Sunday, July 27, 2014

P. Williams, Aquinas Meets the Buddhists: Prolegom

P. Williams, Aquinas Meets the Buddhists: Prolegomenon to an Authentically Thomas-ist Basis for Dialogue, Modern Theology 20, 2004.

Tommaso, naturalmente non ha mai incontrato nessun buddista, ne' ha mai forse sentito parlare di questa religione. E' difficile immaginare cosa avrebbe pensato di una religione che non ritiene importante il discorso sull'esistenza di Dio. In ogni modo noi possiamo essere sicuri che se avesse incontrato dei buddisti disposti a discutere in modo intelligente con lui, non si sarebbe sottratto alla sfida. Non ci aspetteremmo che Tommaso chieda ai suoi interlocutori di insegnargli le tecniche della meditazione per poterle integrare nella sua vita di fede. Non sentirebbe tale bisogno. Come non sentirebbe il bisogno di trovare punti di vista comuni magari modificando le sue posizioni teologiche alla luce del buddismo. Non sentirebbe il bisogno di scusarsi per il tradizionale esclusivismo della pretesa cristiana. Probabilmente, prenderebbe atto che anche i buddisti credono nella assoluta obiettività della verità, e che anche per loro conoscere la verità porta, nel senso più profondo possibile, alla salvezza. Poi si accorgerebbe che per i buddisti la fede non sta in una relazione necessaria con la ragione. Da qui, molto probabilmente, partirebbe il dialogo. Tommaso chiederebbe delucidazioni sulle teorie della conoscenza dei suoi interlocutori, ne scoverebbe i difetti e cercherebbe di completarle. E questo e' più o meno quello che ha fatto Matteo Ricci.
Un punto decisivo sarebbe quello della "conversio ad phantasmata". Il pensiero infatti mantiene costantemente aspetti figurali che rimandano a sintesi esperienziali, c'è un'inevitabile 'conversio ad phantasmata', per cui la sintassi e la semantica filosofiche devono, penso, poter aprire spazi, nel linguaggio, anche alle 'interpretazioni' più vere a qualsiasi livello d'esistenza. Purtroppo quello delle sintesi esistenziali e della "conversio ad phantasmata" e' anche il punto dove è più facile fare errori. Per questo c'è sempre bisogno di vigilare e in questo la qualità sapienziale del pensiero tommasiano offre opportunità più uniche che rare. Rari Nantes in gurgite vasto. Ricci se l'e' cavata egregiamente perché ha imparato il metodo giusto al Collegio romano.

The Unexpected Way: On Converting from Buddhism to Catholicism (London: Continuum/T & T Clark, 2002).


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Tuesday, July 22, 2014

Insight 622

Insight 622

self]consistent
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Hypocrisy is a homage that vice pays to virtue.
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Hypocrisy is the homage that vice pays to virtue.
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ƒˆƒCƒRƒgƒ'Œ©ƒeAƒ\ƒŒƒK³ƒVƒCƒgŽvƒbƒeƒ‚AƒcƒCˆ«ƒCƒzƒEƒjsƒbƒeƒVƒ}ƒEBiVideo meliora proboque / Deteriora sequor jv

There's honor among thieves.
sŒ¿t "l‚É‚àm&lsqauo;`

'茾–½–@(‚Ä‚¢‚°‚ñ‚ß‚¢‚Ù‚¤Akategorischer Imperativ)‚Ƃ́AƒJƒ"ƒg—Ï—Šw‚É‚¨‚¯‚鍪–{"I‚ÈŒ´—‚Å‚ ‚èA–³ðŒ‚Ɂu`‚¹‚æv‚Æ–½‚¶‚éâ'Î"I–½–@‚Å‚ ‚éBwl—Ï‚ÌŒ`Ž§ãŠw‚ÌŠî'b•t‚¯x (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten) ‚É‚¨‚¢‚Ä'ño‚³‚êAwŽÀ'H—«"á"»x‚É‚¨‚¢‚Ä—˜_"I‚ȈÊ'u‚¯‚ªŽáŠ±C³‚³‚ꂽB

wŽÀ'H—«"á"»x‚́˜7‚É‚¨‚¢‚āuƒˆŽÀ'H—«‚̍ª–{–@'¥v‚Æ‚µ‚ÄŽŸ‚̂悤‚É'莮‰»‚³‚ê‚éB

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Monday, July 21, 2014

C'est enfin et surtout le phénoménalisme fondament

C'est enfin et surtout le phénoménalisme fondamental de
la pensée japonaise (et chinoise) qui constitue l'horizon de
possibilité des pratiques dérivationnelles sur lesquelles nous nous
sommes arrêté. Philosophies de l'immanence, tous les systèmes
de pensée qui se sont développés au Japon n'ont jamais
problématisé la question de la vérité, laissant cette case vide à la
notion autoréférentielle de sincérité (makoto/cheng). Les
mouvements antithéoriques et antiphilosophiques appuient leur
critique des systèmes continentaux sur l'éthique de la sincérité
qui débouche sur une pragmatique instantanéiste. C'est pour cela
que la forme d'osmose la plus fréquente dans la pensée
instantanéiste continentale ou japonaise est celle qui unit Wang
Yang Ming au Zen.
Dans un tel horizon philosophique, l'acte de
compréhension ne passe pas par une réflexion sur l'authenticité
ou, quand il le fait, le dépasse pour fonder le rapport au texte sur
la notion dynamique d'opérativité. Intelïigere estfacere auraient pu
dire les philologues japonais, qui se rapprochent de la pensée de
Vico dans la mesure où ils définissent implicitement la
compréhension comme la possibilité de produire de nouvelles
variantes à partir d'un thème donné par la traditio


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Sunday, July 20, 2014

Charles Péguy:

Charles Péguy:

"It will never be known what acts of cowardice have been committed for fear of not looking sufficiently progressive." (Notre Patrie, 1905).

On ne saura jamais tout ce que la peur de ne pas paraître assez avancé aura fait commettre de lâchetés à nos Français.

Non si saprà mai tutte quelle vigliaccherie che la paura di non apparire abbastanza avanzati ha fatto commettere






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Dante, come Tommaso Italo Mancini

Dante, come Tommaso, non è un metafisico della luce neoplato- nico, ma neppure un eclettico o un sincretista. Egli ha cercato e ha trovato una nuova sintesi della fede e della cultura, seguendo la scia tracciata dal Dottore angelico. Resta comunque una differenza eviden- te tra Tommaso e Dante: mentre il primo procede attraverso i rigorosi sillogismi della filosofia e della teologia, l'Alighieri ha offerto la sua grandiosa sintesi per via poetica. Se ne perde, è chiaro, in rigore spe- culativo, ma se ne guadagna in fascino.

Italo Mancini e la teologia dei doppi pensieri
Il Dio del frammento

di BRUNO FORTE
In una sorta di bilancio critico della propria vicenda di pensiero, scritto pochi anni prima della morte, don Italo Mancini presentava il suo contributo speculativo come una «teologia dei doppi pensieri»: questa formula „ in cui è dichia-rato il debito nei confronti di Dostoevskij „ testimonia dell'insonne ricerca, caratteristica della sua riflessione. La faticadella mediazione fra gli irriducibili „l'essere e il nulla, Dio e l'uomo, la ragione e la fede, il bene e il male „ ricevutaocome eredità e compito dal suo maestro Gustavo Bontadini, sfocia in Mancini
nell'accettazione sempre più consapevole della loro compresenza, in una sorta di
esplicita resa all'inseparabilità dell'uno dall'altro.
L'assunzione programmatica della logica dei doppi pensieri è in realtà il risultato del primato attribuito al «riconoscimento» dell'altro rispetto a ogni presunzione assoluta dell'io.
La «teologia dei doppi pensieri» rivela in Mancini anche un'altra genesi, quella
dell'incontro delle due grandi anime della sua impresa: l'anima greca e l'anima
ebraico-cristiana. Alla confluenza di queste due anime ispiratrici si pone la meditazione sull'etica e sul diritto, intesa come l'esercizio di una duplice e insieme unica fedeltà: «Se ho avuto un interesse per la storia e per la dottrina ermeneutica è stato quello che mi ha spinto a lavorare sulla filosofia della religione e sulla filosofia del diritto, una specie di doppia
fedeltà, la fedeltà a Dio e la fedeltà alla terra, quella che sposa il kèrygma alla radicale laicità e nella terra cerca «uno spazio per l' invocazione».
Nella complessità di questo itinerario,non stupisce che la dialettica della ricerca venga spinta fino al punto da giustificare incompiutezze e interruzioni, fino all'ultima, quasi necessaria, dell'opera postuma, il Frammento su Dio.
Mi aveva parlato di questo libro che amava: a esso teneva in modo singolare, vedendovi il denso compendio di ciò che la sua ricerca avrebbe potuto dire e donare agli altri. Don Italo aveva consegnato all'intimità del «diario questa convinzione: «Il Frammento su Dio mi ha
preso dentro» (8 giugno 1990) — «Lavoro al libro: ormai questa è tutta la mia attività» (3 ottobre 1992). La morte gli ha impedito di compiere l'opera, uscita nelle parti approntate e nell'unità del disegno grazie all'accurato lavoro di ricostruzione filologica e critica di Andrea
Aguti.
L'impronta frammentaria non sminuisce il valore del testo: si potrebbe anzi dire che essa corrisponde alla sua ispirazione più profonda e che perciò nulla toglie alla sua possente organicità: «Forse — scriveva Mancini nelle sue note — ho trovato il titolo del libro: Frammento su Dio; avevo pensato a Frammenti su Dio, ma dava il senso degli aforismi. Frammento è un discorso organico, ma incompleto».
Tema dell'opera è Dio e il suo significato per noi: questione filosofica nel senso più alto ed esigente. «La filosofia — afferma Gustavo Bontadini, il maestro di Mancini, in un testo da questi citato — si assomma nello sforzo di concepire il rapporto tra la Vita e l'Assoluto»: conoscere Dio è conoscere l'uomo. E lo è tanto più, quanto più naufrago, insicuro e nostalgico del senso perduto è quest'uomo, come lo è in questa stagione paradossale
di tramonto e d'aurora che è il tempo postmoderno.
Per questo, pur essendo vigorosamente speculativa, quest'opera è tutt'altro che astratta: essa parla di noi, protagonisti e vittime della crisi della modernità, figli di un Illuminismo incompiuto, ferito proprio nella sua pretesa di illuminare ogni cosa e di adeguare la realtà al progetto solare della ragione. Ecco perché uno dei capitoli fra i più decisivi del libro s'intitola significativamente «De profundis per la dialettica»: è un'intera stagione quella di cui si deve constatare la fine, «il portento dell'età moderna», la cui caratteristica è stata la «pretesa che la ragione nel suo uso dialettico ha rivendicato presentandosi quale scienza assoluta dell'intero». Quest'epoca è finita: l'ambizione di abbracciare il mondo e la vita nell'idea e di trasformarli di conseguenza è crollata sotto i colpi delle violenze immani che le realizzazioni storiche dell'ideologia — di destra e di sinistra — hanno prodotto. La totalità della visione
ideale si è convertita in totalitarismo: l'aver voluto mediare ogni cosa, riconducendola al progetto della ragione, ha finito col lasciare fuori come tragico scarto l'umanità reale. Ecco perché è urgente uscire dalle secche delle presunzioni
ideologiche, e aprirsi a un'altra logica, che rispetti la frammentarietà e la paradossalità della vita, senza rinunciare alla ricerca di un senso più profondo, di un più alto orizzonte.
Questa logica nuova e diversa rispetto alla dialettica, che ha governato i sistemi delle ideologie, non può venire dal pensiero di una trascendenza assoluta, tanto lontana da essere insignificante per noi, né viene dalla proposta di una trascendenza debole.
La critica di Heidegger all'ontoteologia e il suo invito all'ascolto, aperto al transitare dell'«ultimo Dio», sono l'approssimarsi filosofico più denso a una logica nuova e diversa, che
faccia spazio al sacro. È questa per Mancini «la logica dei doppi pensieri»: la formula esprime l'ambiguità costitutiva degli esseri umani in questo mondo, radicata in quel fondo dell'anima che soggiace come contrappunto a ogni sua affermazione, controcanto nascosto
che rende quanto mai fragile e incompiuta ogni pretesa di comprensione totale.
L'ambito in cui questa logica si esercita fino allo spasimo è quello della fede: è, in realtà, la «coesistenza di scienza e di passione infinita, che è poi la via mistica»
il vero rimando a una logica dei doppi pensieri. Ed è questo l'ambito in cui torna sensato parlare di Dio: non come del Deus mortuus che se ne sta solo e straniero nell'intangibile sua trascendenza, né come del Deus otiosus, esiliato dalla tecnica e dal pragmatismo che lo condannano all'inutilità, ma come il Dio della vita nella morte, della forza nella debolezza, della sapienza nella stoltezza agli occhi del mondo.
Fra caduta degli idoli ideologici e vuoto della rinuncia a sperare, questo Dio dei doppi pensieri è l'unico capace di parlare sensatamente al naufrago delle avventure della modernità: è, appunto, «l'ultimo Dio» nel puro e forte senso che Mancini mutua da Heidegger, andando oltre Heidegger.
È il Dio dell'infinita compassione, tragico nel suo abbandono in Croce, ma proprio per questo tale da donare dignità al frammento. È il Dio oltre il Dio della mediazione dialettica, che tutto concilia, e della rinuncia nichilista, che tutto abbandona al nulla. È il Dio del frammento, che redime l'istante assumendolo e oltrepassandolo.
E il Dio di una misteriosa bellezza, che si svela velandosi, e si concede ritraendosi al dono: qui la soglia raggiunta da Mancini nel suo pensiero più profondo schiude l'orizzonte forse più significativo per noi.
Ma è qui che egli si ferma: il Fra mmento su Dio riscopre sì il Dio del frammento, ma non riesce a delineare in questo paradosso — tutto cristiano e tutto filosofico — la rivelazione della bellezza, l'offrirsi del Tutto nel frammento, come forma e splendore che s'irradia dal profondo. Dove si ferma la parola interrotta dal silenzio della morte, lì rinasce la vita:
Mancini consegna il testimone a chi verrà dopo di lui.

Osservatore romano




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Saturday, July 19, 2014

Dante, come Tommaso, non è un metafisico della lu

Dante, come Tommaso, non è un metafisico della luce neoplato- nico, ma neppure un eclettico o un sincretista. Egli ha cercato e ha trovato una nuova sintesi della fede e della cultura, seguendo la scia tracciata dal Dottore angelico. Resta comunque una differenza eviden- te tra Tommaso e Dante: mentre il primo procede attraverso i rigorosi sillogismi della filosofia e della teologia, l'Alighieri ha offerto la sua grandiosa sintesi per via poetica. Se ne perde, è chiaro, in rigore spe- culativo, ma se ne guadagna in fascino.


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Wednesday, July 16, 2014

Insight 618

Insight 618

Die vier Kantischen Fragen

1. Was kann ich wissen?
2. Was soll ich tun?
3. Was darf ich hoffen?
4. Was ist der Mensch?

In his Lectures on Logic Kant says there are three basic questions which reduce to a fourth.

(1) What can I know?
(2) What ought I to do?
(3) What may I hope for?
(4) What is man?

The first 3 questions can be thematized into Metaphysics, Ethics and Theology.


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Saturday, July 05, 2014

Bonazzi Andrea さんが Dropbox を使用してファイルを共有しました

こんにちは、
Dropboxにある「trasferimento di concetti filosofici.doc」へのリンクです:
https://www.dropbox.com/s/dupu12yxe0z1h1z/trasferimento%20di%20concetti%20filosofici.doc


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Rivelazione in prospettiva multiculturale. Conclu

Rivelazione in prospettiva multiculturale. Conclusione

In maniera molto sommaria, diremo soltanto che l'unità relazionale tra razionalità e fede, alla quale S. Tommaso d'Aquino aveva dato una forma sistematica, è stata progressivamente sempre più lacerata attraverso le grandi tappe del pensiero moderno, da Cartesio a Vico a Kant, mentre la nuova sintesi tra ragione e fede tentata da Hegel non restituisce realmente alla fede la sua dignità razionale, ma tende piuttosto a convertirla completamente in ragione, eliminandola come fede.
Nishida ha tentato una sintesi tra Hegel e pensiero buddista. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come ha acutamente segnalato Von Balthasar: "visioni del mondo pre-cristiane e coscientemente post-cristiane possono essere strutturalmente simili, ma nella loro più profonda intenzionalità rimangono essenzialmente differenti, perché oggi il lievito del Cristianesimo è penetrato in tutta l'umanità. Per questa ragione, nel villaggio globale di oggi, è diventato molto difficile trovare qualcosa che sia semplicemente "pre-cristiano", perfino in visioni del mondo (in Asia per esempio) che apparentemente sono rimaste le stesse da tempi pre-cristiani. Molto spesso esse hanno assorbito elementi di Cristianesimo (o almeno biblici) per mostrare che non hanno bisogno del Cristianesimo per mantenere la loro pretesa di totalità" (H.U. Von Balthasar, Epilogue, Ignatius Press, San Francisco, 2004, p. 18, mia traduzione).
Il concetto chiave a cui oggi si ricorre è quello di incontro delle culture, o "interculturalità", differente sia dall'inculturazione, che sembra presupporre una fede culturalmente spoglia che si traspone in diverse culture religiosamente indifferenti, sia dalla multiculturalità, come semplice coesistenza – auspicabilmente pacifica – di culture tra loro diverse.

L'interculturalità "appartiene alla forma originaria del cristianesimo" e implica sia un atteggiamento positivo verso le altre culture, e verso le religioni che ne costituiscono l'anima, sia quell'opera di purificazione e quel "taglio coraggioso" che sono indispensabili per ogni cultura, se vuole davvero incontrare Cristo, e che diventano per essa "maturazione e risanamento"

J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003.

L' esigenza della sintesi nella interculturalità non e' forse anche la lezione più importante che Tommaso ci ha lasciato e che permane valida anche oggi nel dialogo con le tradizioni religiose dell'Oriente, ma anche per la nuova mentalità creata dalla scienza e dalla tecnologia.
"Thomam aufer, mutus fiet Aristoteles" (rimuovi Tommaso e Aristotele resterà muto) così diceva Antonio Cittadini (aristotelico del Rinascimento, corrispondente di Pico della Mirandola). La sintesi di Tommaso, magari messa a serio confronto con Hegel, ci può aiutare a riproporre con rinnovato vigore la peculiarità della Rivelazione cristiana. Christum aufer, mutus fiet mundus. Ma forse si può anche dire: Thomam aufer, muta fiet Ecclasia in mundo.




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La Rivelazione in prospettiva interculturale

La Rivelazione in prospettiva interculturale

Il concetto di Rivelazione in giapponese si esprime con il binomio di caratteri 啓示 keiji, che significano "apertura" e "manifestazione". "Apocalisse" invece viene tradotto con 黙示 mokushi, che si può rendere con "manifestazione di cose taciute". Entrambi le espressioni si possono considerare dei neologismi introdotti dal Cristianesimo. ​
Una cultura che importa concetti nuovi crea sempre un rapporto ambiguo con la cultura a cui fa riferimento. I concetti o i sistemi di pensiero "stranieri" sono raramente percepiti come una alterità minacciosa al momento della loro importazione. L'atteggiamento più frequente sembra essere quello di assimilare i nuovi concetti al già conosciuto, come se all'inizio non ci si interessasse che delle differenze più digeribili. Un' altra ragione, più profonda, spiega anche il lavoro di assimilazione (nel senso di rendere simile a sè o omogeneizzazione): l'assimilazione è già presente, a priori, nell'atto stesso della rappresentazione del diverso da sè e nelle scelte che orientano l'importazione.
​Si sa per esempio che durante i periodi Asuka e Nara, i giapponesi descrivevano il buddismo come una specie di shintoismo, anche se il principe Shôtoku ne aveva mostrata di fatto la radicale diversità. Rigetto e polemiche sono venute solo dopo che la nuova religione divenne un fattore nelle rivalità politiche interclaniche che accompagnarono la formazione dello stato. A questo stadio, il fatto di chiamare il Budda "tonariguni no kami" (il dio del paese vicino) mostra che il trasferimento avviene sotto il segno della assimilazione.



ROCHER Alain, La Trahison créatrice. Anatomie du transfer notionnel dans les cultures asiatiques, in : LE BLANC Ch-ROCHER A., Tradition et innovation en Chine et au Japon, Paris, POF et Montréal, PUM, 1996.
 

Il contesto in cui la novità della rivelazione cristiana viene a inserirsi, viene così descritto da F. Jullien:

"[P]rendiamo in considerazione una cultura che non si affida ad alcuna Rivelazione, ma la cui capacita' di integrazione e di accentramento ideologico e' talmente forte da spingerla a identificarsi con il centro del mondo e a considerare i propri valori pienamente imitabili ed esportabili senza limite alcuno. Sto parlando della Cina: una cultura che 'non si pone neanche' la questione della possibile universalita' dei propri valori. Ma potremmo anche considerare il caso della Cina insieme a quello del Giappone, cosi' da mettere in luce l'uno attraverso l'altro. Due casi opposti, e tuttavia in entrambi ci si dispensa dal porre la 'questione' dell'universale: in uno l'universalita' culturale risulta scontata, nell'altro incongrua. Il Giappone non vi presta attenzione poiche' si compiace della propria specificita' locale che rivendica facendo appello alla sua insularita', al suo clima, ai suoi terremoti, alle sue pianure strette tra le montagne e alle sue coste frastagliate (fudo/yamato, ecc): si considera una terra dal destino unico, distinta dalle altre e protetta dagli dei. Riluttante a intaccare il proprio sentimento di coesione interna, quando e' chiamata a riconoscere la propria dipendenza culturale dal suo imponenete vicino essa riscopre la sua coscienza identitaria attraverso un confronto continuo. Il Giappone, dal punto di vista dei suoi stessi abitanti, e' una cultura del singolare: la questione dell'universale la lascia indifferente.
La Cina invece, nel suo estendersi lungo grandi fiumi e vaste pianure, incontra le proprie province di frontiera ma non scorge mai veri e propri limiti al proprio impero (se non il mare). Sente a tal punto la propria cultura come globale da ritenere questa globalita' un dato di fatto naturale e da non avvertire la necessita' di un concetto di universale che la rivendichi. Lo spazio che assegna a se stessa e' tutto lo spazio che si estende "Sotto il cielo" (tian xia) e "dentro ai quattro mari", fino alle estremita' del globo; il potere del suo sovrano si estende sull'intero genere umano. Di lui viene detto che "Il Figlio del Cielo e' senza eguali", nessuno puo' essere messo sul suo stesso piano e "nessuno, tra i quattro mari, puo' riceverlo seguendo i riti dell'ospitalita'" poiche' tutto "sotto il cielo" e' "sua dimora" e "non v'e' per lui luogo esterno ove recarsi" (Xunzi, inizio del capitolo "Junzi"). Quindi, "qualunche siano le frontiere che attraversa e i paesi in cui va", "non si puo' dire che vi si rechi, poiche' egli e' ovunque a casa sua"...

F. Jullien, De l'universel de l'uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Fayard, Paris 2008, trad. it. L'universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010.

Gia' nella piu' antica raccolta di poesie cinesi, lo 'Shijing', si legge: "Universalmente sotto il cielo/ non vi e' nulla che non sia terra del Re" (溥天之下、莫非王土 Futen no moto, Oodo ni arazaru wa nashi). Cio' che qui traduciamo con "universale" ('Futen') significa "che non puo' incontrare limiti" o anche "infinitamente esteso": non aspira, in senso stretto, al dover essere, ma non immagina neanche delle restrizioni all'affermazione di se'. L'iperbole non esprime qui l'invocazione di una necessita', bensi il non-sospetto di una possibile alterita' (esteriorita'). Non affidando la propria legittimazione ad alcun verbo sacro - non rivendicando quindi alcun Messaggio, ne' richiamandosi ad alcuna grande Epopea - la Cina antica non percepisce se stessa come predestinata, ne' tantomeno come privilegiata: e' semplicemente l'unica civilta' da essa stessa (ri)conosciuta. Dal suo punto di vista, tutto cio' che la circonda semplicemente non ha ancora avuto accesso alla civilta', in quanto non e' ancora "sinizzato".

La genialità di Matteo Ricci sta appunto nell'aver evitato di farsi ingabbiare da questo contesto culturale e di essere riuscito a proporre in modo chiaramente comprensibile la novità della rivelazione cristiana. Come sappiamo dalla susseguente controversia dei riti, non è stata una operazione assolutamente pacifica, anzi. In tempi più vicini a noi, Nishida Kitaro, che alcuni considerano il maggior filosofo giapponese del XX secolo, così scrive:

"Il pensiero di un Dio (神) trascendente che domina il mondo da fuori, non solo si scontra con la nostra ragione, oltretutto non credo che sia la parte più profonda di questa religione. Quello da cui noi dobbiamo conoscere il volere divino sono solo le leggi della natura. Non esiste una rivelazione (天啓) che le oltrepassi. Naturalmente Dio e' incommensurabile, per cui quello che noi conosciamo rimane solo una parte. Ma anche se si ammettesse che ci sia un rivelazione, noi non potremmo conoscerla. Se poi ci fosse un rivelazione che contraddice questo, quella non mostrerebbe che la contraddizione di Dio".

L'opera completa di Nishida Kitarō è raccolta in: Nishida Kitarō Zenshū (Opere complete di Nishida Kitarō), 19 volumi, IV edizione (Tokyo, 1987–1989), vol. I, pp. 175-176, mia traduzione.  Cf. Zen no kenkyū (善の研究): Uno studio sul bene. Torino, Boringhieri, 2007.

Il francescano M. Heinrichs, che ha vissuto a lungo in Cina e Giappone, commentando questo passo mette in rilievo che qui Nishida fraintende la trascendenza di Dio. Sullo sfondo di queste sue parole si può riconoscere una mentalità buddista. Budda, infatti, non ha riconosciuto una rivelazione divina in senso stretto, e non ha aveva intenzione di diventare un mediatore di una tale rivelazione. Per Budda la cosa importante era la luce interiore, il "satori" che ognuno può sperimentare.

Heinrichs M., Katholisce Theologie und Asiatisches Denken, Verlag: Matthias Grünewald, Mainz, 1963.

Chiaramente in questa forma di pensiero non c'e spazio per una Incarnazione di Dio in senso cristiano. Al massimo si può parlare di Manifestazione, oppure di un Avatar nel senso delle scritture indiane. La concezione del mondo fenomenico in Oriente diventa inevitabilmente una forma di docetismo a cui vanno contrapposte le obiezioni che sono state portate contro il docetismo. Inoltre, in questa forma di pensiero non è possibile una Escatologia in senso proprio. Ne è una conferma il concetto di Terra Pura (Paradiso) nel buddismo Zen, che viene realizzato in questo mondo attraverso l'estasi con cui si ritrova l'unità con tutti gli esseri di questo mondo.


La teologia docetista dello specchio e la teoria della Illuminazione

Un moderno scrittore Zen scrive:

"La coscienza zen è paragonata a uno specchio. Lo specchio è senza io e senza mente. Se arriva un fiore riflette un fiore, se arriva un uccello riflette un uccello. Mostra bello un oggetto bello, brutto un oggetto brutto. Rivela ogni cosa com'è. Non ha una mente discriminante, né coscienza di sé. Se arriva qualcosa lo specchio lo riflette; se scompare, lo specchio lo lascia scomparire… e non rimane alcuna traccia.
Tale non - attaccamento – lo stato di assenza mentale, o la funzione veramente libera di uno specchio – è qui paragonato alla pura e lucida saggezza del Budda. (Zenkei Shibayama, On Zazen Wasan, Kyoto, 1967, p.28)"

La metafora dello specchio gioca un ruolo importante nel pensiero orientale. (Cf. la voce "specchio" nell'indice analitico di Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. I-II, Einaudi, Torino, 2000)
Questa metafora non necessariamente si concilia col pensiero biblico secondo cui tutte le creature sono uno specchio del Creatore. Secondo il pensiero biblico noi vediamo nello specchio delle creature le perfezioni di Dio e per essere rendiamo lode. Il Creatore viene riflesso dentro le creature.
Nel pensiero orientale invece lo specchio e' qualcosa di assoluto. Dentro lo specchio, come dentro un caleidoscopio, il mondo fenomenico viene visto come qualcosa che appare e scompare, lo specchio stesso non riceve nessuna influenza. Riceve le immagini ma non ne trattiene niente. L'essere delle cose non è fuori dallo specchio, le cose come immagini che esistono solo quando riflesse dallo specchio.
In termini moderni, si può pensare alla proiezione di un film durante il quale si presentano ai nostri occhi delle figure magiche che sembrano vive, ma che subito dopo spariscono e muoiono. L'unico a soffrire o a gioire veramente del dramma rappresentato e' lo spettatore. Le immagini in quanto tali non hanno propriamente nessuna consistenza nè materiale ne' spirituale, sono solo un'illusione ottica provocata dalla tecnologia.
Se sviluppassimo questa metafora fino a farne una metafisica, ci troveremmo di fronte a quella che è la vera concezione del mondo orientale. In termini teologici, poi, questa rappresenta una forma di docetismo. La Rivelazione sarebbe il film proiettato che suscita innumerevoli emozioni, ma è solo nella mente dell'ascoltatore.

Questa dottrina del cosiddetto Nulla assoluto (無 mu), oppure del Vuoto assoluto (空), ha due aspetti. 1) l'Assoluto non si può esprimere a parole, l'unica via per esprimerlo e' il silenzio.
2)l'essere umano per quanto si sforzi non può raggiungere un cuore retto capace di cogliere l'Assoluto. Sarebbe come pretendere di levigare un mattone perché diventi uno specchio. Tutte le attività di tipo intenzionale non fanno altro che rinchiuderci nel mondo fenomenico. L'unica via che rimane aperta e' quella di una illuminazione interiore (satori).

Questa concezione monistica dell'Assoluto che non pensa ma solo riflette il mondo, fa da pendant alla meditazione Zen, in cui il cuore diventa come uno specchio, abbandonando cioè il pensiero, così da realizzare l'unione mistica con l'Assoluto. Per certi versi si tratta di una mistica alla portata di tutti, se presentata con sufficiente fascino. E' questo credo che l'ha resa molto popolare in Occidente, anche perché non richiede conversione.

Lo stesso film e' stato proiettato anche dalla Scolastica

A dir la verità anche in Occidente qualcosa di simile alla metafora dello specchio, lo possiamo trovare, anche se ha caratteristiche diverse, nella metafora (ma sarebbe meglio parlare di analogia) della Luce. Anche S. Tommaso nella Contra Gentiles, per caratterizzare la differenza dell' essere assoluto di Dio e quello relativo del mondo, usa la metafora della luce solare. Con la differenza che la luce ricevuta dalle creature non arriva fino alla partecipazione totale (unio mistica) con l'Assoluto.
(Cf. anche S. Th. I, 104, 1)

Dopo aver cominciato il suo viaggio di purificazione dalla "selva oscura" ed aver superato anche il regno oltremondano dei Purgatorio, Dante arriva nel Paradiso per completare la sua redenzione e incontrare finalmente Dio, termine ultimo del suo cammino di fede.
Tutta la cantica, dunque, risente dell'inquietudine del poeta sempre teso verso l'Assoluto, fine e completamente della sua esperienza: la quasi spasmodica attesa si manifesta anche stilisticamente nelle terzine dei Paradiso, che non a caso inizia e termina con l'immagine di Dio. Prima ancora dell'io narrativo, infatti, compare "la gloria di colui che tutto move": solo in un secondo momento si inserisce con umiltà Dante, allo stesso tempo orgoglioso e trepidante per l'avventura mistica che è chiamato a svolgere. Dante e Dio, dunque, si presentano come estremi opposti: l'Uomo, cioè il Finito, il limitato, e Dio, cioè l'infinito e l'illimitato.
La dicotomia, che è presente in maniera molto forte nel canto iniziale e in quello conclusivo di quest'ultima tappa della Commedia, viene però alla fine risolta: non a caso questi due termini opposti si incontrano nelle ultime terzine, o forse sarebbe meglio dire che, poiché il legame spirituale c'è sempre stato, avviene nella conclusione un incontro fisico, per quanto si possa parlare di fisicità in questo contesto, e proprio sul tema dell'intimo rapporto che s'instaura fra Finito ed Infinito si basa la suggestione del Paradiso.
Penetrando sempre più con lo sguardo nella luce, Dante riesce a vedere tutto l'Universo, tutti i suoi elementi costitutivi uniti insieme in Dio, divenire una sola cosa: tutto ciò che discende da Dio, quindi, trova armonia ed unità solo in Dio, cioè solo in seno al suo Creatore, perciò a Finito può trovare quiete solo congiungendosi con l'Infinito.
Figura simbolo della dicotomia Finito-Infinito è certamente Cristo: la sua duplice Natura, umana e divina unisce il finito e l'infinito, l'Uomo e la Divinità.
Analogamente a Gesù Cristo, si presenta come emblema dell'apparente contrapposizione tra limitato e illimitato, vincolo e Assoluto, anche la Vergine Madre: Maria, infatti, è l'anello di congiunzione tra il sommo Creatore e le sue creature. Mentre Cristo rappresenta la dualità tra umano e divino, la Vergine rappresenta quella tra Fattore e fattura, ma allo stesso modo si inserisce nel discorso sul Finito e sull'infinito: come il Creatore, infinito, tende alla sua creatura perché le infonde il soffio vitale di cui si parla nel canto 1, così questa, finita, tende nuovamente a Dio per colmare la sua imperfezione.
La doppia natura materiale e immateriale sembra costante in questi canti, come dimostra ulteriormente un altro tema, il tema della luce. Niente più di essa esprime anche in campo fisico la dualità tra Finito ed Infinito, tra materia ed energia, tra materiale ed immateriale: essa è entrambe le cose, come Cristo era Uomo e Dio, come Maria era creatura e creatrice e inoltre è diretta emanazione di Dio per gli uomini e per l'Universo, quindi strumento di comunione tra questi due termini in apparente antitesi. Solamente grazie alla luce, che si presenta come unica parte visibile e percepibile dell'Ineffabile per eccedenza, cioè Dio, Dante riesce ad avvicinarcisi sempre di più; solamente volgendo in essa lo sguardo, invece di perdersi nella sua intensità, l'Uomo riesce a trovare la via da seguire.
Diversamente succede in altre produzioni letterarie che trattano lo stesso tema, la tensione tra Finito ed Infinito, come ad esempio nel Romanticismo. La caratteristica di Dante è quella di aver risolto il distacco in una fiducia nell'Uomo, riflesso della fiducia in Dio, dunque un Finito che trova il suo modo d'essere solo una volta congiunto all'Infinito: una contraddizione solo transitoria, che dura il tempo di una vita, ma ben presto sciolta nel regno ultramondano, a cui l'uomo medievale tende come saldo punto di riferimento. li Romantico, invece, non vedrà la possibilità di una risoluzione di questa antitesi che vive come scacco, come condizione esistenziale insanabile, in modo che la tensione tra Finito ed Infinito è vissuta come languore, come Sehnsucht che, nonostante il recupero di una forte religiosità cristiana durante questo periodo, non può essere quietato nemmeno dopo la morte.
Con Tommaso e con Dante diventa possibile una esperienza estetica realista o sacramentale e non docetista. Sottolineo che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell'esperienza nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare, produrre, pensare, concepire, organizzare.La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.
Bisognerebbe, per un momento, saper osare e metterci dal punto di vista di Dio: "Come faccio a comunicare me stesso a degli esseri che sono di carne, che sono materiali (e anche spirituali allo stesso tempo), quando io sono assolutamente diverso? Devo scegliere dei mezzi adeguati a come sono fatti loro". Se io ora mi mettessi a parlare improvvisamente in giapponese, probabilmente nessuno di voi capirebbe. Per capirci dobbiamo comunicare in italiano che è la lingua che ci accomuna. La stessa cosa vale per la vita di Dio che ci viene comunicata, quello che i Padri greci chiamavano le "energie divine" di Dio.

Lo stesso film e' stato proiettato anche dalla Scolastica

A dir la verità anche in Occidente qualcosa di simile alla metafora dello specchio, lo possiamo trovare, anche se ha caratteristiche diverse, nella metafora (ma sarebbe meglio parlare di analogia) della Luce. Anche S. Tommaso nella Contra Gentiles, per caratterizzare la differenza dell' essere assoluto di Dio e quello relativo del mondo, usa la metafora della luce solare. Con la differenza che la luce ricevuta dalle creature non arriva fino alla partecipazione totale (unio mistica) con l'Assoluto.
(Cf. anche S. Th. I, 104, 1)

Dopo aver cominciato il suo viaggio di purificazione dalla "selva oscura" ed aver superato anche il regno oltremondano dei Purgatorio, Dante arriva nel Paradiso per completare la sua redenzione e incontrare finalmente Dio, termine ultimo del suo cammino di fede.
Tutta la cantica, dunque, risente dell'inquietudine del poeta sempre teso verso l'Assoluto, fine e completamente della sua esperienza: la quasi spasmodica attesa si manifesta anche stilisticamente nelle terzine dei Paradiso, che non a caso inizia e termina con l'immagine di Dio. Prima ancora dell'io narrativo, infatti, compare "la gloria di colui che tutto move": solo in un secondo momento si inserisce con umiltà Dante, allo stesso tempo orgoglioso e trepidante per l'avventura mistica che è chiamato a svolgere. Dante e Dio, dunque, si presentano come estremi opposti: l'Uomo, cioè il Finito, il limitato, e Dio, cioè l'infinito e l'illimitato.
La dicotomia, che è presente in maniera molto forte nel canto iniziale e in quello conclusivo di quest'ultima tappa della Commedia, viene però alla fine risolta: non a caso questi due termini opposti si incontrano nelle ultime terzine, o forse sarebbe meglio dire che, poiché il legame spirituale c'è sempre stato, avviene nella conclusione un incontro fisico, per quanto si possa parlare di fisicità in questo contesto, e proprio sul tema dell'intimo rapporto che s'instaura fra Finito ed Infinito si basa la suggestione del Paradiso.
Penetrando sempre più con lo sguardo nella luce, Dante riesce a vedere tutto l'Universo, tutti i suoi elementi costitutivi uniti insieme in Dio, divenire una sola cosa: tutto ciò che discende da Dio, quindi, trova armonia ed unità solo in Dio, cioè solo in seno al suo Creatore, perciò a Finito può trovare quiete solo congiungendosi con l'Infinito.
Figura simbolo della dicotomia Finito-Infinito è certamente Cristo: la sua duplice Natura, umana e divina unisce il finito e l'infinito, l'Uomo e la Divinità.
Analogamente a Gesù Cristo, si presenta come emblema dell'apparente contrapposizione tra limitato e illimitato, vincolo e Assoluto, anche la Vergine Madre: Maria, infatti, è l'anello di congiunzione tra il sommo Creatore e le sue creature. Mentre Cristo rappresenta la dualità tra umano e divino, la Vergine rappresenta quella tra Fattore e fattura, ma allo stesso modo si inserisce nel discorso sul Finito e sull'infinito: come il Creatore, infinito, tende alla sua creatura perché le infonde il soffio vitale di cui si parla nel canto 1, così questa, finita, tende nuovamente a Dio per colmare la sua imperfezione.
La doppia natura materiale e immateriale sembra costante in questi canti, come dimostra ulteriormente un altro tema, il tema della luce. Niente più di essa esprime anche in campo fisico la dualità tra Finito ed Infinito, tra materia ed energia, tra materiale ed immateriale: essa è entrambe le cose, come Cristo era Uomo e Dio, come Maria era creatura e creatrice e inoltre è diretta emanazione di Dio per gli uomini e per l'Universo, quindi strumento di comunione tra questi due termini in apparente antitesi. Solamente grazie alla luce, che si presenta come unica parte visibile e percepibile dell'Ineffabile per eccedenza, cioè Dio, Dante riesce ad avvicinarcisi sempre di più; solamente volgendo in essa lo sguardo, invece di perdersi nella sua intensità, l'Uomo riesce a trovare la via da seguire.
Diversamente succede in altre produzioni letterarie che trattano lo stesso tema, la tensione tra Finito ed Infinito, come ad esempio nel Romanticismo. La caratteristica di Dante è quella di aver risolto il distacco in una fiducia nell'Uomo, riflesso della fiducia in Dio, dunque un Finito che trova il suo modo d'essere solo una volta congiunto all'Infinito: una contraddizione solo transitoria, che dura il tempo di una vita, ma ben presto sciolta nel regno ultramondano, a cui l'uomo medievale tende come saldo punto di riferimento. li Romantico, invece, non vedrà la possibilità di una risoluzione di questa antitesi che vive come scacco, come condizione esistenziale insanabile, in modo che la tensione tra Finito ed Infinito è vissuta come languore, come Sehnsucht che, nonostante il recupero di una forte religiosità cristiana durante questo periodo, non può essere quietato nemmeno dopo la morte.
Con Tommaso e con Dante diventa possibile una esperienza estetica realista o sacramentale e non docetista. Sottolineo che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell'esperienza nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare, produrre, pensare, concepire, organizzare.La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.

P. Sequeri, Il Dio affidabile, Queriniana, Brescia, 1996.

Bisognerebbe, per un momento, saper osare e metterci dal punto di vista di Dio: "Come faccio a comunicare me stesso a degli esseri che sono di carne, che sono materiali (e anche spirituali allo stesso tempo), quando io sono assolutamente diverso? Devo scegliere dei mezzi adeguati a come sono fatti loro". Se io ora mi mettessi a parlare improvvisamente in giapponese, probabilmente nessuno di voi capirebbe. Per capirci dobbiamo comunicare in italiano che è la lingua che ci accomuna. La stessa cosa vale per la vita di Dio che ci viene comunicata, quello che i Padri greci chiamavano le "energie divine" di Dio.

Rivelazione in prospettiva multiculturale. Conclusione

In maniera molto sommaria, diremo soltanto che l'unità relazionale tra razionalità e fede, alla quale S. Tommaso d'Aquino aveva dato una forma sistematica, è stata progressivamente sempre più lacerata attraverso le grandi tappe del pensiero moderno, da Cartesio a Vico a Kant, mentre la nuova sintesi tra ragione e fede tentata da Hegel non restituisce realmente alla fede la sua dignità razionale, ma tende piuttosto a convertirla completamente in ragione, eliminandola come fede.
Nishida ha tentato una sintesi tra Hegel e pensiero buddista. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come ha acutamente segnalato Von Balthasar: "visioni del mondo pre-cristiane e coscientemente post-cristiane possono essere strutturalmente simili, ma nella loro più profonda intenzionalità rimangono essenzialmente differenti, perché oggi il lievito del Cristianesimo è penetrato in tutta l'umanità. Per questa ragione, nel villaggio globale di oggi, è diventato molto difficile trovare qualcosa che sia semplicemente "pre-cristiano", perfino in visioni del mondo (in Asia per esempio) che apparentemente sono rimaste le stesse da tempi pre-cristiani. Molto spesso esse hanno assorbito elementi di Cristianesimo (o almeno biblici) per mostrare che non hanno bisogno del Cristianesimo per mantenere la loro pretesa di totalità" (H.U. Von Balthasar, Epilogue, Ignatius Press, San Francisco, 2004, p. 18, mia traduzione).
Il concetto chiave a cui oggi si ricorre è quello di incontro delle culture, o "interculturalità", differente sia dall'inculturazione, che sembra presupporre una fede culturalmente spoglia che si traspone in diverse culture religiosamente indifferenti, sia dalla multiculturalità, come semplice coesistenza – auspicabilmente pacifica – di culture tra loro diverse.

L'interculturalità "appartiene alla forma originaria del cristianesimo" e implica sia un atteggiamento positivo verso le altre culture, e verso le religioni che ne costituiscono l'anima, sia quell'opera di purificazione e quel "taglio coraggioso" che sono indispensabili per ogni cultura, se vuole davvero incontrare Cristo, e che diventano per essa "maturazione e risanamento"

J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003.

L' esigenza della sintesi nella interculturalità non e' forse anche la lezione più importante che Tommaso ci ha lasciato e che permane valida anche oggi nel dialogo con le tradizioni religiose dell'Oriente, ma anche per la nuova mentalità creata dalla scienza e dalla tecnologia.
"Thomam aufer, mutus fiet Aristoteles" (rimuovi Tommaso e Aristotele resterà muto) così diceva Antonio Cittadini (aristotelico del Rinascimento, corrispondente di Pico della Mirandola). La sintesi di Tommaso, magari messa a serio confronto con Hegel, ci può aiutare a riproporre con rinnovato vigore la peculiarità della Rivelazione cristiana. Christum aufer, mutus fiet mundus. Ma forse si può anche dire: Thomam aufer, muta fiet Ecclasia in mundo.





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