiamo mai pensato a questa sua profondita', a questa sua drammaticita'. Da noi il peccato principe e' invece distruggere l'armonia sociale. Se non si distrugge questa armonia, si puo' fare qualsisasi cosa, commettere qualsiasi peccato> Se gli altri non ci vedoni, non lo sanno, noi siamo senza peccato. il peccato non e' la "colpa", per noi il peccato e' la vergogna: la vergogna di venire scoperti> Da noi la coscienza individuale e' debole, mentre quella collettiva e' forte. per noi la punizione peggiore e' essere soli, essere isolati. Essere dei senza-uomini, un insulto terribile, come per voi essere dei senza-Dio. Siamo dei conformisti, questo e' il nostro peccato mentre il vostro e' essere degli individualisti. Ma qual e' il peccato piu' grave?" (Endo
Shuusaku, citato in R. PISU, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2000, 30s.)


"Io penso che oggi i giapponesi siano piu' inclini a recepire il cristienesimo perche' questa fede si e' trasformata, secondo me si sta avvicinando al buddismo. Mi sembra che tra i cristiani stia cambiando il modo di percepire Dio che viene colto come una grande vita dentro di noi, come nel buddismo, e se chiamiamo Cristo questa grande vita, anche i giapponesi lo capiscono. il cristianesimo privilegia il rapporto Io e Dio, il buddismo il rapporto Io e Vero Io. Ecco ho l'impressione che queste due concezioni stiano avvicinandosi, siano sul punto di fondersi" ((Endo Shuusaku, citato in R. PISU, Alle radici del sole, Sperling & Kupfer, Milano, 2000, 37s.)

Nel sentire religioso dell'Estremo Oriente il nodo profondo di queste religioni e' spesso sovrapposto perche' vengono lette a partire da un sentimento religioso che le precede e le omologa. (気 氣 米)


"Tutte le cose sorgono da e tornano a un Uno che tutto abbraccia" (Pruning the Bodhi Tree, 8)

Logos e parola nella cultura cinese

Logos e parola nella cultura cinese (1 ottobre 2003)

Il linguaggio nella tradizione europea si presenta come “logica” o “discorso”, cioe’ come un sistema relativamente autonomo ma corrispondente in qualche modo alla organizzazione della realta’. Di piu’, il logos e’ concepito come momento primario, come iniziativa, come potere di creare delle situazioni nuove. Ogni essere umano detiene, per il fatto che e’ dotato di linguaggio e sa usare la parola, lo stesso potere di cominciare, di creare, di definire.
Nella concezione cinese il linguaggio e’ dipendente dalla logica delle situazioni. E’ un po’ come quelle parole che si dicono mentre si gioca a scacchi: “scacco”, “scacco matto”, ecc. Il loro senso dipende dalle “mosse” che vengono fatte e quindi dipendono dalle regole del gioco che sono gia’ stabilite in partenza. Il linguaggio appare come un fenomeno transitorio, senza consistenza propria. Appare soprattutto come fenomeno “naturale”. Dietro questa concezione si nasconde la cosiddetta “ideologia imperiale”. L’arte della calligrafia, per esempio, consiste nel trasformare la scrittura in fenomeno naturale, dando ai caratteri l’apparenza di segni che emergono spontaneamente dal vuoto.


“En 221 avant notre êre, l’empire est né dans la violence et de la violence. Pour perpétuer leur pouvoir, les premiers empereurs et leurs associés ont présenté ce pouvoir comme un phénomène conforme à la nature des choses. Ils ont tout mis en oeuvre pour que l’arbitraire dont il était issu soit oublié et que l’ordre impose apparaisse à tous comme une emanation de la réalité même. Cette oeuvre a été accomplie de façon systématique sous le premier empire, celui de Han, dans tous les domains de la vie sociale et intellectuelle. Pour que cette mutation soit complète et irreversible, il fallait que l’idée même d’arbitraire culturel disparaisse : il fallait rendre impensable l’idée que l’homme est libre de créer les rapports sociaux et les institutions qui lui conviennet, qu’il institue par lui-même les conventions et les formes dont il a besoin, et qu’il possède donc le pouvoir de les modifier et de les abolir pour en substituer d’autres. Le passé préimperial a été réinterpreté de façon à ce que n’y paraisse plus aucune trace de cette fondamentale liberté de faire et de défaire. L’ordre impose par l’empire devait découler sans solution de continuité de l’origine des choses en même temps que de l’origine de l’histoire. De cette gigantesque mutation idéologique est né ce que les Chinois eux-mêmes ont considéré depuis lors comme la «civilization chinoise », et ce que les Occidentaux considèrent telle aujourd’hui ». (J.F. BILLETER, L’Art chinois de l’écriture, Genève/Paris, Skira/Le Seuil, 2’ éd., 2001, postface, p. 321-324).


Senza voler omologare il logos cristiano alla cultura occidentale, mi sembra abbastanza chiaro che l’uso del linguaggio nel « primo annuncio » evangelico intende essere creativo ma non mistificante, suscitare adesione spontanea, ma anche essere indipendente dalla arbitrarieta’ umana. Quando pero’ la Parola eterna di Dio prende forma umana ne assume anche le naturali contingenze.


Cenni bibliografici

J.F. BILLETER, L’énigme Confucius, “Esprit” août-septembre 2003, pp. 76-99.
F. JULLIEN, Procès ou Création. Une introduction à la penseé des letters chinois, Paris, Le Seuil, 1989.

Monday, August 10, 2009

Bonaventura e Tommaso a confronto

Bonaventura e Tommaso a confronto

L'intelligenza non basta



di Inos Biffi

Secondo san Bonaventura, la teologia inizia con la fede, ossia con "il Cristo inabitante nel cuore" (Christus inhabitans). È infatti questa inabitazione - scrive nel prologo del Breviloquium - la fonte da cui provengono "la stabilità e l'intelligenza di tutta la Sacra Scrittura" (firmitas et intelligentia totius sacrae scripturae). "È impossibile che uno sia iniziato a essa, se prima non ha infusa in sé la fede di Cristo, che di tutta la Scrittura è la lampada, la porta e il fondamento (lucerna et ianua et fundamentum)" e quindi se non è sotto "l'influsso della Trinità beata" (influentia Trinitatis beatae).
Quando manchi o si spenga la fede, che è un'"esperienza" di Cristo e un'azione trinitaria, l'avvio della teologia è semplicemente impossibile. La sua finalità, tuttavia, secondo il Dottore Serafico - Commento alle Sentenze, Proemii quaestio iii, 1m - non si conclude in modo compiuto nell'intelletto: "Non è questo il suo punto d'arrivo, dal momento che la Rivelazione mira ultimamente a suscitare l'affetto" (ibi non est status, quia illa revelatio ordinat ad affectum).
Possiamo discernere nell'itinerario teologico un primo momento, che consiste nella "scienza teologica speculativa" (scientia speculativa) o nella contemplazione. A esso deve seguire un secondo momento, quello in cui l'intelletto si estende e si esprime nell'azione (prout extenditur ad opus), e allora la teologia diviene una scienza pratica (scientia practica sive moralis).
Ma non basta: occorre che la scienza e l'azione si congiungano nella forma "affettiva", cioè bisogna che l'intelletto susciti l'amore (prout extenditur ad affectum), così che si ottenga la sapienza, la quale comprende insieme "la conoscenza e l'amore" (simul dicit cognitionem et affectum).
Non sono, quindi, sufficienti né il puro sapere scientifico né l'azione come tale.
In altre parole, la teologia mira certamente alla "grazia della contemplazione" (gratia contemplationis) e, senza dubbio questa contemplazione è un fine della teologia; non però il suo fine principale, che è quello che "diventiamo buoni" (ut boni fiamus).
"La fede - scrive il Dottore Serafico - risiede nell'intelletto, ma in modo tale da suscitare l'amore" (Sic est in intellectu, ut nata sit movere affectum).
Ed eccone la ragione: "La conoscenza che Cristo è morto per noi, e altre verità simili a questa, a meno di essere dei peccatori e di avere un cuore duro, suscita l'amore", a differenza di quando si abbia una conoscenza di tipo geometrico, del tipo "la diagonale è incommensurabile col lato".
"Il fine a cui tende questa dottrina - scrive sempre nel Breviloquium - è che diventiamo buoni e siamo salvati, e questo non avviene mediante una pura considerazione astratta, ma piuttosto con un atteggiamento o impegno della volontà" (haec doctrina est, ut boni fiamus et salvemur, et hoc non fit per nudam considerationem, sed potius per inclinationem voluntatis).
Per altro, un simile esito affettivo non può mancare, visto che l'"indagine" (prescrutatio) teologica, mostrando come "Dio perdoni i peccati, e quale medicina usi per le nostre piaghe, e quali premi ci elargirà in futuro", porta alla luce la dimensione nascosta (absconditum) del mistero divino, cioè "la dolcezza della divina misericordia".
Siamo, con questo, esattamente nel linguaggio e nel tono dei maestri francescani precedenti Bonaventura, come Alessandro di Hales: "Questa scienza (la teologia) pertiene maggiormente alla virtù che non al puro sapere speculativo; è più sapienza che non scienza, e consiste maggiormente nella virtù e nell'azione che non nella contemplazione e nella conoscenza" (haec scientia magis est virtutis quam artis, et sapientia magis quam scientia; magis consistit in virtute et efficacia quam in contemplatione et notitia).
Anche san Tommaso insegna che la "sacra dottrina" è una scienza pratica, tuttavia egli ritiene che essa sia "più speculativa che pratica", dal momento che "si occupa più delle cose divine che degli atti umani, dei quali tratta solo in quanto attraverso di essi l'uomo è ordinato alla perfetta conoscenza di Dio, nella quale consiste la beatitudine eterna" (Summa Theologiae, i, 1, 4). Si direbbe che san Tommaso sia più coraggioso e teologico.
Si tratta quindi di capire bene il significato che egli annette a questo carattere "speculativo": egli intende con ciò affermare che il fine ultimo della teologia non siamo noi, e non è neppure il nostro comportamento morale o la nostra salvezza, ma è Dio, verso il quale si volge tutto l'interesse. In questo senso la teologia non è "utile", ma è gratuita. Essa è interamente relativa a Dio, che attrae a sé tutta la contemplazione.
Tommaso non nega l'esito di bontà che deve avere il fare teologia, ma la propensione del suo pensiero è che non tanto si deve fare teologia "per diventare buoni" (ut boni fiamus), quanto si deve essere buoni per fare teologia e quindi per raggiungere la contemplazione di Dio, che della teologia è il fine ultimo. La "bontà" produce una consonanza con la teologia. È tuttavia significativo, come indice della fondamentale consonanza di Bonaventura e di Tommaso sulla natura "affettiva" della teologia quanto l'Angelico stesso nel Commento alla Lettera agli Ebrei scrive sulla natura affettiva della sacra dottrina. Questa - egli scrive - "è come il cibo dell'anima (...) è cibo e bevanda, poiché disseta e sazia l'anima. Le altre scienze si limitano a illuminare l'intelletto. Questa illumina l'anima e anche la nutre e la corrobora" (sacra ergo doctrina est cibus et potus, quia animam potat et satiat).
Nella medesima linea è un'altra grande affermazione di Tommaso nello stesso Commento: "Vi è una duplice perfezione: la prima relativa all'intelletto, e si ha quando uno possiede un intelletto capace di giudicare e di discernere rettamente su quanto gli viene proposto. La seconda perfezione è quella dell'affetto, e questo proviene dalla carità, che uno possiede quando si trova totalmente unito a Dio.
"Ora la Scrittura Sacra ha questo di caratteristico, che in essa non si trovano solo realtà su cui speculare, come nella geometria, ma anche realtà che si sperimentano con l'affetto. Nelle altre scienze basta che l'uomo sia perfetto quanto all'intelletto, in queste invece si richiede che lo sia quanto all'intelletto e quanto all'affetto".
Le figure della teologia in Bonaventura e Tommaso sono profondamente diverse, come d'altronde erano differenti i loro temperamenti mentali: l'esigenza di "riflessione" è maggiore in Tommaso, mentre viva e accesa in Bonaventura è l'inclinazione all'estetica teologica, alla profusione dell'immagine, alla "confessione" e al bisogno della sua esperienza, o forse meglio all'elogio di questo bisogno. Abbiamo parlato di estetica, e infatti egli, quale figlio di san Francesco, non esita a vedere suggestivamente nella Scrittura - e quindi nella struttura della teologia - la forma della croce, o, come la chiama, una "forma di croce intelligibile" (forma crucis intelligibilis), che con i suoi bracci comprende e riassume tutta la realtà e tutta la storia.
Chi voglia conoscere la teologia medievale deve studiare sia Bonaventura sia Tommaso. In ogni caso il teologo francescano e il teologo domenicano si ritrovavano nella persuasione che il teologo deve associare alla perfezione dell'intelletto la perfezione dell'amore.



(©L'Osservatore Romano 15 luglio 2009)
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Sunday, August 02, 2009

Kuwasemono

くわせもの[くはせ―] 05 【食わせ物・食わせ者】
「くわせもの」を大辞泉でも検索する


[1] 一見立派だが実はいい加減なもの。いかさまもの。にせもの。

[2] うわべからだけでは判断できない、油断のならない者。


・ あの男はおとなしそうだが、とんだ―だ


くわせもの 食わせ物
くわせもの 食わせ物

〈物〉 a fake; a sham; 《fml》 a counterfeit; a phon(e)y; 〈人〉 an impostor; a cheat; a hypocrite (偽善者)