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Saturday, May 05, 2018
Monday, July 06, 2015
Musica e verità
Musica e verità
Il grazie di Benedetto XVI a due atenei di Cracovia
Sono cresciuto nel salisburghese, segnato dalla grande tradizione di questa città. Qui andava da sé che le messe festive accompagnate dal coro e dall’orchestra fossero parte integrante della nostra esperienza della fede nella celebrazione della liturgia.
Rimane indelebilmente impresso nella mia memoria come, ad esempio, non appena risuonavano le prime note della Messa
dell’i n c o ro n a z i o n e di Mozart, il cielo quasi si aprisse e si sperimentasse molto profondamente la presenza del Signore. Accanto questo, tuttavia, era comunque già presente anche la nuova realtà del Movimento liturgico, soprattutto tramite uno dei nostri cappellani che più tardi divenne vice-reggente e poi rettore del Seminario maggiore di Frisinga.
Durante i miei studi a Monaco di Baviera, poi, molto concretamente sono sempre più entrato all’interno del Movimento liturgico attraverso le lezioni del professor Pascher, uno dei più significativi esperti del Concilio in materia liturgica, e soprattutto attraverso la vita liturgica nella comunità del seminario. Così a poco a poco divenne percepibile la tensione fra la participatio actuosa conforme alla liturgia e la musica solenne che avvolgeva l’azione sacra, anche se non la avvertii ancora così forte. Nella Costituzione sulla liturgia del concilio Vaticano II è scritto molto chiaramente:
«Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra» (114). D’altro canto il testo evidenzia, quale categoria liturgica fondamentale, la actuosa di tutti i fedeli all’azione sacra.
Quel che nella Costituzione sta ancora pacificamente insieme, successivamente, nella recezione del Concilio, è stato sovente in un rapporto di drammatica tensione.
Ambienti significativi del Movimento liturgico ritenevano che, per le grandi opere corali e financo per le messe per orchestra, in futuro ci sarebbe stato spazio solo nelle sale da concerto, non nella liturgia. Qui ci sarebbe potuto esser posto solo per il canto e la preghiera comune dei fedeli. D’altra parte c’era sgomento per l’impoverimento culturale della Chiesa che da questo sarebbe necessariamente scaturito. In che modo conciliare le due cose? Come attuare il Concilio nella sua interezza? Queste erano le domande che si imponevano a me e a molti altri fedeli, a gente semplice non meno
che a persone in possesso di una formazione teologica.
A questo punto forse è giusto porre la domanda di fondo: Che cos’è in realtà la musica? Da dove viene e a cosa tende?
Penso si possano localizzare tre “luoghi”da cui scaturisce la musica. Una sua prima scaturigine è l’esp erienza
dell’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore, si schiuse loro un’altra dimensione dell’essere, una nuova grandezza e ampiezza della realtà. Ed essa spinse anche a esprimersi in modo nuovo.
La poesia, il canto e la musica in genere sono nati da questo essere colpiti, da questo schiudersi di una nuova dimensione
della vita. Una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza, l’e s s e re toccati dalla morte, dal dolore e dagli abissi dell’esistenza. Anche in questo caso si schiudono, in direzione opposta, nuove dimensioni della realtà che non possono più trovare risposta nei soli discorsi.
Infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano. A maggior ragione è qui che è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi. Forse è possibile affermare che in realtà anche negli altri due ambiti —
l’amore e la morte — il mistero divino ci tocca e, in questo senso, è l’essere toccati da Dio che complessivamente costituisce l’origine della musica. Trovo commovente osservare come ad esempio nei Salmi agli uomini non basti più neanche il canto, e si fa appello a tutti gli strumenti: viene risvegliata la musica nascosta della creazione, il
suo linguaggio misterioso. Con il Salterio, nel quale operano anche i due motivi dell’amore e della morte, ci troviamo direttamente all’origine della musica della Chiesa di Dio. Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa.
A questo punto vorrei esprimere un pensiero che negli ultimi tempi mi ha preso sempre più, tanto più quanto le diverse
culture e religioni entrano in relazione fra loro. Nell’ambito delle più diverse culture e religioni è presente una grande letteratura, una grande architettura, una grande pittura e grandi sculture. E ovunque c’è anche la musica. E tuttavia in nessun altro ambito culturale c’è una musica di grandezza pari a quella nata nell’ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Händel, sino a Mozart, Beethoven e B ru c k ner. La musica occidentale è qualcosa
di unico, che non ha eguali nelle altre culture. Questo ci deve far pensare.
Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua sor-
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Honoris causa
Il 4 luglio a Castel Gandolfo il Papa emerito ha ricevuto il dottorato honoris causa da parte della Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia e dell’Accademia di Musica della stessa città. Facendo eccezione alla sua scelta di non ricevere onorificenze, Benedetto XVI ha accettato la proposta avanzata il 1° gennaio 2015 — dai rettori dei due atenei e dal cardinale Stanisław Dziwisz, metropolita di Cracovia e cancelliere dell’Università — come atto di omaggio a Giovanni Paolo II. Pubblichiamo quasi per intero il ringraziamento del Pontefice emerito.
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gente più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio. In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Gesù Cristo.
Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del Cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto l’incontro con la Verità, con il vero Creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è però anche chiaro che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla celebrazione sacra, al mistero della fede.
Se pensiamo alla liturgia celebrata da san Giovanni Paolo II in ogni continente, vediamo tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico; e vediamo anche come la grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa e in questo modo contribuisca sempre di
nuovo a darle forma. Non conosciamo il futuro della nostra cultura e della musica sacra. Ma una cosa è chiara: dove realmente avviene l’incontro con il Dio vivente che in Cristo viene verso di noi, lì nasce e cresce nuovamente anche la risposta, la cui bellezza proviene dalla verità stessa.
Tuesday, March 04, 2014
La Città di Dio. L'eredità di Benedetto XVI
La Città di Dio. L'eredità di Benedetto XVI
di Stefano Fontana
03-03-2014 AA+A++
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Il 28 febbraio di un anno fa, alle ore 20,00, Benedetto XVI lasciava il Pontificato. Con ciò egli apriva il periodo della "vacanza" in vista della elezione del nuovo Pontefice e nello stesso tempo, uscendo di scena, ci lasciava una sua eredità. Ad un anno di distanza questa eredità risulta ancora molto preziosa. Di una parte di essa, quella relativa alla dottrina sociale, mi sono occupato nel libro Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Il posto di Dio nel mondo. Potere politica legge (Cantagalli 2014) e curando il fascicolo monografico del Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa avente lo stesso titolo e in distribuzione in questi giorni.
Il lascito di Benedetto XVI riguarda meno i singoli temi di un'agenda sociale, quanto piuttosto la grande architettura del rapporto tra religione cristiana e costruzione della società umana. La grande lezione di Regensburg del 12 settembre 2006, pur essendo formalmente dedicata ad altro, contiene già tutto l'impianto del rapporto tra verità della fede cattolica e verità della politica: esiste una coesione del cosmo della ragione, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio, il cristianesimo si collega originariamente con la ragione che non aveva tacitato la domanda su Dio e non con le religioni del mito, l'età moderna ha prodotto una separazione tra fede e ragione che ha indebolito e quasi annientato anche la stessa ragione.
Questo grandioso quadro, che Joseph Ratzinger nella sua lunga vita di teologo e di Pontefice ha approfondito e analizzato in tutte le possibile dimensioni, è applicabile anche al rapporto tra la ragione pubblica e la fede cristiana. Quando la ragione pubblica rifiuta Dio è perché ha tacitato la propria domanda sulla verità, cessando di essere pienamente ragione. Così facendo, però, la ragione pubblica non si rende neutra ed autonoma da Dio, ma, dato questo peccato di superbia, diventa essa stessa Dio. Ecco la dittatura del relativismo.
L'unico tema sociale che stava veramente a cuore a Ratzinger era quello del posto di Dio nel mondo. Come riaprire un posto di Dio nel mondo dopo che il mondo aveva espulso Dio dalla pubblica piazza? Da qui la strenua rivendicazione del ruolo pubblico della fede cattolica, soprattutto nella difesa del creato, dell'ecologia umana e dei principi non negoziabili. Questo poteva avvenire se la fede si fosse incontrata con quanti pensavano ancora che la ragione fosse capace di verità pubblica e che lo spazio pubblico fosse ancora lo spazio della verità e non solo delle opinioni. Il dialogo tra cattolici e laici egli lo pensava così. L'estenuazione della ragione produce mostri perché gli uomini si trovano davanti a scelte drammatiche guidati solo dalla dittatura del relativismo. La fede nel Logos poteva ridare fiato alla ragione e con essa instaurare il dialogo perduto.
Ecco perché, secondo Benedetto XVI, il terreno decisivo sarebbe stata l'Europa o, se vogliamo, l'Occidente. È stato proprio qui, infatti, che per la prima volta si è sviluppata una cultura che non nasce dalla religione ma dalla negazione di Dio. Qui, per la prima ed unica volta, la ragione non solo si è staccata dalla religione ma lo ha fatto assolutizzando dapprima se stessa e poi, alla fine, distruggendosi. Senza la fede in Dio, la ragione rimane priva di fede in se stessa e allora la vita politica è solo terreno per gli interessi o per lo scorazzare dell'"io e delle sue voglie". Proprio perché tutto è avvenuto qui e da qui poi si è esteso alle periferie continentali, da qui si doveva ricominciare. Solo se la fede, come Risposta, avesse nuovamente suscitato nella ragione la meraviglia per le domande essenziali, ontologiche e metafisiche, la relazione tra ragione e fede nella pubblica piazza si sarebbe potuta ricucire. Il problema di fondo non è tanto pastorale o esistenziale, quanto teologico, culturale, dottrinale.
"Non esiste un ambito delle questioni terrene sottratto a Dio creatore e al suo potere" aveva detto Benedetto XVI ai vescovi americani il 19 gennaio 2012, facendo dipendere da questa convinzione la natura e la modalità della stessa nuova evangelizzazione. Tale centralità di Dio non ha smesso di essere vera anche nel contesto della democrazia e del pluralismo. La religione vera interpella tutta la verità umana e le chiede di essere fino in fondo se stessa in tutte le sue dimensioni, compresa la dimensione della ragione pubblica. La religione vera non accetterà mai di essere trasformata in mito, soggettivo e consolatorio, e privata della sua propria missione di proclamare la signoria di Dio creatore e redentore anche nella costruzione della casa degli uomini. Il superamento storico di forme confessionali di organizzazione politica nulla toglie al principio che le persone e le società hanno un dovere verso l'unica religione di Cristo, dal quale dipende anche la loro stessa felicità umana.
Ratzinger ha molto amato Agostino, anche se ci sono molti indizi di un amore non meno forte per Tommaso. E Agostino non solamente distingue tra città di Dio e città dell'uomo, che molti interpretano come la negazione della centralità di Dio anche per la città dell'uomo, ma, come ebbe a scrivere Etienne Gilson, "Quel che resta vero nel modo più rigido ed assoluto è che in nessun caso la città terrena, e meno ancora la città di Dio, possono essere confuse con una forma di Stato qualsiasi, ma che lo Stato possa e debba perfino essere eventualmente utilizzato per i fini propri della Chiesa e, mediante essa, per la Città di Dio, è una questione totalmente diversa ed un punto sul quale Agostino non avrebbe nulla da obiettare". E io credo nemmeno Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
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di Stefano Fontana
03-03-2014 AA+A++
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Il 28 febbraio di un anno fa, alle ore 20,00, Benedetto XVI lasciava il Pontificato. Con ciò egli apriva il periodo della "vacanza" in vista della elezione del nuovo Pontefice e nello stesso tempo, uscendo di scena, ci lasciava una sua eredità. Ad un anno di distanza questa eredità risulta ancora molto preziosa. Di una parte di essa, quella relativa alla dottrina sociale, mi sono occupato nel libro Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Il posto di Dio nel mondo. Potere politica legge (Cantagalli 2014) e curando il fascicolo monografico del Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa avente lo stesso titolo e in distribuzione in questi giorni.
Il lascito di Benedetto XVI riguarda meno i singoli temi di un'agenda sociale, quanto piuttosto la grande architettura del rapporto tra religione cristiana e costruzione della società umana. La grande lezione di Regensburg del 12 settembre 2006, pur essendo formalmente dedicata ad altro, contiene già tutto l'impianto del rapporto tra verità della fede cattolica e verità della politica: esiste una coesione del cosmo della ragione, non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio, il cristianesimo si collega originariamente con la ragione che non aveva tacitato la domanda su Dio e non con le religioni del mito, l'età moderna ha prodotto una separazione tra fede e ragione che ha indebolito e quasi annientato anche la stessa ragione.
Questo grandioso quadro, che Joseph Ratzinger nella sua lunga vita di teologo e di Pontefice ha approfondito e analizzato in tutte le possibile dimensioni, è applicabile anche al rapporto tra la ragione pubblica e la fede cristiana. Quando la ragione pubblica rifiuta Dio è perché ha tacitato la propria domanda sulla verità, cessando di essere pienamente ragione. Così facendo, però, la ragione pubblica non si rende neutra ed autonoma da Dio, ma, dato questo peccato di superbia, diventa essa stessa Dio. Ecco la dittatura del relativismo.
L'unico tema sociale che stava veramente a cuore a Ratzinger era quello del posto di Dio nel mondo. Come riaprire un posto di Dio nel mondo dopo che il mondo aveva espulso Dio dalla pubblica piazza? Da qui la strenua rivendicazione del ruolo pubblico della fede cattolica, soprattutto nella difesa del creato, dell'ecologia umana e dei principi non negoziabili. Questo poteva avvenire se la fede si fosse incontrata con quanti pensavano ancora che la ragione fosse capace di verità pubblica e che lo spazio pubblico fosse ancora lo spazio della verità e non solo delle opinioni. Il dialogo tra cattolici e laici egli lo pensava così. L'estenuazione della ragione produce mostri perché gli uomini si trovano davanti a scelte drammatiche guidati solo dalla dittatura del relativismo. La fede nel Logos poteva ridare fiato alla ragione e con essa instaurare il dialogo perduto.
Ecco perché, secondo Benedetto XVI, il terreno decisivo sarebbe stata l'Europa o, se vogliamo, l'Occidente. È stato proprio qui, infatti, che per la prima volta si è sviluppata una cultura che non nasce dalla religione ma dalla negazione di Dio. Qui, per la prima ed unica volta, la ragione non solo si è staccata dalla religione ma lo ha fatto assolutizzando dapprima se stessa e poi, alla fine, distruggendosi. Senza la fede in Dio, la ragione rimane priva di fede in se stessa e allora la vita politica è solo terreno per gli interessi o per lo scorazzare dell'"io e delle sue voglie". Proprio perché tutto è avvenuto qui e da qui poi si è esteso alle periferie continentali, da qui si doveva ricominciare. Solo se la fede, come Risposta, avesse nuovamente suscitato nella ragione la meraviglia per le domande essenziali, ontologiche e metafisiche, la relazione tra ragione e fede nella pubblica piazza si sarebbe potuta ricucire. Il problema di fondo non è tanto pastorale o esistenziale, quanto teologico, culturale, dottrinale.
"Non esiste un ambito delle questioni terrene sottratto a Dio creatore e al suo potere" aveva detto Benedetto XVI ai vescovi americani il 19 gennaio 2012, facendo dipendere da questa convinzione la natura e la modalità della stessa nuova evangelizzazione. Tale centralità di Dio non ha smesso di essere vera anche nel contesto della democrazia e del pluralismo. La religione vera interpella tutta la verità umana e le chiede di essere fino in fondo se stessa in tutte le sue dimensioni, compresa la dimensione della ragione pubblica. La religione vera non accetterà mai di essere trasformata in mito, soggettivo e consolatorio, e privata della sua propria missione di proclamare la signoria di Dio creatore e redentore anche nella costruzione della casa degli uomini. Il superamento storico di forme confessionali di organizzazione politica nulla toglie al principio che le persone e le società hanno un dovere verso l'unica religione di Cristo, dal quale dipende anche la loro stessa felicità umana.
Ratzinger ha molto amato Agostino, anche se ci sono molti indizi di un amore non meno forte per Tommaso. E Agostino non solamente distingue tra città di Dio e città dell'uomo, che molti interpretano come la negazione della centralità di Dio anche per la città dell'uomo, ma, come ebbe a scrivere Etienne Gilson, "Quel che resta vero nel modo più rigido ed assoluto è che in nessun caso la città terrena, e meno ancora la città di Dio, possono essere confuse con una forma di Stato qualsiasi, ma che lo Stato possa e debba perfino essere eventualmente utilizzato per i fini propri della Chiesa e, mediante essa, per la Città di Dio, è una questione totalmente diversa ed un punto sul quale Agostino non avrebbe nulla da obiettare". E io credo nemmeno Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
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Wednesday, February 12, 2014
L’attimo in cui furono divise le acque
L’attimo in cui furono divise le acque
mercoledì 12 febbraio 2014 L’OSSERVATORE ROMANO
Pubblichiamo l’editoriale apparso su «Avvenire» dell’11 febbraio.
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di PIERANGELO SEQUERI
Quell’attimo da brivido, che sembrò asciugare il tempo, durò davvero un attimo. Il popolo di Dio — dobbiamo dirlo — fu il primo a riaversi. Intanto che i dottori discutevano, nel tempio e fuori del tempio, il senso della fede incominciò a far circolare un’aura di rispetto, di ammirazione, di comprensione e di riconoscenza, così spontanea e avvolgente, che anche i dottori smisero di agitarsi e incominciarono a riflettere. Per un attimo, la sobria compostezza dell’annuncio non ci era apparsa come il chiaro segno della sua meditata ispirazione: prima patita, poi accolta e infine risolta nella pacificazione dello Spirito. Per un attimo, l’umiltà del gesto ci ha sgomentati — e persino mortificati — come fosse un’umiliazione del ministero petrino, invece che l’esaltazione della sua integra restituzione alla Chiesa che il Signore guida. Per un attimo, la serena determinazione di quell’atto estremo — atto di magistero e di ministero del Papa pur esso, non dimentichiamolo — ci è apparso come un gesto di umana e comprensibile liberazione dai pesi. Invece, era l’i m p revedibile audacia della libertà cristiana; la quale riprende interamente su di sé, per non gravarla sul ministero ecclesiale, la fragilità del vaso di creta in cui tutti portiamo il mistero.
Nella realtà, uno scenario di altissima tensione, polarizzato intorno alla casa di Pietro, veniva improvvisamente contrastato e persino stravolto — da un ultimo appello di Pietro alla Chiesa intera.
La sua potenza drammatica era tutta nello scarto fra i toni e il gesto. Le parole erano miti e minime, sull’orlo del silenzio che ne sarebbe seguito. Il gesto sollevava la montagna e le intimava di gettarsi nel mare.
L’audacia impensata del gesto profetico di Papa Benedetto XVI consegnava apertamente alla Chiesa la testimonianza della durezza e dell’urgenza di un’ora che non poteva più essere rimandata.
La Chiesa non può più limitarsi a custodire se stessa, al riparo dal vento e dal fuoco di Dio. Intanto, l’affettuoso minimalismo del congedo, che si disponeva a onorare la continuità della sua intercessione nella forma di una presenza trasfigurata e discreta, incominciava a rischiarare le ombre con la serenità dei suoi modi. E inaugurava, proprio così, l’inedita continuazione “monastica” del ministero di un Papa “emerito”: pura presenza testimoniale e invisibile intercessione orante. Ministero della conferma della fede che si prolunga spiritualmente, e senza interferenza alcuna, con altri mezzi. Mediazione nascosta, certo, ma anche — e da subito — fedeltà di una presenza che toglie ogni pretesto per gli ingenerosi moralismi dei grilli parlanti. Il servitore dei servi della Chiesa
non fugge. Si ritrae, quando il Signore chiama, per spianare la strada — in perfetta obbedienza — a colui che il Signore ha destinato alla successione di Pietro.
Nella luce dell’integrità che il gesto ha conservato, e dell’esuberanza di eventi che n’è seguita, la sua ispirazione ci persuade, ogni giorno che passa, della portata storica e teologica del suo carisma e della sua promessa.
Abbiamo imparato qualcosa, sul ministero petrino nella Chiesa, che forse avevamo dimenticato.
In quanto eredità personalmente consegnata dal Signore, per l’edificazione della Chiesa, il ministero di Pietro non è proprietà identitaria, ma bene comune.
Non lo si occupa come padroni, ma come servitori. In quel gesto, che ha riaperto la storia alla Chiesa, abbiamo imparato qualcosa anche sul Papa Benedetto XVI, che ancora non avevamo capito.
(E chi ha orecchie per intendere, ha occhi per vedere, adesso).
Da quell’attimo, in cui furono divise le acque, è già passato un intero anno. La potenza di quel gesto, che ha sfidato, per amore della Chiesa, l’i n c o m p re n s i o n e mondana dei sapienti e degli intelligenti, ha miracolosamente rischiarato la strada per il popolo di Dio che stava fra le ombre.
Ma non ha mancato di colpire — almeno per un attimo — lo sguardo smaliziato e incredulo dei potenti della terra, che si sono sentiti tanto meno agili nello slancio e nel rinnovamento.
Un mite e colto sacerdote bavarese, dopo aver istruito e confermato anche da Papa la fede della Chiesa fra le acque, ha suonato infine, con il suo congedo dal ministero supremo, la campana del risveglio per la Chiesa del terzo millennio. Il suo rintocco è risuonato come un colpo di maglio per ogni requisizione proprietaria del ministero ecclesiale, madre di tutte le sue corruzioni:
dell’autorità nel privilegio, del mistero nell’intrigo, del carisma nella carriera. In un lampo di silenzio attonito, durato circa mezz’ora, il fondamentalismo religioso e la condiscendenza mondana, che insidiano gli aspiranti leader della comunità, nella Chiesa, si sono scoperti nudi e vuoti di legittimazione. Ora tocca davvero al popolo di Dio, e ai suoi capi, muoversi all’altezza di
quel gesto.
mercoledì 12 febbraio 2014 L’OSSERVATORE ROMANO
Pubblichiamo l’editoriale apparso su «Avvenire» dell’11 febbraio.
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di PIERANGELO SEQUERI
Quell’attimo da brivido, che sembrò asciugare il tempo, durò davvero un attimo. Il popolo di Dio — dobbiamo dirlo — fu il primo a riaversi. Intanto che i dottori discutevano, nel tempio e fuori del tempio, il senso della fede incominciò a far circolare un’aura di rispetto, di ammirazione, di comprensione e di riconoscenza, così spontanea e avvolgente, che anche i dottori smisero di agitarsi e incominciarono a riflettere. Per un attimo, la sobria compostezza dell’annuncio non ci era apparsa come il chiaro segno della sua meditata ispirazione: prima patita, poi accolta e infine risolta nella pacificazione dello Spirito. Per un attimo, l’umiltà del gesto ci ha sgomentati — e persino mortificati — come fosse un’umiliazione del ministero petrino, invece che l’esaltazione della sua integra restituzione alla Chiesa che il Signore guida. Per un attimo, la serena determinazione di quell’atto estremo — atto di magistero e di ministero del Papa pur esso, non dimentichiamolo — ci è apparso come un gesto di umana e comprensibile liberazione dai pesi. Invece, era l’i m p revedibile audacia della libertà cristiana; la quale riprende interamente su di sé, per non gravarla sul ministero ecclesiale, la fragilità del vaso di creta in cui tutti portiamo il mistero.
Nella realtà, uno scenario di altissima tensione, polarizzato intorno alla casa di Pietro, veniva improvvisamente contrastato e persino stravolto — da un ultimo appello di Pietro alla Chiesa intera.
La sua potenza drammatica era tutta nello scarto fra i toni e il gesto. Le parole erano miti e minime, sull’orlo del silenzio che ne sarebbe seguito. Il gesto sollevava la montagna e le intimava di gettarsi nel mare.
L’audacia impensata del gesto profetico di Papa Benedetto XVI consegnava apertamente alla Chiesa la testimonianza della durezza e dell’urgenza di un’ora che non poteva più essere rimandata.
La Chiesa non può più limitarsi a custodire se stessa, al riparo dal vento e dal fuoco di Dio. Intanto, l’affettuoso minimalismo del congedo, che si disponeva a onorare la continuità della sua intercessione nella forma di una presenza trasfigurata e discreta, incominciava a rischiarare le ombre con la serenità dei suoi modi. E inaugurava, proprio così, l’inedita continuazione “monastica” del ministero di un Papa “emerito”: pura presenza testimoniale e invisibile intercessione orante. Ministero della conferma della fede che si prolunga spiritualmente, e senza interferenza alcuna, con altri mezzi. Mediazione nascosta, certo, ma anche — e da subito — fedeltà di una presenza che toglie ogni pretesto per gli ingenerosi moralismi dei grilli parlanti. Il servitore dei servi della Chiesa
non fugge. Si ritrae, quando il Signore chiama, per spianare la strada — in perfetta obbedienza — a colui che il Signore ha destinato alla successione di Pietro.
Nella luce dell’integrità che il gesto ha conservato, e dell’esuberanza di eventi che n’è seguita, la sua ispirazione ci persuade, ogni giorno che passa, della portata storica e teologica del suo carisma e della sua promessa.
Abbiamo imparato qualcosa, sul ministero petrino nella Chiesa, che forse avevamo dimenticato.
In quanto eredità personalmente consegnata dal Signore, per l’edificazione della Chiesa, il ministero di Pietro non è proprietà identitaria, ma bene comune.
Non lo si occupa come padroni, ma come servitori. In quel gesto, che ha riaperto la storia alla Chiesa, abbiamo imparato qualcosa anche sul Papa Benedetto XVI, che ancora non avevamo capito.
(E chi ha orecchie per intendere, ha occhi per vedere, adesso).
Da quell’attimo, in cui furono divise le acque, è già passato un intero anno. La potenza di quel gesto, che ha sfidato, per amore della Chiesa, l’i n c o m p re n s i o n e mondana dei sapienti e degli intelligenti, ha miracolosamente rischiarato la strada per il popolo di Dio che stava fra le ombre.
Ma non ha mancato di colpire — almeno per un attimo — lo sguardo smaliziato e incredulo dei potenti della terra, che si sono sentiti tanto meno agili nello slancio e nel rinnovamento.
Un mite e colto sacerdote bavarese, dopo aver istruito e confermato anche da Papa la fede della Chiesa fra le acque, ha suonato infine, con il suo congedo dal ministero supremo, la campana del risveglio per la Chiesa del terzo millennio. Il suo rintocco è risuonato come un colpo di maglio per ogni requisizione proprietaria del ministero ecclesiale, madre di tutte le sue corruzioni:
dell’autorità nel privilegio, del mistero nell’intrigo, del carisma nella carriera. In un lampo di silenzio attonito, durato circa mezz’ora, il fondamentalismo religioso e la condiscendenza mondana, che insidiano gli aspiranti leader della comunità, nella Chiesa, si sono scoperti nudi e vuoti di legittimazione. Ora tocca davvero al popolo di Dio, e ai suoi capi, muoversi all’altezza di
quel gesto.
Saturday, January 18, 2014
Dalle Confessioni alla Lumen fidei
Dalle Confessioni alla Lumen fidei
Il filo di Agostino Tra Ratzinger e Bergoglio
di LEONARD O LUGARESI
All'inizio della terza parte dell'enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto,
come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (...). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede.
«La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attvita missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico.
Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l'immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un'accezione sempre un po' illuministica, e — nell'esistenza quotidiana — a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile. Ci manca l'esperienza della luce come dono e quella dell'ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l'antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell'enciclica (n. 4), ma per farlo oc-
corre dunque comprendere che tale luce non è quella di un'immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po' come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci "illuminati", ma nel senso proprio del participio passato del verbo,
non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l'oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell'ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell'intendere l'immagine della luce della fede, si coglie mag
giormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall'enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant'Agostino — scrive Papa Francesco — troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell'orizzonte della fede. (...) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo
verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un'immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l'illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam,
non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da "illuminati", nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e iintendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione
del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione dall'una all'altra, per cui letteralmente si capovolge l'orientamento della vita? Agostino ce lo mostra esemplarmente nell'ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che
possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i "cristianisti"
senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia. Ma Vittorino è un uomo seria-
mente preoccupato del suo destino, che sa — come dice splendidamente Agostino — «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all'amico dicendogli semplicemente:
«Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri). Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l'offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la ce-rimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si
mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2,5).
L'attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su
uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l'antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di illuminazione" (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il
tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (...)
Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro,
non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via
per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di
profilarsi in certi recenti dibattiti intra ecclesiali.
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Il filo di Agostino Tra Ratzinger e Bergoglio
di LEONARD O LUGARESI
All'inizio della terza parte dell'enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto,
come Mosé portava in sé il riflesso della gloria di Dio dopo aver parlato con lui (...). La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede.
«La fede si trasmette, per così dire, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma», prosegue lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di osmosi viene prima di ogni attvita missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni progetto culturale, di ogni programma catechetico.
Purtroppo noi moderni abbiamo qualche problema con l'immagine della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo un'accezione sempre un po' illuministica, e — nell'esistenza quotidiana — a dare per scontato il possesso e il controllo della luce materiale, tanto che anche il più breve blackout ci è insopportabile. Ci manca l'esperienza della luce come dono e quella dell'ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio, quando preghiamo l'antico inno della compieta, Te lucis ante terminum, che spessore di coscienza hanno quelle parole, quando per noi la luce non ha mai termine e nelle nostre città non viene mai propriamente il buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere di luce della fede» dice il Papa nell'enciclica (n. 4), ma per farlo oc-
corre dunque comprendere che tale luce non è quella di un'immediata nostra chiarezza di visione su ogni cosa (un po' come la «formula che mondi possa aprirti» di montaliana memoria), non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque, possiamo sì dirci "illuminati", ma nel senso proprio del participio passato del verbo,
non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l'oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a coloro che sono nell'ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell'intendere l'immagine della luce della fede, si coglie mag
giormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall'enciclica al paragrafo 33: «Nella vita di sant'Agostino — scrive Papa Francesco — troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell'orizzonte della fede. (...) e così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo
verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un'immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di intendere l'illuminazione della fede. Ne vogliamo ricordare almeno due: nel quarto libro, ricordando le sue imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i testi filosofici più ardui e convinto di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la sua posizione umana: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa (dorsum habebam ad lumen et ad ea, quae inluminantur faciem: unde ipsa facies mea, qua inluminata cernebam,
non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con questa folgorante osservazione egli descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti, benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da "illuminati", nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e iintendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione
del mondo, ma «non abbiamo la faccia rivolta al mistero» di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione dall'una all'altra, per cui letteralmente si capovolge l'orientamento della vita? Agostino ce lo mostra esemplarmente nell'ottavo libro raccontando la vicenda di un altro intellettuale, Mario Vittorino. Questo doctissimus senex, che sa tutto e ha letto tutto, e da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità del cristianesimo. Ne parla con un prete colto, Simpliciano (ma non in pubblico: sono confidenze che uno come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che
possono capirle) e gli dice: «Sai, io ormai sono cristiano». Ne riceve una risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non ti credo, e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i "cristianisti"
senza fede): «Sono dunque i muri che fanno i cristiani? (ergo parietes faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum inrisio repetebatur), reciprocamente compiaciuti della propria arguzia. Ma Vittorino è un uomo seria-
mente preoccupato del suo destino, che sa — come dice splendidamente Agostino — «arrossire di fronte alla verità», e un giorno si presenta all'amico dicendogli semplicemente:
«Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam: christianus volo fieri). Quel che succede dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il grande intellettuale declina l'offerta che i preti gli fanno di celebrare il battesimo in forma riservata e la ce-rimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si
mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e quando fa la sua professione di fede, dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum omnes rapere intro in cor suum) (8, 2,5).
L'attrattiva suscitata da Vittorino, la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal fascino umano che un maestro dalla forte personalità può avere sul suo uditorio: per intenderci, non è quella che, stando a Porfirio, brillava sul volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È la luce divina che brilla, come su
uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l'antichità cristiana, non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di illuminazione" (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio nella prefazione a un volume su Agostino (Giacomo Tantardini, Il
tempo della Chiesa secondo Agostino, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane cristiani nel tempo della Chiesa. (...)
Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro,
non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio». Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde della consonanza di due personalità così diverse come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui anche la via
per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di
profilarsi in certi recenti dibattiti intra ecclesiali.
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Monday, October 15, 2012
Chiesa costantiniana
In un suo libretto del 1965, "La preghiera problema politico", Daniélou rimprovera agli anticostantiniani di volere una Chiesa "pura", simile a "una confraternita degli iniziati", e con ciò di perdere proprio quei "poveri" che a loro starebbero tanto a cuore: i poveri "nel senso dell'immensa marea umana", fatta anche di "quei numerosi battezzati per i quali il cristianesimo non è altro che una pratica esteriore".
Per Daniélou la Chiesa non dev'essere "svincolata dalla civiltà in cui si teme possa compromettersi". Al contrario, è essenziale che "si impegni nella civiltà, perché un popolo cristiano è impossibile in una civiltà che gli sia contraria". Di qui la difesa che egli fa di Costantino, l'imperatore romano che per primo consentì al cristianesimo di diventare una religione di massa:
"Questa estensione del cristianesimo a un immenso popolo, che rientra nella sua essenza, era stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all'interno di una società [...] ostile. L'appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso l'Evangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle élite, all'uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo, gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo".
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VIAGGIO APOSTOLICO
IN LIBANO
(14-16 SETTEMBRE 2012)
VISITA ALLA BASILICA DI St PAUL A HARISSA E
FIRMA DELL'ESORTAZIONE APOSTOLICA POST-SINODALE
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Harissa
Venerdì, 14 settembre 2012
"È provvidenziale che questo atto abbia luogo proprio nel giorno della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, la cui celebrazione è nata in Oriente nel 335, all’indomani della dedicazione della Basilica della Resurrezione costruita sul Golgota e sul sepolcro di Nostro Signore dall’imperatore Costantino il Grande, che voi venerate come santo. Fra un mese si celebrerà il 1700.mo anniversario dell’apparizione che gli fece vedere, nella notte simbolica della sua incredulità, il monogramma di Cristo sfavillante, mentre una voce gli diceva: "In questo segno, tu vincerai!'. [...]
"L'esortazione apostolica 'Ecclesia in Medio Oriente' vuole tracciare una via per ritrovare l’essenziale: la 'sequela Christi', in un contesto difficile e talvolta doloroso, un contesto che potrebbe far nascere la tentazione di ignorare o dimenticare la croce gloriosa. È proprio adesso che bisogna celebrare la vittoria dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta, del servizio sul dominio, dell’umiltà sull’orgoglio, dell’unità sulla divisione. [...] Questo è il linguaggio della croce gloriosa! Questa è la follia della croce: quella di saper convertire le nostre sofferenze in grido d’amore verso Dio e di misericordia verso il prossimo; quella di saper anche trasformare degli esseri attaccati e feriti nella loro fede e nella loro identità, in vasi d’argilla pronti ad essere colmati dall’abbondanza dei doni divini più preziosi dell’oro (2 Cor 4, 7-18). Non si tratta di un linguaggio puramente allegorico, ma di un appello pressante a porre degli atti concreti che configurano sempre più a Cristo, atti che aiutano le diverse Chiese a riflettere la bellezza della prima comunità dei credenti (At 2, 41-47); atti simili a quelli dell’imperatore Costantino che ha saputo testimoniare e far uscire i cristiani dalla discriminazione per permettere loro di vivere apertamente e liberamente la loro fede nel Cristo crocifisso, morto e risorto per la salvezza di tutti".
Wednesday, January 05, 2011
Bellezza e verità
Scriveva il cardinale Ratzinger: "Nella passione di Cristo (...) l'esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire il volto, sputare addosso, incoronare di spine (...) Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l'autentica, estrema bellezza: la bellezza dell'amore che arriva "sino alla fine" e che, proprio per questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l'ultima istanza del mondo. Non la menzogna è vera, bensì proprio la verità. È un nuovo trucco della menzogna presentarsi come verità e dirci: al di là di me non c'è in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla, così facendo siete sulla strada sbagliata. L'immagine di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme con lui e crediamo nell'Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza" (La bellezza. La Chiesa, Castel Bolognese, Itaca, 2005, pp. 25-26).
(©L'Osservatore Romano - 5 gennaio 2011)
(©L'Osservatore Romano - 5 gennaio 2011)
Wednesday, July 14, 2010
Tomismo e Scotismo
Prima della pausa estiva a Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha dedicato la sua ultima catechesi, mercoledì 7 luglio, al grande teologo e beato Giovanni Duns Scoto.
Ne ha parlato benissimo. Ma non ha mancato di rilanciare nei suoi confronti la critica che aveva già espresso nella memorabile lezione di Ratisbona del 12 settembre 2005: quella di esaltare a tal punto il primato della libertà e della volontà sulla ragione, da far pensare a un Dio puro Arbitrio, “che non sarebbe legato neppure alla verità e al bene”.
Un’idea di Dio che, a Ratisbona, il papa disse presente e influente anche nel pensiero islamico.
Ecco qui di seguito i due passaggi paralleli della critica di Benedetto XVI al volontarismo di Duns Scoto, a cui, ha detto, “la modernità è molto sensibile”..
Nella catechesi del 7 luglio 2010:
*
Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione di tendenza volontaristica, che si sviluppò in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino, che segue sant’Agostino, la libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazione della volontà e dell’intelletto. Un’idea della libertà innata e assoluta collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non sarebbe legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta trascendenza e diversità di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio “logos”, che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente, come afferma Duns Scoto nella linea della teologia francescana, l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’amore del Dio “logos”. Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta, collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato.
*
E nella lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006:
*
Nel tardo Medioevo si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono la sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista, iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la “voluntas ordinata”. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che [...] potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (cfr. Concilio Lateranense IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come “logos” e come “logos” ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Efesini 3, 19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-”logos”, per cui il culto cristiano è “spirituale” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Romani 12, 1).
Ne ha parlato benissimo. Ma non ha mancato di rilanciare nei suoi confronti la critica che aveva già espresso nella memorabile lezione di Ratisbona del 12 settembre 2005: quella di esaltare a tal punto il primato della libertà e della volontà sulla ragione, da far pensare a un Dio puro Arbitrio, “che non sarebbe legato neppure alla verità e al bene”.
Un’idea di Dio che, a Ratisbona, il papa disse presente e influente anche nel pensiero islamico.
Ecco qui di seguito i due passaggi paralleli della critica di Benedetto XVI al volontarismo di Duns Scoto, a cui, ha detto, “la modernità è molto sensibile”..
Nella catechesi del 7 luglio 2010:
*
Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione di tendenza volontaristica, che si sviluppò in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino, che segue sant’Agostino, la libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazione della volontà e dell’intelletto. Un’idea della libertà innata e assoluta collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non sarebbe legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta trascendenza e diversità di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio “logos”, che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente, come afferma Duns Scoto nella linea della teologia francescana, l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’amore del Dio “logos”. Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta, collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato.
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E nella lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006:
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Nel tardo Medioevo si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono la sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista, iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la “voluntas ordinata”. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che [...] potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (cfr. Concilio Lateranense IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come “logos” e come “logos” ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Efesini 3, 19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-”logos”, per cui il culto cristiano è “spirituale” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Romani 12, 1).
Tuesday, May 25, 2010
The Modern Age: "Life Without Eternity"
The Modern Age: "Life Without Eternity" | Fr. James V. Schall, S.J. | Ignatius Insight | May 18, 2010
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"And Soter is the Savior, who saves us from ignorance, in seeking the last things. The Savior saves us from solitude; he saves us from the emptiness that pervades life without eternity."
-- Benedict XVI, Homily to Biblical Commission, April 15, 2010 [1]
"The Christian experiences not the terror, but the order of history under the dominion of the Triune God, and the salvation which is promised him, which he seeks and makes his own in the sacramental worship of the church, is not a redemption from history, but from sin. History is God's creation in Christ; it is very good, and not all the vice by which humanity has deformed it has been able to obliterate its splendor, its mediation of God. Between God and his creation there is no alienation."
-- Donald Keefe, S. J., "Liberation and the Catholic Church." [2]
I.
Recently, Professor Kevin McMahon at St. Anselm's College in New Hampshire chanced to send me an essay written over a quarter-century ago by my friend, Father Donald Keefe, S. J., at Fordham University. In it, Keefe, in his incisive way, brought together the essential principles explaining what happens in this world—that is, behind it all, what finally is happening to those who find human existence in the cosmos we see before us?
First, there is the Triune God, complete without the world. Nothing exists outside this God as some sort of alternative to Him, arising from some other origin. We recall the Genesis invitation of Satan to our first parents that, by obeying him, they would "be like gods." But he "lied," as they soon discovered.
Nothing outside of God is God. But things outside of God do exist. Nothing outside of God has its existence from some reality that is not God. What is not God—the world and ourselves in it—displays an order. (See my book, The Order of Things, published by Ignatius Press.)
What is not God is not a terror. What goes on in historic cosmic existence is the process of saving man, of his reaching the end for which he was created. He cannot reach this end without his own cooperation. But his end is a gift, not something he has a "right" to.
Man achieves this salvation in and through the Church's sacramental worship. We are not being saved "from" history, but in history, wherein we really exist. We are being saved from sin, not from time, itself a real category. History is not the problem; sin is. History is the sequence of time, studded with events that have taken place since creation began. It will end, but in eternity, not in non-existence. We are in the "now" of this history as it flows to its telos, to its end, which includes our personal end.
Its end was its beginning. Creation is already "in Christ," who is the Word of the Father. Contrary to Nietzsche's presumption, redemption did not cause the immediate context of Christ's Incarnation, namely sin, to cease. But sin in the world does not make the world evil, as the Manicheans among us think. Matter is not evil. All existing things, as such, are good.
There is, as Keefe says, no "alienation" between God and creation. These are careful words. The hypothesis that such an alienation exists becomes the premise of the modern age. This age exists to find an alternate solution to the one proposed in revelation for our free acceptance. The modern age is itself largely a theory of self-redemption, directly contrary to the position found in revelation.
This premise that an alternate solution must be found is what charges most of what is specifically called the "modern mind." Following a whole development of philosophy, we see that overcoming this "alienation" is what modern politics is essentially about. The major obstacle to this overcoming is not "sin." All people are aware of some chronic "wretchedness," as Aristotle called it, in the human condition of the world. The real problem is the rejection of the revelation that sin is redeemed by a birth into the world of Christ, the Man-God, who originated on His human side from the seed of Abraham and Isaac and David.
The history of classical religions has been pretty much the effort to discover the proper way to worship the gods. Almost everything was tried, from the sacrifice of animals and even human beings to incantations, prayers, and rites. Most polities had their "liturgy," their official way of appeasing or pleading with the gods. The core of the Incarnation and Redemption, however, was to announce the arrival of a specific way for man to render to God what was due to Him. This way, ironically the best way, turned out to be the Sacrifice of the Cross, now present in the one Mass, which makes present that one sacrifice amongst us.
Death among us does not cease at the Incarnation, though, as Paul said, in the words of Dylan Thomas, it shall "have no dominion." And the fact that death does not cease has become the real dividing line among us. Once we reject the "eternal life," for which each existing human person is initially created through the Word, we must find another "alienation," one that divides those who must find a substitute for this eternal life from those who understand that this eternal life is man's true destiny.
In practice, this means seeking an alternate immortality, or better, an endless mortality which is now (so we are reminded in Spe Salvi) supposedly made possible by the scientific revolution of modernity. This revolution, as Leo Strauss once intimated, now directs itself not to the physical world but to the human corpus. It seeks to improve its mechanisms so that it does not cease to exist in this world. Political society in turn becomes involved in this very project of denying death. We now allow only those to exist who have a possibility of this inner-worldly, on-going existence. We replace the "eternal life" destiny of each person, no matter who he is, with a pragmatic estimate of who and how many of us we can keep alive.
Since no "eternal life" can be found, it follows that we ourselves are entitled to control our existence. The billions of human beings who have lived before us are simply gone; they cannot reach happiness. Their existence is a sacrifice, as it were, for the perfect inner-worldly existence of people down the ages whom they do not know.
From a scientific view, the human race does not exist for each of its members in eternal life. It exists for progress towards the only alternative remaining that can, apparently, guarantee the continuation of actual human beings. This result is the "new humanism" that takes the place of any transcendent notion of a human personal destiny addressed to each and every actual human being.
II.
In an insightful homily to members of the Pontifical Biblical Commission, Benedict gave an extraordinary reflection. While being "scriptural," it is mostly dogmatic and philosophic. Benedict is wont to do this. When he studies Scripture, he does not forget Athens. Indeed, when he studies other religions, such as Islam or Hinduism, even less does he forget Athens. Jerusalem is addressed to Athens. Both in turn are addressed to Rome, both the Rome of the Emperors and the Rome of the Popes. That is, they both, as Pierre Manent suggests, become subsumed into the mission of explaining to all the nations the truth that belongs to every man about his worldly existence in its relation to eternal life.
To those who read the works of Joseph Ratzinger, Socrates is a familiar figure. He does not forget what we can discover from the cosmos by our own minds. Indeed, it is precisely this knowledge that makes us rather sure that something else is going on out there besides just the cosmos. While revealing its vastness and complexity, the cosmos also indicates to us that it does not explain itself by itself. It reveals, as it were, a "Word" that is not simply the word of the cosmos speaking to itself.
In his homily to the Biblical Commission, Benedict recalls the statement of Peter in Acts (5:20), that we "should obey God rather than men." This is a "Socratic" incident in the New Testament. Peter and John are before the court, accused of preaching a doctrine at odds with the Jewish authorities. Peter and John insist that it is not contrary to this source but its completion. Peter, in obedience to Christ, now becomes free of the law. By observing the instructions of Christ, he is free from the political and religious law when they oppose what Christ hands down.
"And here exegetes draw our attention to the fact," Benedict remarks, "that St. Peter's response to the Sanhedrin is almost word for word identical to Socrates' response to the sentence at the tribunal in Athens." This is an extraordinary passage, no doubt of it. If taken seriously would totally overturn most of our political and educational orders to return them to some semblance of the core of Western civilization.
Peter is told by the arresting Court that he can go free if he ceases to state the truth with which he is charged to speak. He is asked to exchange the freedom that God gave him for that offered by the Court. The Pope here pauses to note that Peter's freedom is not the result of an arbitrary freedom that has no relation to nature or reality. It is due to a freedom itself rooted in obedience to a command. Peter does not himself formulate this initial comment. He is not its source.
Though he is able to reflect on its wisdom, Peter is asked simply to obey what he is told as if something is going on in the world that is being carried forth by his doing what he is told, whether he likes it or not. Benedict puts it this way: "Obedience to God has priority." Need I point out that, in this short sentence, we find revealed the soul of every Catholic politician, past and present. What is he first obedient to? Is it to God or to ideology? The stakes are very high, not just for the country but for the very souls of the politicians themselves. Caesar is not the maker of all laws to which he is subject.
III.
Benedict then proceeds to state the philosophic issues involved. "The modern age has spoken of the liberation of man, of his full autonomy, hence also of the liberation from obedience to God." This is the liberty we are taught in the colleges and law schools, the liberty practiced in the legislatures and the courts. It was already accurately described by Aristotle when he said that the end of "democracy" is "liberty." But it is a liberty that claims no grounding in reality except in man's own choices. Right and wrong are replaced by "I will." Nietzsche was right in sensing that this would happen.
Such claimed "freedom" insists that we be "autonomous." We make of our own law presupposed to no truth. We turn in on ourselves, not outward to what is, to what frees us from ourselves so that we can see what in fact exists, including ourselves. "This autonomy is a lie," Benedict bluntly tells us.
Plato, whom Benedict often cites, said that none of us would want to find a "lie" in our souls about the most important things. And yet, many of prefer this "lie" if it means that we must be obedient, if we must discover ourselves better made in what we did not make, in what is revealed to us.
"The consensus of the majority becomes the last word which we must obey. And this consensus--we know it from the history of the past century--can also be a 'consensus in evil.'" How gently, how philosophically this Pope can be, he still is so direct and blunt with us. We refuse to listen to a "consensus in evil" of which our claimed autonomy is an essential part.
Autonomy does not set us free. "Obedience to God is a freedom because it is the truth; it is the reference that comes before all other needs." All human and positive laws exist only in "reference" to this higher law. As Socrates put it, "It is never right to do wrong." Our civilization is based on this principle.
And yet we now are proud that it is always "right" to do whatever the demos, whatever the courts, whatever the legislature and bureaucracy "want," whatever it is. "In the history of humanity, these words of Peter and of Socrates became the liberation of man, who can see God and, in God's name, can and must obey, not so much human beings, but God, thus freeing himself from the positivism of human obedience."
Benedict then recalls the totalitarianisms of the Twentieth Century, which were mostly the result of this same philosophical background. We face something more subtle. "Today, subtle forms of dictatorship persist; a conformism which becomes obligatory, thinking as everyone thinks, behaving as everyone behaves, and the subtle assaults on the Church—or even those that are less subtle—show that this conformism can become a true dictatorship." Having said this, the Pope, not without historical reference, began to speak of martyrdom. That is, he recalled the history of the Word of God in this world, something he has repeated in his visit to Portugal.
The modern age, then, is precisely an effort of self-redemption. It is a description of what life without God must logically look like. What Benedict is saying is simply the obvious fact that this is what we are rapidly looking like. "Life without eternity" is a life that no longer addresses itself, as both classical philosophy and revelation did, to each actual human person who appears in this world. It is concerned with some not yet existing thing down the ages which, in fact, will never come to be. The modern age is, at bottom, an age of futility.
Minus the eternal life promised to each person, and hence the concrete responsibility we must devote to each one, we end up with a polity that is meaningless because it does not know the grounds of its own being. It was on these grounds that Socrates and Christ died. They are still dying in our "democratic" polities, but we do not see them, because we are autonomous. We make our own laws, and enforce them, in spite of heaven and hell.
ENDNOTES:
[1] Benedict XVI, "Christ Shows Us the Way," L'Osservatore Romano, English, April 21, 2010.
[2] Donald Keefe, S. J., "Liberation and the Catholic Church: The Illusion and the Reality," Center Journal, I (Winter 1981), 53.
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"And Soter is the Savior, who saves us from ignorance, in seeking the last things. The Savior saves us from solitude; he saves us from the emptiness that pervades life without eternity."
-- Benedict XVI, Homily to Biblical Commission, April 15, 2010 [1]
"The Christian experiences not the terror, but the order of history under the dominion of the Triune God, and the salvation which is promised him, which he seeks and makes his own in the sacramental worship of the church, is not a redemption from history, but from sin. History is God's creation in Christ; it is very good, and not all the vice by which humanity has deformed it has been able to obliterate its splendor, its mediation of God. Between God and his creation there is no alienation."
-- Donald Keefe, S. J., "Liberation and the Catholic Church." [2]
I.
Recently, Professor Kevin McMahon at St. Anselm's College in New Hampshire chanced to send me an essay written over a quarter-century ago by my friend, Father Donald Keefe, S. J., at Fordham University. In it, Keefe, in his incisive way, brought together the essential principles explaining what happens in this world—that is, behind it all, what finally is happening to those who find human existence in the cosmos we see before us?
First, there is the Triune God, complete without the world. Nothing exists outside this God as some sort of alternative to Him, arising from some other origin. We recall the Genesis invitation of Satan to our first parents that, by obeying him, they would "be like gods." But he "lied," as they soon discovered.
Nothing outside of God is God. But things outside of God do exist. Nothing outside of God has its existence from some reality that is not God. What is not God—the world and ourselves in it—displays an order. (See my book, The Order of Things, published by Ignatius Press.)
What is not God is not a terror. What goes on in historic cosmic existence is the process of saving man, of his reaching the end for which he was created. He cannot reach this end without his own cooperation. But his end is a gift, not something he has a "right" to.
Man achieves this salvation in and through the Church's sacramental worship. We are not being saved "from" history, but in history, wherein we really exist. We are being saved from sin, not from time, itself a real category. History is not the problem; sin is. History is the sequence of time, studded with events that have taken place since creation began. It will end, but in eternity, not in non-existence. We are in the "now" of this history as it flows to its telos, to its end, which includes our personal end.
Its end was its beginning. Creation is already "in Christ," who is the Word of the Father. Contrary to Nietzsche's presumption, redemption did not cause the immediate context of Christ's Incarnation, namely sin, to cease. But sin in the world does not make the world evil, as the Manicheans among us think. Matter is not evil. All existing things, as such, are good.
There is, as Keefe says, no "alienation" between God and creation. These are careful words. The hypothesis that such an alienation exists becomes the premise of the modern age. This age exists to find an alternate solution to the one proposed in revelation for our free acceptance. The modern age is itself largely a theory of self-redemption, directly contrary to the position found in revelation.
This premise that an alternate solution must be found is what charges most of what is specifically called the "modern mind." Following a whole development of philosophy, we see that overcoming this "alienation" is what modern politics is essentially about. The major obstacle to this overcoming is not "sin." All people are aware of some chronic "wretchedness," as Aristotle called it, in the human condition of the world. The real problem is the rejection of the revelation that sin is redeemed by a birth into the world of Christ, the Man-God, who originated on His human side from the seed of Abraham and Isaac and David.
The history of classical religions has been pretty much the effort to discover the proper way to worship the gods. Almost everything was tried, from the sacrifice of animals and even human beings to incantations, prayers, and rites. Most polities had their "liturgy," their official way of appeasing or pleading with the gods. The core of the Incarnation and Redemption, however, was to announce the arrival of a specific way for man to render to God what was due to Him. This way, ironically the best way, turned out to be the Sacrifice of the Cross, now present in the one Mass, which makes present that one sacrifice amongst us.
Death among us does not cease at the Incarnation, though, as Paul said, in the words of Dylan Thomas, it shall "have no dominion." And the fact that death does not cease has become the real dividing line among us. Once we reject the "eternal life," for which each existing human person is initially created through the Word, we must find another "alienation," one that divides those who must find a substitute for this eternal life from those who understand that this eternal life is man's true destiny.
In practice, this means seeking an alternate immortality, or better, an endless mortality which is now (so we are reminded in Spe Salvi) supposedly made possible by the scientific revolution of modernity. This revolution, as Leo Strauss once intimated, now directs itself not to the physical world but to the human corpus. It seeks to improve its mechanisms so that it does not cease to exist in this world. Political society in turn becomes involved in this very project of denying death. We now allow only those to exist who have a possibility of this inner-worldly, on-going existence. We replace the "eternal life" destiny of each person, no matter who he is, with a pragmatic estimate of who and how many of us we can keep alive.
Since no "eternal life" can be found, it follows that we ourselves are entitled to control our existence. The billions of human beings who have lived before us are simply gone; they cannot reach happiness. Their existence is a sacrifice, as it were, for the perfect inner-worldly existence of people down the ages whom they do not know.
From a scientific view, the human race does not exist for each of its members in eternal life. It exists for progress towards the only alternative remaining that can, apparently, guarantee the continuation of actual human beings. This result is the "new humanism" that takes the place of any transcendent notion of a human personal destiny addressed to each and every actual human being.
II.
In an insightful homily to members of the Pontifical Biblical Commission, Benedict gave an extraordinary reflection. While being "scriptural," it is mostly dogmatic and philosophic. Benedict is wont to do this. When he studies Scripture, he does not forget Athens. Indeed, when he studies other religions, such as Islam or Hinduism, even less does he forget Athens. Jerusalem is addressed to Athens. Both in turn are addressed to Rome, both the Rome of the Emperors and the Rome of the Popes. That is, they both, as Pierre Manent suggests, become subsumed into the mission of explaining to all the nations the truth that belongs to every man about his worldly existence in its relation to eternal life.
To those who read the works of Joseph Ratzinger, Socrates is a familiar figure. He does not forget what we can discover from the cosmos by our own minds. Indeed, it is precisely this knowledge that makes us rather sure that something else is going on out there besides just the cosmos. While revealing its vastness and complexity, the cosmos also indicates to us that it does not explain itself by itself. It reveals, as it were, a "Word" that is not simply the word of the cosmos speaking to itself.
In his homily to the Biblical Commission, Benedict recalls the statement of Peter in Acts (5:20), that we "should obey God rather than men." This is a "Socratic" incident in the New Testament. Peter and John are before the court, accused of preaching a doctrine at odds with the Jewish authorities. Peter and John insist that it is not contrary to this source but its completion. Peter, in obedience to Christ, now becomes free of the law. By observing the instructions of Christ, he is free from the political and religious law when they oppose what Christ hands down.
"And here exegetes draw our attention to the fact," Benedict remarks, "that St. Peter's response to the Sanhedrin is almost word for word identical to Socrates' response to the sentence at the tribunal in Athens." This is an extraordinary passage, no doubt of it. If taken seriously would totally overturn most of our political and educational orders to return them to some semblance of the core of Western civilization.
Peter is told by the arresting Court that he can go free if he ceases to state the truth with which he is charged to speak. He is asked to exchange the freedom that God gave him for that offered by the Court. The Pope here pauses to note that Peter's freedom is not the result of an arbitrary freedom that has no relation to nature or reality. It is due to a freedom itself rooted in obedience to a command. Peter does not himself formulate this initial comment. He is not its source.
Though he is able to reflect on its wisdom, Peter is asked simply to obey what he is told as if something is going on in the world that is being carried forth by his doing what he is told, whether he likes it or not. Benedict puts it this way: "Obedience to God has priority." Need I point out that, in this short sentence, we find revealed the soul of every Catholic politician, past and present. What is he first obedient to? Is it to God or to ideology? The stakes are very high, not just for the country but for the very souls of the politicians themselves. Caesar is not the maker of all laws to which he is subject.
III.
Benedict then proceeds to state the philosophic issues involved. "The modern age has spoken of the liberation of man, of his full autonomy, hence also of the liberation from obedience to God." This is the liberty we are taught in the colleges and law schools, the liberty practiced in the legislatures and the courts. It was already accurately described by Aristotle when he said that the end of "democracy" is "liberty." But it is a liberty that claims no grounding in reality except in man's own choices. Right and wrong are replaced by "I will." Nietzsche was right in sensing that this would happen.
Such claimed "freedom" insists that we be "autonomous." We make of our own law presupposed to no truth. We turn in on ourselves, not outward to what is, to what frees us from ourselves so that we can see what in fact exists, including ourselves. "This autonomy is a lie," Benedict bluntly tells us.
Plato, whom Benedict often cites, said that none of us would want to find a "lie" in our souls about the most important things. And yet, many of prefer this "lie" if it means that we must be obedient, if we must discover ourselves better made in what we did not make, in what is revealed to us.
"The consensus of the majority becomes the last word which we must obey. And this consensus--we know it from the history of the past century--can also be a 'consensus in evil.'" How gently, how philosophically this Pope can be, he still is so direct and blunt with us. We refuse to listen to a "consensus in evil" of which our claimed autonomy is an essential part.
Autonomy does not set us free. "Obedience to God is a freedom because it is the truth; it is the reference that comes before all other needs." All human and positive laws exist only in "reference" to this higher law. As Socrates put it, "It is never right to do wrong." Our civilization is based on this principle.
And yet we now are proud that it is always "right" to do whatever the demos, whatever the courts, whatever the legislature and bureaucracy "want," whatever it is. "In the history of humanity, these words of Peter and of Socrates became the liberation of man, who can see God and, in God's name, can and must obey, not so much human beings, but God, thus freeing himself from the positivism of human obedience."
Benedict then recalls the totalitarianisms of the Twentieth Century, which were mostly the result of this same philosophical background. We face something more subtle. "Today, subtle forms of dictatorship persist; a conformism which becomes obligatory, thinking as everyone thinks, behaving as everyone behaves, and the subtle assaults on the Church—or even those that are less subtle—show that this conformism can become a true dictatorship." Having said this, the Pope, not without historical reference, began to speak of martyrdom. That is, he recalled the history of the Word of God in this world, something he has repeated in his visit to Portugal.
The modern age, then, is precisely an effort of self-redemption. It is a description of what life without God must logically look like. What Benedict is saying is simply the obvious fact that this is what we are rapidly looking like. "Life without eternity" is a life that no longer addresses itself, as both classical philosophy and revelation did, to each actual human person who appears in this world. It is concerned with some not yet existing thing down the ages which, in fact, will never come to be. The modern age is, at bottom, an age of futility.
Minus the eternal life promised to each person, and hence the concrete responsibility we must devote to each one, we end up with a polity that is meaningless because it does not know the grounds of its own being. It was on these grounds that Socrates and Christ died. They are still dying in our "democratic" polities, but we do not see them, because we are autonomous. We make our own laws, and enforce them, in spite of heaven and hell.
ENDNOTES:
[1] Benedict XVI, "Christ Shows Us the Way," L'Osservatore Romano, English, April 21, 2010.
[2] Donald Keefe, S. J., "Liberation and the Catholic Church: The Illusion and the Reality," Center Journal, I (Winter 1981), 53.
Monday, April 19, 2010
Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI
Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI
Un libro esamina gli elementi fondamentali
di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 18 aprile 2010 (ZENIT.org).- Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.
Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.
Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.
L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.
Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.
Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.
Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.
A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.
Politica
Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.
Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.
Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.
Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.
Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.
La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.
Miti
D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.
Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.
Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.
Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.
Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.
Coscienza
Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.
È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.
La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.
Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.
La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.
“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.
Continuità
Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.
Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.
L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi.
Un libro esamina gli elementi fondamentali
di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 18 aprile 2010 (ZENIT.org).- Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.
Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.
Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.
L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.
Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.
Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.
Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.
A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.
Politica
Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.
Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.
Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.
Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.
Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.
La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.
Miti
D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.
Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.
Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.
Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.
Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.
Coscienza
Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.
È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.
La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.
Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.
La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.
“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.
Continuità
Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.
Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.
L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi.
Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI
Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI
Un libro esamina gli elementi fondamentali
di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 18 aprile 2010 (ZENIT.org).- Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.
Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.
Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.
L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.
Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.
Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.
Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.
A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.
Politica
Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.
Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.
Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.
Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.
Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.
La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.
Miti
D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.
Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.
Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.
Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.
Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.
Coscienza
Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.
È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.
La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.
Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.
La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.
“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.
Continuità
Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.
Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.
L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi.
Un libro esamina gli elementi fondamentali
di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 18 aprile 2010 (ZENIT.org).- Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.
Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.
Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.
L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.
Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.
Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.
Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.
A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.
Politica
Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.
Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.
Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.
Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.
Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.
La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.
Miti
D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.
Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.
Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.
Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.
Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.
Coscienza
Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.
È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.
La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.
Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.
La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.
“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.
Continuità
Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.
Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.
L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi.
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