Friday, April 30, 2010

Laicita' e liberta' di religione

Forme e limiti della presenza pubblica della religione
Tra la libertà all'americana
e la laicità alla francese

È in libreria il volume Una alternativa alla laicità (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pagine 261, euro 14). L'autore ne ha sintetizzato i temi per il nostro giornale.

di Luca Diotallevi

In un momento come questo, nel quale per molte ragioni ci si interroga su forme e limiti della presenza pubblica della religione, rischi seri si nascondono dietro l'abitudine a ritenere "ovvio" che le risposte vadano cercate nello spazio della laicità. Magari a volte si tenta di ridefinire la laicità con qualche aggettivo, ma di essa quasi mai si mette in discussione il rango di modello, se non per dar spazio a nostalgie indifendibili.
Tuttavia il confronto in atto esige anzitutto una radicale relativizzazione della laicità.
Per corrispondere alla istanza di separare poteri politici e poteri religiosi, quello della laicità non è affatto l'unico paradigma a disposizione, né l'unico che la modernità ci offra, e neppure l'unico che la modernità europea abbia elaborato e sperimentato. Possiamo infatti non dirci laici senza con ciò necessariamente fuoriuscire dallo spazio culturale e civile della modernità, anche nella sua versione europea.
La relativizzazione della laicità, la sua riduzione a una tra le possibilità a disposizione, comincia con il riconoscimento della reciproca eterogeneità tra il suo paradigma e quello della libertà religiosa. Laïcité e religious freedom rimandano a modi di separare poteri politici e poteri religiosi reciprocamente irriducibili. L'una non è un grado dell'altra, sono semplicemente due cose del tutto diverse. Rispettivamente, nella legge del 1905 - ma già nelle politiche ecclesiastiche della Rivoluzione Francese a partire dalla Constitution civile du clergé - e nel Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d'America (definitivamente approvato nel 1791) è possibile osservare con chiarezza che tra laïcité e religious freedom si manifestano differenze radicali. Una tale differenza, di specie e non di grado, permarrà nelle tradizioni culturali e nelle esperienze storiche che procederanno da quegli eventi e non sarà attenuata dal semplice ricorso a qualche aggettivo.
Innanzitutto la laïcité persegue la privatizzazione della religione mentre la religious freedom riconosce dignità pubblica alle istituzioni religiose. Nella laïcité il "muro di separazione" tra politica e religione corre lungo la linea tra spazio pubblico e spazio privato, confinando la religione entro quest'ultimo. Nel modello della religious freedom lo stesso "muro" corre attraverso lo spazio pubblico.
Anche in questo modo la laïcité si rivela organica a una idea "monarchica" di ordine sociale, realizzata dallo "Stato" come dominio della sola politica sull'intero spazio pubblico. Al contrario, la religious freedom si rivela organica a un'idea "poliarchica" di ordine sociale. Nello spazio pubblico operano diverse istituzioni (politiche, economiche, familiari, scientifiche, religiose, e così via) che reciprocamente si limitano e anche in questo modo servono la libertà e la responsabilità personale. Il Primo emendamento fa della separazione tra poteri politici e poteri religiosi e del riconoscimento della espressione pubblica delle fedi in parole, riti e opere la pietra angolare di questa idea di ordine sociale. Nella laïcité la libertà religiosa finisce con l'essere un caso particolare di altre libertà e innanzitutto della libertà di coscienza, mentre nella religious freedom, la libertà religiosa fonda e garantisce le altre libertà.
Ancora, la laïcité nasce e vive in un regime di civil law, in un contesto nel quale lo "Stato" (superiorem non recognoscens) esercita la propria sovranità anche sul diritto, riducendone il fondamento alla propria legge; al contrario la religious freedom nasce e viene costantemente amministrata in un regime che ha ancora tratti peculiari della common law e della non pura e semplice riduzione del diritto alla legge positiva.
Infine, ma si potrebbe continuare, la religion civile francese è una vera alternativa a ogni religione di chiesa, e in particolare al cristianesimo, mentre la civil religion americana no, restando semplice e non autonomo tessuto di valori condivisi espressione della sinergia di istituzioni di vario genere. La religion civile di Rousseau esprime un tratto arcaico - in fondo contraddittorio - che dal giacobinismo transiterà a tutti i totalitarismi del xx secolo. Lo "Stato" produce la religione di cui abbisogna per tenere unita e soggetta la società che controlla. La religion civile è religione della politica in senso soggettivo e oggettivo. Lo "Stato" nella laïcité esprime dei confronti della religione quello stesso atteggiamento di negazione della libertà e della multiformità del sociale (Compendio della dottrina sociale, 151) che nei confronti dell'economia esprime negando il mercato.
Negare la eterogeneità che sussiste tra i paradigmi della laicità e della libertà religiosa espone a gravi rischi.
Espone al rischio della ideologia in quanto semplificazione della realtà in funzione del mantenimento di un certo assetto sociale. Si tratta dello stesso rischio che torna ogni volta che dell'illuminismo si parla al singolare. Alla radice non vi è tanto la negazione del contributo del cristianesimo alla modernità, quanto l'occultamento del fatto che dal permanere di una dialettica tra cristianesimo e modernità dipende il primato nella modernità e nell'illuminismo dello spirito critico e autocritico sulle istanze razionalistiche.
Negare la eterogeneità di laicità e libertà religiosa espone al rischio di una pericolosa deformazione della coscienza europea. Questa non si può infatti accontentare neppure del riconoscimento della differenza tra modello americano e modello francese, ma esige che si riconosca la fonte più importante del Primo emendamento nella "gloriosa rivoluzione" inglese di fine Seicento. Il modello della libertà religiosa è "europeo" né più né meno di quello della laicità, la quale dunque non può pretendere esclusiva sulla identità e sulla modernità europea, né primogenitura di sorta.
Come le lezioni di giuristi quali Augusto Barbera e, ancor più, Giuseppe Dalla Torre ci insegnano, se si resta sensibili a tali differenze si può sfuggire al rischio di una forzata interpretazione "francese" della Costituzione italiana, cui probabilmente non è scampata del tutto neppure la famosa sentenza della Corte Costituzionale del 1989, la quale indicava nella laicità un principio costituzionale anche se nel testo del 1948 di quel modello erano assenti molti tratti essenziali oltre che il termine stesso.
Una adeguata relativizzazione della laïcité sarebbe di non poco aiuto anche per la coscienza ecclesiale e la ricerca teologica, al fine di evitare che, magari inavvertitamente, sia quel paradigma a orientare la riflessione sui "laici" e sulla Chiesa come Popolo di Dio. D'altro canto, relativizzare la laicità aiuta a comprendere anche il valore e lo spessore dell'orientamento di fondo in materia di rapporti tra politica e religione assunto dal Vaticano ii - in particolare nella Dignitatis humanae - e seguito dai Pontefici successivi, un orientamento per il paradigma della libertà religiosa.
Relativizzare la laicità può risultare utile ancor più in generale mentre affrontiamo le sfide nuove da cui dipende il futuro di tutti. Il modello della libertà religiosa ci aiuta a guardare oltre la stagione dello "Stato" e della sua sovranità e a ricercare assetti di governance "poliarchici" (Caritas in veritate, 57); con la cultura della laicità sopravvivono invece nostalgie per una stagione ormai chiusa e uno spirito di mera opposizione alle "nuove cose nuove".


(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010)

Thursday, April 29, 2010

il cuore di chi crede nella trascendenza della verità, davanti a cui tutti siamo accomunati nella povertà e nell'urgenza di obbedirle.

La libertà non si troverà nel cercare di addomesticare la verità ai propri interessi o nel farne un possesso e una clava da usare contro gli altri, ma in quell'atteggiamento di rispetto e di ascolto, che manifesta propriamente

Bruno Forte

"noi soffriamo per la pazienza di Dio. E non di meno abbiamo tutti bisogno della Sua pazienza".

Benedetto XVI

«La grandezza di uno spirito si misura dal grado di verità che è capace di sopportare»

LA PASQUA DEI CRISTIANI /Resurrezione significa verità
di Bruno Forte

4 aprile 2010

«Coraggio! Siate una commissione coraggiosa!». Fu con queste parole, accompagnate da un sorriso luminoso, che Giovanni Paolo II si congedò da noi, membri della Commissione teologica internazionale, presieduta dall'allora cardinale Ratzinger. L'invito si riferiva allo studio che avevamo in corso, e che fu poi pubblicato col titolo Memoria e riconciliazione, destinato ad accompagnare e motivare la richiesta di perdono per le colpe dei figli della Chiesa voluta dal Papa per il Giubileo del 2000. Il cardinale Ratzinger aveva affidato a me la presidenza del piccolo gruppo di lavoro che doveva stendere il testo: sono perciò testimone diretto non solo della grande libertà che ci lasciò nel fare le nostre scelte, ma anche della convinzione con cui sosteneva la linea del Papa nel riconoscere le colpe commesse dagli uomini di Chiesa affinché non si ripetessero mai più e fosse intrapreso con coraggio il cammino della riforma e della penitenza, anche come vicinanza solidale alle vittime e contributo alla ricerca della verità e della giustizia davanti a Dio e davanti agli uomini.

È perciò con un senso di dolore e con la percezione del compiersi di una profonda ingiustizia che ho assistito agli attacchi rivolti in questi giorni a Papa Benedetto XVI a partire dai Suoi interventi coraggiosi e chiari sul tema gravissimo degli atti di pedofilia commessi da alcuni ecclesiastici, nel passato spesso coperti da un velo di omertà. Si sa che la pedofilia è una piaga diffusa nella società in una percentuale ahimé ben più alta di quanto non lo sia fra religiosi: se da una parte è indubbio che ancor maggiore è la gravità e lo scandalo di simili comportamenti in chi ha responsabilità educative e gode di una fiducia diffusa, dall'altra non ci si può non chiedere dove si trovi nella società civile un comportamento pari per trasparenza e coraggio a quello tenuto dal Papa.

È da questa linea seguita con tenacia da Benedetto XVI, oggi nel suo servizio pontificale e già prima in quanto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che vorrei trarre un messaggio più generale, da proporre alla riflessione di tutti in questa Pasqua 2010. È il messaggio dell'importanza di credere nella forza della verità e di affidarsi ad essa senza tentennamenti, con una fiducia più grande di ogni prova.
Riassumerei il messaggio in tre proposizioni. La prima: «La grandezza di uno spirito si misura dal grado di verità che è capace di sopportare». In una società delle apparenze, dove la maschera troppe volte è preferita all'irradiarsi della verità, un simile principio suona come l'invito a misurarci tutti sulle esigenze del vero. Ciò che conta non è apparire, ma essere; non è l'"audience", ma la disponibilità a pagare anche il prezzo più alto per non rinnegare mai la verità e la giustizia, che da essa dipende.

Quanto c'è bisogno di spiriti grandi, in un contesto culturale dove la voce che grida di più o che occupa più spazi di ascolto pretende di presentarsi come la più affidabile! Dalla cultura dell'immagine e dal mercato del consenso è più che mai necessario tornare all'umile coraggio della verità. Alla lunga, a beneficiarne saremmo tutti, perché la politica si concentrerebbe finalmente sulla ricerca del bene comune e non sull'interesse di alcuni, il sapere si allargherebbe al senso del servizio da rendere a tutti e l'impegno sociale si rivolgerebbe veramente anzitutto verso i più deboli!

Questo stile di vita richiede però una convinzione profonda, espressa dal secondo principio che vorrei indicare: «La verità non ha bisogno di essere difesa, si difende da sé». Come dire: non preoccuparti di cercare ragioni o strumenti per imporre la verità; fidati di essa; obbediscile e confida nella forza che in essa abita e che prima o poi trionferà. Quanta libertà interiore ne verrebbe, specialmente a chi ha responsabilità per gli altri, se questo principio fosse osservato. Il comportamento di Papa Benedetto mi sembra in tal senso un esempio a cui poter guardare con fiducia.
La terza proposizione si collega direttamente a quest'ultima considerazione e può essere formulata riprendendo alcune parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «La verità vi farà liberi». La libertà non si troverà nel cercare di addomesticare la verità ai propri interessi o nel farne un possesso e una clava da usare contro gli altri, ma in quell'atteggiamento di rispetto e di ascolto, che manifesta propriamente il cuore di chi crede nella trascendenza della verità, davanti a cui tutti siamo accomunati nella povertà e nell'urgenza di obbedirle.

Pasqua vuol dire anche questo: come la vita vincerà la morte, così la verità l'avrà vinta su ogni calcolo e menzogna. Per chi crede, Cristo risorto è garanzia di questa vittoria. Lasciarsi liberare dalla forza della verità e giocare su di essa le proprie scelte è la via aperta a chiunque voglia lasciarsi illuminare dal Vangelo di Gesù. Ed è il modo più autentico per vivere la Pasqua. Ce lo assicura così l'apostolo Paolo: «Celebriamo la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1 Corinzi).
4 aprile 2010

Il sole 24 ore

Monday, April 19, 2010

Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI

Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI
Un libro esamina gli elementi fondamentali

di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 18 aprile 2010 (ZENIT.org).- Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.

Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.

Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.

L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.

Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.

Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.

Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.

A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.

Politica

Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.

Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.

Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.

Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.

Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.

La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.

Miti

D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.

Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.

Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.

Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.

Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.

Coscienza

Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.

È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.

La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.


Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.

La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.

“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.

Continuità

Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.

Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.

L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi.

Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI

Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI
Un libro esamina gli elementi fondamentali

di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 18 aprile 2010 (ZENIT.org).- Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.

Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.

Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.

L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.

Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.

Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.

Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.

A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.

Politica

Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.

Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.

Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.

Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.

Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.

La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.

Miti

D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.

Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.

Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.

Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.

Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.

Coscienza

Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.

È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.

La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.


Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.

La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.

“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.

Continuità

Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.

Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.

L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi.

Friday, April 16, 2010

una cosa deve essere vera se la si è letta sul giornale

Twain, guerra alle false notizie

«Tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». Questo è stato Mark Twain per un altro gigante della letteratura americana come Ernest Hemingway.

E quale migliore presentazione per commemorare i cento anni dalla morte di Twain, avvenuta il 21 aprile 1910. Una, nessuna, centomila vite, quelle del narratore-reporter avventuriero, dallo sguardo rapace, sempre pronto a cogliere e a rimettere in pagina ogni dettaglio per un racconto, ogni volto per una biografia, ogni fatto degno di un articolo o una semplice breve, della società del suo tempo. Un continuo rimescolamento della personalità, complessa, votato a diventare il personaggio più famoso dell’America in cui visse e in cui fece sentire forte le sue idee che andavano in direzione ostinata e contraria.

Un abisso di interessi e conoscenze che si rintracciano già nel suo pseudonimo "mark twain" (il suo vero nome era Samuel Langhorne Clemens), unità di misura della profondità di sicurezza delle «due tese» (3,7 metri), ben nota ai navigatori dei battelli che solcano il fiume Mississippi. Una delle tante esperienze di gioventù riposte nella valigia dello scrittore e rintracciabile nello splendido racconto Vita sul Mississippi. Ma prima era stato cercatore d’oro e minatore. E poi ancora giornalista e padre putativo della nobile famiglia degli inviati di razza.

Un viaggiatore instancabile che passando dall’Africa alla Francia sbarcò anche in Italia, come narra nel suo libro Gli innocenti all’estero. All’apice del successo giornalistico e letterario – alcuni dei suoi libri sfiorarono anche il mezzo milione di copie vendute – , arrivarono anche i lauti guadagni. Poi il lento affondare nel dolore dei lutti famigliari (la morte della moglie Olivia e delle figlie Susan e Jane) fino alla dissipazione totale che gli fece rasentare la miseria, dalla quale si salvò con l’appoggio di alcuni amici filantropi e il mestierato dell’abile conferenziere. Colpa di imprese editoriali sbagliate, come la biografia invenduta su Leone XIII, ma anche, con l’andare del tempo, per la perdita della vena morbida della sua narrativa che si faceva ancora leggere e ammirare in Tom Sawyer, altro caposaldo dell’educazione letteraria dei giovani americani di fine ’800. Di fondo, c’è da fare i conti con la realtà dell’onesto intellettuale, quindi molto scomodo in quell’America rampante e dalle tante libertà e nessuna davvero coltivata, dell’inizio del secolo scorso. Una nazione già devota alla mistificazione della verità che invece è stato il simulacro al quale Twain ha sacrificato tutta la sua esistenza.

La testimonianza più forte si ritrova in quel piccolo scrigno saggistico che è Libertà di stampa, sottotitolo: «I giornalisti onesti ci sono. Soltanto costano di più» (Piano B Edizioni). Un pamphlet di un’attualità sconvolgente, come gran parte degli scritti di Twain. Affondi politici irriverenti, a cominciare dal capitolo The war prayer, «Pregare in tempi di guerra», in cui nel 1905 Twain fa il quadro crudo del conflitto filippino-americano. Un testo rimasto inedito fino al 1923 e scampato al rogo insieme ad altri testi di ordine politico e religioso, compiuto per mano dei familiari dello scrittore che li consideravano lesivi. La sua pietistica assoluzione al gesto del parentato del resto l’aveva già messa in calce: «Un uomo non è indipendente, e non può permettersi di avere delle idee che potrebbero compromettere il modo in cui si guadagna il pane. Se vuole prosperare deve seguire la maggioranza… Altrimenti subirà danni alla sua posizione sociale e ai guadagni negli affari».

Pur avendo avuto tutto, grazie al mestiere di scrivere, ha sempre messo in guardia il suo lettore dalla stampa: «È ormai diventato un proverbio sarcastico sostenere che una cosa deve essere vera se la si è letta sul giornale. Questa è la sintesi dell’opinione che hanno le persone intelligenti a proposito di questo mezzo bugiardo. Ma il guaio è che gli stupidi che costituiscono la stragrande maggioranza di questa e di tutte le altre nazioni, ci credono davvero e sono formati e convinti da ciò che leggono sul giornale, ed è li che sta il danno». L’eroe della carta stampata, ormai anziano e in preda agli stenti, si ritrovò incartato dal "mostro" che aveva sempre combattuto: la mediocrità che indottrinava il popolo con la falsa informazione. «Una bugia detta bene è immortale», ammoniva, ed è quella che spesso partorisce il conformismo. «Conformarci è nella nostra natura. È una forza alla quale pochi riescono a resistere», scrive Twain. La vera resistenza per lui era dunque sfuggire al conformismo, ma la maggior parte del popolo è da sempre vittima dell’opinione pubblica. «Non facciamo altro che sentire, e l’abbiamo confuso col pensare. E da tutto ciò non si ottiene che un aggregato che consideriamo una benedizione. Il suo nome è Opinione Pubblica. Risolve tutto. Alcuni credono che sia la voce di Dio».

E invece nell’America di Twain, non era alto che il prodotto degradato di «un’orda di sempliciotti ignoranti e compiaciuti che hanno fallito come sterratori e calzolai, e che hanno intrapreso il giornalismo lungo il loro cammino verso l’ospizio per poveri». Il potere dei governanti ammaestra dunque il giornalismo e a sua volta chi informa può facilmente ammaestrare il popolo con messaggi preselezionati e deprivati della verità: «L’ammaestramento fa cose meravigliose… Può trasformare i cattivi principi in buoni e i buoni in cattivi; può annientare ogni principio e ricrearlo». Da giornalista e direttore dei quotidiani più strampalati del suo tempo, Twain stilava la sua temeraria accusa alla "casta": «Esistono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma nessuna che faccia qualcosa per proteggere le persone della stampa». Rileggendolo, viene da chiedersi con preoccupazione: quanto è cambiato lo scenario in questi cento anni prima del suo addio? «Sono arrivato con la cometa di Halley nel 1835. Torna l’anno prossimo e penso di andarmene con lei», fu la sua ultima profezia. E nella dimensione in cui si trova adesso, Twain non ci ha ancora inviato la smentita alla sua tesi finale sulla libertà di stampa: «Solo ai morti è permesso di dire la verità».

Massimiliano Castellani  (Avvenire 14 aprile)

Thursday, April 15, 2010

DNA e ambiente

Il Dna non svela i segreti della vita
Un fantasma nei geni


di Carlo Bellieni
La vita non è semplice e riducibile a nostri schemi. Ne è un esempio lo studio del Dna. Notizia recente è che chi pensava che il Progetto genoma svelasse il segreto della vita deve ricredersi: appena nata, la decifrazione del genoma umano come spiegazione della vita è già vecchia, tanto che l'agenzia scientifica "Nova" titola: Un fantasma nei tuoi geni per spiegare come un secondo genoma tutto ancora da scoprire agisca sul Dna.
L'ultimo numero della rivista della American Society for Cell Biology (aprile 2010) si dilunga su come insegnarlo al pubblico e nelle università; Eva Vermuza su "Menome" del 2003 già scriveva: "Come può una molecola composta di soli quattro elementi generare tanta complessità? La risposta semplice è che il Dna non lavora da solo". Non è fantascienza, ma epi-genetica: le informazioni del nostro Dna vengono cioè influenzate dall'ambiente che, attraverso un sistema di molecole interno alla cellula, agisce sopra (epi) il dna (genetica). E questo sistema di regolazione superiore agisce come un vero e proprio lettore per il Dna che risulta simile a un cd: pieno di musica ma inerte senza l'apparecchio che lo sa leggere. Dunque la sola decifrazione del genoma - certo ottima a fini terapeutici - è un passo ancora primordiale nella comprensione del funzionamento delle strutture biologiche. E Manel Esteller su "Lancet" del gennaio 2006 ha ben ragione di scrivere: "Noi non siamo i nostri geni. Non possiamo prendercela solo coi geni per il nostro comportamento o per la nostra suscettibilità alle malattie": la vita non è assimilabile e riducibile alla sequenza delle basi del Dna.
Insomma, chi crede di leggere il genoma e capire la vita si sbaglia di grosso: il numero di geni dei mammiferi è simile, ma diverso è il sistema superiore incaricato della lettura, legato alla genetica e all'ambiente. Per non parlare delle differenze morali. Scrive ancora Manel Esteller: "Uno dei risultati più sorprendenti del confronto dei genomi di varie specie animali è quanto simili essi siano. Il genoma del topo non differisce molto da quello dell'uomo. Come possiamo allora spiegare le differenze?". L'epigenetica, ovvero la supervisione dell'ambiente sul Dna, è un'introduzione a questa risposta: l'espressione della vita non dipende solo dal Dna, ma da come questo viene fatto parlare dall'ambiente, introducendo a un'armonia che supera la mera casualità.
Non stupisce quindi che gli studi sull'ereditarietà dei cambiamenti epigenetici, come quelli dell'americano Michael Skinner, direttore del Centre for Reproductive Biology a Washington, abbiano dei riflessi anche sul concetto di evoluzione, certamente tutti da valutare e soppesare con attenzione, ma che non possono essere sottaciuti, dato che appare che l'ambiente può inibire l'espressione di un gene - e non più solo selezionare mutazioni casuali dei geni stessi - e questa inibizione viene trasmessa alle generazioni successive. I cambiamenti fisici, dunque, non avverrebbero solo per mutazioni casuali del Dna, ma anche in seguito a inibizioni da parte dell'ambiente sull'espressione di alcuni geni. Didier Raoult sempre sulla rivista "Lancet" (gennaio 2010) spiega che addirittura il patrimonio genetico può nei secoli mutare per l'interazione con altre specie viventi.
Si apre così, indubbiamente, un nuovo scenario che lascia intravedere che non solo il caso governa lo sviluppo della vita, ma che esistono una collaborazione e un'interazione tra ambiente e genetica in cui l'ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore. "Gli ecosistemi si evolvono per co-evoluzione e auto-organizzazione", spiega il chimico Enzo Tiezzi, premio Prigogine 2005, nel suo Steps Towards an Evolutionary Physics (2006) indicando che l'evoluzione non è cieca, o perlomeno non è una folle corsa: "L'avventura dell'evoluzione biologica è un'avventura stocastica, dal greco, che significa, "mirare con la freccia al centro del bersaglio"": come le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell'arciere, così anche l'evoluzione appare avere un'armonia di base. "Purtroppo - spiega ancora Vermuza - tra gli evoluzionisti c'è un'aura di deificazione di Darwin, che tende a soffocare il dibattito". Questo anche se, come fa Matt Ridley sul "National Geographic" del febbraio 2009, si può riconoscere che, nonostante delle geniali intuizioni, "le idee di Darwin sul meccanismo dell'ereditarietà erano sbagliate e confuse". L'epigenetica offre una visione nuova dello sviluppo della vita sulla terra, che non suona più come una lotta per la sopravvivenza in base a mutazioni casuali, ma appare la possibilità di un'armonia in cui si nota sorprendentemente, invece di una spietata competizione, una possibile collaborazione.
Ma c'è un ultimo aspetto che l'epigenetica illumina: l'effetto dell'ambiente sul Dna può essere anche legato a un intervento umano. Dei ricercatori del Maryland su "Fertility and Sterility" del febbraio 2009 scrivono: "È stato chiaramente dimostrato che stimolazioni ovariche e manipolazioni dell'embrione associate con la Fiv (fecondazione in vitro) sono causa di disordini dell'imprinting genomico nell'animale. E la percentuale di malattia di Angelman o Beckwith-Wideman causate da difetti dell'imprinting genomico in bimbi nati da Fiv è molto maggiore che negli altri, rafforzando la nozione che la Fiv causi disordini dell'imprinting". Il Dna è fragile e in certi casi porta memoria di ciò che lo influenza, come è ben spiegato anche sulla rivista "Reproductive Health" (ottobre 2004): "Una potenziale alterazione dell'imprinting genomico potrebbe risultare dalla manipolazione dell'embrione nelle prime fasi". Questo non significa un'equazione tra manipolazione e malattia, anche perché queste malattie sono rarissime e gli studi vanno approfonditi, ma mostra una necessità di cautela: tanta delicatezza merita davvero un surplus di rispetto.

L'Osservatore Romano 14 aprile 2010

Tuesday, April 13, 2010

Journalists abandon standards to attack the Pope

Journalists abandon standards to attack the Pope
RSS Facebook By Phil Lawler | April 10, 2010 10:03 AM

We're off and running once again, with another completely phony story that purports to implicate Pope Benedict XVI in the protection of abusive priests.

The "exclusive" story released by AP yesterday, which has been dutifully passed along now by scores of major media outlets, would never have seen the light of day if normal journalistic standards had been in place. Careful editors should have asked a series of probing questions, and in every case the answer to those questions would have shown that the story had no "legs."

First to repeat the bare-bones version of the story: in November 1985, then-Cardinal Ratzinger signed a letter deferring a decision on the laicization of Father Stephen Kiesle, a California priest who had been accused of molesting boys.

Now the key questions:

• Was Cardinal Ratzinger responding to the complaints of priestly pedophilia? No. The Congregation for the Doctrine of the Faith, which the future Pontiff headed, did not have jurisdiction for pedophile priests until 2001. The cardinal was weighing a request for laicization of Kiesle.

• Had Oakland's Bishop John Cummins sought to laicize Kiesle as punishment for his misconduct? No. Kiesle himself asked to be released from the priesthood. The bishop supported the wayward priest's application.

• Was the request for laicization denied? No. Eventually, in 1987, the Vatican approved Kiesle's dismissal from the priesthood.

• Did Kiesle abuse children again before he was laicized? To the best of our knowledge, No. The next complaints against him arose in 2002: 15 years after he was dismissed from the priesthood.

• Did Cardinal Ratzinger's reluctance to make a quick decision mean that Kiesle remained in active ministry? No. Bishop Cummins had the authority to suspend the predator-priest, and in fact he had placed him on an extended leave of absence long before the application for laicization was entered.

• Would quicker laicization have protected children in California? No. Cardinal Ratzinger did not have the power to put Kiesle behind bars. If Kiesle had been defrocked in 1985 instead of 1987, he would have remained at large, thanks to a light sentence from the California courts. As things stood, he remained at large. He was not engaged in parish ministry and had no special access to children.

• Did the Vatican cover up evidence of Kiesle's predatory behavior? No. The civil courts of California destroyed that evidence after the priest completed a sentence of probation-- before the case ever reached Rome.

So to review: This was not a case in which a bishop wanted to discipline his priest and the Vatican official demurred. This was not a case in which a priest remained active in ministry, and the Vatican did nothing to protect the children under his pastoral care. This was not a case in which the Vatican covered up evidence of a priest's misconduct. This was a case in which a priest asked to be released from his vows, and the Vatican-- which had been flooded by such requests throughout the 1970s -- wanted to consider all such cases carefully. In short, if you're looking for evidence of a sex-abuse crisis in the Catholic Church, this case is irrelevant.

We Americans know what a sex-abuse crisis looks like. The scandal erupts when evidence emerges that bishops have protected abusive priests, kept them active in parish assignments, covered up evidence of the charges against them, and lied to their people. There is no such evidence in this or any other case involving Pope Benedict XVI.

Competent reporters, when dealing with a story that involves special expertise, seek information from experts in that field. Capable journalists following this story should have sought out canon lawyers to explain the 1985 document-- not merely relied on the highly biased testimony of civil lawyers who have lodged multiple suits against the Church. If they had understood the case, objective reporters would have recognized that they had no story. But in this case, reporters for the major media outlets are far from objective.

The New York Times-- which touched off this feeding frenzy with two error-riddled front-page reports-- seized on the latest "scoop" by AP to say that the 1985 document exemplified:

…the sort of delay that is fueling a renewed sexual abuse scandal in the church that has focused on whether the future pope moved quickly enough to remove known pedophiles from the priesthood, despite pleas from American bishops.

Here we have a complete rewriting of history. Earlier in this decade, American newspapers exposed the sad truth that many American bishops had kept pedophile priests in active ministry. Now the Times, which played an active role in exposing that scandal, would have us believe that the American bishops were striving to rid the priesthood of the predators, and the Vatican resisted!

No, what is "fueling a renewed sexual abuse scandal" is a media frenzy. There is a scandal here, indeed, but it's not the scandal you're reading about in the mass media. The scandal is the complete collapse of journalistic standards in the handling of this story.

http://www.catholicculture.org/commentary/otn.cfm?id=632

# Posted by: wolfdavef3415 - Apr. 10, 2010 12:15 PM ET USA

The headline should read 'Society Abandons Standards to Attack Pope'.

Saturday, April 03, 2010

The Catholic Church's Catastrophe

http://online.wsj.com/article/declarations.html

By PEGGY NOONAN

In both the U.S. and Europe, the scandal was dug up and made famous by the press. This has aroused resentment among church leaders, who this week accused journalists of spreading "gossip," of going into "attack mode" and showing "bias."

But this is not true, or to the degree it is true, it is irrelevant. All sorts of people have all sorts of motives, but the fact is that the press—the journalistic establishment in the U.S. and Europe—has been the best friend of the Catholic Church on this issue. Let me repeat that: The press has been the best friend of the Catholic Church on the scandals because it exposed the story and made the church face it. The press forced the church to admit, confront and attempt to redress what had happened. The press forced them to confess. The press forced the church to change the old regime and begin to come to terms with the abusers. The church shouldn't be saying j'accuse but thank you.

Without this pressure—without the famous 2002 Boston Globe Spotlight series with its monumental detailing of the sex abuse scandals in just one state, Massachusetts—the church would most likely have continued to do what it has done for half a century, which is look away, hush up, pay off and transfer.


In fact, the press came late to the story. The mainstream media almost had to be dragged to it. It was there waiting to be told at least by the 1990s, but broadcast news shows and big newspapers weren't keen to go after it. It would take months or years to report and consume huge amounts of labor, time and money—endless digging through court records, locating victims and victimizers, getting people who don't want to talk to talk. And after all that, the payoff could be predicted: You'd get slammed by the church as biased, criticized by sincerely disbelieving churchgoers, and maybe get a boycott from a few million Catholics. No one wanted that.

An irony: Non-Catholic members of the media were, in my observation, the least likely to want to go after the story, because they didn't want to look like they were Catholic-bashing. An irony within the irony: Some journalists didn't think to go after the story because they really didn't much like the Catholic Church. Because of this bias, they didn't see the story as a story. They thought this was how the church always operated. It didn't register with them that it was a scandal. They didn't know it was news.

It was the Boston Globe that broke the dam, winning a justly deserved Pulitzer Prize for public service.

Some blame the scandals on Pope Benedict XVI. But Joseph Ratzinger is the man who, weeks before his accession to the papacy five years ago, spoke blisteringly on Good Friday of the "filth" in the church. Days later on the streets of Rome, the Italian newspaper La Stampa reported, Cardinal Ratzinger bumped into a curial monsignor who chided him for his sharp words. The cardinal replied, "You weren't born yesterday, you understand what I'm talking about, you know what it means. We priests. We priests!" The most reliable commentary on Pope Benedict's role in the scandals came from John Allen of the National Catholic Reporter, who argues that once Benedict came to fully understand the scope of the crisis, in 2003, he made the church's first real progress toward coming to grips with it.