Friday, November 30, 2012

松下幸之助

Thursday, November 29, 2012

La parola chiave dell’Anno della fede


L’arcivescovo di Philadelphia Chaput e il rinnovamento della Chiesa
La parola chiave dell’Anno della fede

PHILADELPHIA, 28. Rinnovamento, Chiesa, missione e fede. Sono queste le quattro parole che, secondo l’arcivescovo di Philadelphia, monsignor Charles Joseph Chaput, esigono maggiore attenzione nel contesto dell’Anno della fede. Il presule, durante un discorso tenuto nei giorni scorsi al Catholic Life Congress di Philadelphia, dal titolo: «Anno della fede: rinnovamento della Chiesa e della sua missione» ha sottolineato che «l’unica cosa che conta è essere santi. È ciò che dobbiamo essere. È ciò che dobbiamo diventare».
In merito alla parola “rinnovamento”, l’arcivescovo Chaput ha ricordato che «nel corso del tempo, anche il matrimonio più saldo può logorarsi per difficoltà e fatiche. Le coppie rinnovano le promesse matrimoniali per ravvivare e rafforzare il reciproco amore. La storia della
Chiesa è molto simile: quante volte è accaduto che la vita della Chiesa
sia divenuta routine; poi un ripensamento, e ancora stagnazione e cinismo, o peggio. Per il cambiamento, Dio ci dona santi come Bernardo di Chiaravalle, Francesco di Assisi, Teresa d’Avila e Caterina da Siena, per ripulire il cuore della Chiesa; in altre parole, per ringiovanirla. I santi riaccendono il “fuoco sulla terra” (Luca, 12, 49), perché così Gesù ha voluto che siano tutti i suoi discepoli. Ai nostri giorni — ha proseguito il presule — possiamo vedere questo
stesso agire dello Spirito Santo nel cammino neo-catecumenale, nel movimento di vita cristiana, nel Walking with Purpose, nella Fellowship of Catholic University Students e in tante altre forme apostoliche. Questi  nuovi movimenti ecclesiali rappresentano un momento di grazia molto importante per la Chiesa, compresa la Chiesa in Philadelphia».
Secondo l’arcivescovo, non bisogna avere paura, perché questo è esattamente il modo in cui cominciarono i francescani e altri ordini religiosi. «Dobbiamo accogliere cordialmente lo zelo che sta dietro a questi nuovi carismi, anche quando li mettiamo alla prova. La Chiesa ha sempre bisogno di cambiamento e riforma, ma cambiamento e riforma che siano fedeli a Gesù Cristo e al magistero cattolico. L’autentico rinnovamento è organico, non distruttivo».
L’arcivescovo, inoltre, ha analizzato la seconda parola: “Chiesa”.
«La Chiesa — ha detto — non è un “che cosa” ma un “chi”. La Chiesa ha forme istituzionali poiché deve lavorare nelle strutture legali e materiali del mondo. Ma la Chiesa è
essenzialmente madre e maestra, guida e consolatrice, famiglia e comunità di fede. È così che dobbiamo pensarla. E la Chiesa è la “Sua” Chiesa, la sposa di Gesù Cristo,
non la “nostra” Chiesa nel senso di possederla o di avere autorità per riscrivere i suoi insegnamenti».
Monsignor Chaput ha focalizzato l’attenzione sul grande vescovo del terzo secolo, san Cipriano, il quale scriveva: «Non puoi avere Dio per Padre se non hai la Chiesa per madre». «Dobbiamo appartenere alla Chiesa da figli e figlie. La Chiesa — ha aggiunto l’arcivescovo — deve vivere nei nostri cuori come ci vive la nostra famiglia, e radunarci la domenica per amarci e sostenerci a vicenda come famiglia, per lodare il Padre e per condividere il cibo che ci è donato nel Figlio. La liturgia festiva deve essere viva e piena di fede, celebrata con convinzione e gioia. La Chiesa di mattoni sarebbe un guscio vuoto se dentro le sue mura non si ardesse di zelo per Dio e per la salvezza gli uni degli altri».
La terza parola è “missione”. «La nostra missione, il nostro fine e impegno di discepoli di Cristo, è semplice: “Fate discepoli tutti i popoli” (Ma t t e o , 28, 19). Gesù voleva dire esattamente quello che ha detto, e quelle parole del Vangelo valgono per tutti, compresi io e voi. Dobbiamo portare Gesù Cristo a tutto il mondo e tutto il mondo a Gesù Cristo. La nostra missione — ha sottolineato il presule — discende direttamente dalla vita intima della Trinità. Dio Padre ha inviato il suo Figlio, il Figlio invia la sua Chiesa, e la Chiesa invia noi. Ovviamente, non possiamo convertire il mondo da soli. Non siamo chiamati al successo, che spetta solo a Dio. A noi
spetta di provare, di lavorare insieme e di sostenerci a vicenda da credenti e sempre chiedendo l’aiuto di Dio. Dio ascolta. Il resto è compito suo, ma noi dobbiamo provare.
Dobbiamo fare ben più che conservare vecchie strutture, dobbiamo essere missionari».
Infine, l’arcivescovo di Philadelphia ha spiegato il significato autentico della parola “fede”. «La fede non è un’emozione. Non è una serie di dottrine o concetti, benché queste giochino un ruolo importante nella vita di fede. La fede è fiducia nelle realtà invisibili basata sulla parola di qualcuno che conosciamo e amiamo, in questo caso Dio. La fede è dono di Dio. Lui sceglie noi.
Possiamo certamente chiedere il dono della fede, e quando ci è data, possiamo scegliere liberamente se accoglierla o no. Ma l’iniziativa è di Dio, e solo un incontro vivo e un rapporto vivo con Gesù Cristo rende la fede sostenibile. La fede — ha concluso — apre i nostri occhi sull’autentica realtà di Dio. Guardando con occhi nuovi, abbiamo ragione di sperare. E la speranza attiva la carità, facendoci superare la paura per vedere al di là di noi stessi le sofferenze e i bisogni degli altri. Si forma la storia e si promuove la vita, credendo in qualcosa più
importante di noi stessi. Così, la fede è la pietra d’angolo della vita cristiana, perché ci dilata, ci anima, è sempre all’opera. Se non è condivisa, muore. Ci conduce oltre noi stessi e ci fa rischiare»

Wednesday, November 28, 2012

La navigazione della fede

Un itinerario tra razionalità pura e intuizione metafisica


La navigazione della fede

Indifferenza è il nome nuovo e più pericoloso dell’ateismo



di GIANFRANCO RAVASI

Il tema della fede si può ignorare ma non evitare. Spesso,infatti, incrocia la strada persino di quelli che stanno andando altrove. San Paolo, che pure di questo era ben consapevole, si stupiva ancora leggendo e citando Isaia mentre scriveva ai Romani: «Isaia arriva fino a dire: Sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano » (10, 20). In piena rivoluzione sovietica, nel 1918, Aleksandr Blok componeva il poema I dodici e nel diario era costretto ad annotare: «Quando l’ebbi finito, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo?

Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!».

In questo Anno della fede vorremmo tentare — attraverso una serie di articoli, simili a vere e proprie puntate tematiche — qualche sondaggio molto libero e non sistematico nell’orizzonte dell’incredulità che, però, si incontra o si scontra con la fede, reagendo nelle forme più diverse.

All’amico Janouch, che lo interrogava su Cristo, Kafka rispondeva: «È un abisso di luce, bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi ». Lo scrittore franco-rumeno Emile Cioran, che si dichiarava di «professione atea», confessava di continuare a spiare Dio e, disarmato, annotava: «Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio. Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, Dio deve esistere. Pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove sull’esistenza di Dio, dimenticando la sola!».

L’esperienza di Paolo ci fa comprendere che la fede non è solo una questione dell’uomo ma anche di Dio. È lui che si mette sulle vie dell’umanità e si para innanzi alla sua creatura: sta alla persona, con la sua libertà, fermarsi o scansarlo o ignorarlo. Emblematica è la scena folgorante dell’Apocalisse (3, 20) ove Cristo sta alla porta e bussa. Se non passasse, noi resteremmo chiusi nella stanza della nostra storia e della nostra razionalità. Egli, però, interviene e tutta la storia della salvezza è proprio questo, cioè il passaggio del «Dio di carne che non sta cacciato in alto, incagliato tra le stelle», come scriveva il poeta russo Majakovskij nella sua raccolta lirica 150.000.000.

Tuttavia è indispensabile in quella scenetta dell’Apocalisse , un’altra componente: l’apertura della porta, ossia l’atto libero dell’uomo. Grazia e fede sono un binomio inscindibile, perché noi non siamo stelle o pietre o semplici bestie istintuali; in noi pulsa la libertà, la volontà, la scelta.

Solo dopo questo incontro tra noi e Lui, scatta l’intimità della comunione: «io cenerò con Lui ed egli con me».

Jean Cocteau nel suo Diario di uno sconosciuto curiosamente invertiva uno schema naturale: «Prima trovare, poi cercare». Questa è, appunto, la logica della fede, che assegna il primato alla grazia (“t ro v a re ”), ma ribadisce la necessità della libertà (“c e rc a re ”). Per questo, Bultmann aveva intitolato la sua raccolta di saggi Credere e comprendere perché la fede non è frutto di un itinerario meramente razionale, di un sillogismo stringente, di una dimostrazione matematica. È il Credo ut intelligam, il credere per capire di Agostino, seguito da Pascal secondo il quale «le cose umane bisogna capirle per amarle; le cose divine bisogna amarle per capirle». Nelle Lettere di Nicodemo lo scrittore polacco Jan D obraczyński osservava: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi.

Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?».

L’immagine del mare in cui gettarsi — che Robert Musil nel suo Uomo senza qualità aveva adottato per parlare della verità (un mare in cui procedere in ricerca) — è una delle simbologie più frequenti applicate al percorso di fede, a partire da sant’Agostino con l’idea delle diverse navigazioni necessarie alla conoscenza umana, razionale e teologica.

Uno dei più significativi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein, definiva la religione come «il fondale marino più profondo e calmo, che rimane tranquillo per quanto alte siano le onde in superficie». Già il grande scrittore mistico cinquecentesco spagnolo Frey Luis de León riconosceva che «in Dio si scoprono nuovi mari quanto più si naviga».

Se è lecita una testimonianza personale, dirò che, avendo approntato in questo mese una mappa essenziale della fede cristiana, l’editore “laico” non ha avuto esitazione nell’assegnarmi il titolo Guida ai naviganti, anche perché io stesso nel tracciare narrativamente l’itinerario del credere ricorrevo proprio a questa metafora.

Un aforisma orientale, però, va oltre mettendo in scena due uomini che s’addentrano «nel grande mare della religione: uno ne uscì vivificato e trasformato, l’altro vi annegò».

Aveva ragione, pur nel suo scetticismo, il filosofo settecentesco inglese David Hume quando dichiarava che «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, quelli della religione sono sempre pericolosi». Il fondamentalismo radicale lo insegna. Eppure la nostalgia dell’infinito è attaccata al cuore dell’uomo e la necessità di immergersi e di navigare è insita all’anima e alla mente che cerca di trascendere gli orizzonti limitati. Aveva, perciò, ragione anche un altro autore tendenzialmente scettico come Anatole France quando scriveva che «per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire ma anche sognare, non basta pianificare, bisogna anche credere». In questo infinito, che ci accoglie nel suo grembo, respira il mistero di Dio al punto tale che un maestro indiano al discepolo che gli chiedeva di aiutarlo a trovare Dio replicava che nessuno lo poteva guidare «per la stessa ragione per cui nessuno può aiutare un pesce a trovare l’o ceano».

Certo è che non tutti si azzardano in questa navigazione, né sono consapevoli delle onde dell’oceano che pure battono sulla loro pelle, preoccupati come sono di tutelare i confini della loro isola creaturale, finita e chiusa in se stessa (per usare un’altra immagine del filosofo Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus).

È questa la vera incredulità, cioè l’indifferenza rispetto a ogni altro quesito che riguardi l’Oltre e l’A l t ro trascendenti. Sartre nella sua opera Parole descrive la sua adolescenza con un padre protestante, che muore quando egli ha due anni, mentre la madre cattolica ripara dai nonni indifferenti.

Alla fine confessa di essere stato condotto all’i n c re d u l i t à «non dai conflitti dei dogmi, bensì dall’indifferenza dei miei nonni».

Anche la sua compagna, Simone de Beauvoir, rievoca la sua giovinezza nelle Memorie di una ragazza perbene con una madre devota e un padre indifferente. Alla fine la scelta è chiara: «Dio proibiva una quantità di cose ma non esigeva niente di positivo, all’infuori di qualche preghiera e di qualche pratica che non modificavano la vita». Simone abbandona, così, la via religiosa, deformata da questa concezione così minimalista e piccolo-borghese, espellendola dal suo orizzonte intellettuale ed esistenziale.

L’indifferentismo religioso è tendenzialmente il nome nuovo e più pericoloso dell’ateismo nella società secolarizzata contemporanea. Esso era già delineato da Cecilia, la protagonista della Noia di Alberto Moravia: «La religione è noiosa, al convento ho sempre avuto impressione che le monache s’annoiassero come si annoiano i preti e in genere tutti quelli che si occupano di religione.

Guardate mentre stanno in chiesa, vedrai che non ce n’è nessuno che non s’annoi da morire». Dio non è combattuto ma ignorato; non è oggetto di contestazione ma è considerato un tema insignificante, fastidioso e noioso. Spesso alla base c’è l’equivoco che identifica tout court religiosità generica e fede autentica.

La pratica religiosa, infatti, di non pochi cristiani si rivela segnata da ipocrisia, da compromessi morali, da un’adesione passiva alle tradizioni, da un perbenismo etico, da interessi politici e così via.

Ma questa, come insegna Cristo, è piuttosto una malattia della religione.

Eppure, unita al consumismo, alla superficialità imperante, alla caduta della morale, questa patologia genera in molti l’estinzione dell’interrogazione spirituale. Augusto Del Noce, in un suo intervento al primo Meeting di Rimini poco prima della morte avvenuta nel 1989, sottolineava che «un nuovo avversario del cristianesimo è cresciuto negli ultimi decenni: la forma di religione propria della società opulenta e consumistica. È un avversario più potente e pericoloso del comunismo ateo».

In questo orizzonte secolarizzato e spiritualmente grigio, vale la sarcastica considerazione del poeta e cantautore Jacques Prévert: «Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, disse loro: Continuate, ve ne prego; non disturbatevi per me. Fate come se io non esistessi!». Il suo nuovo “Padre nostro” è, allora, questo: «Padre nostro che sei nei cieli, re s t a c i ! » .

Ecco, allora, un interrogativo di base: nell’attuale cultura “debole” e “liquida” gli interrogativi forti e solidi della teologia hanno ancora la possibilità di risuonare?

È la domanda che lo stesso cardinale Joseph Ratzinger poneva sul tappeto nell’ormai famoso dialogo con Habermas: «L’eliminazione graduale della religione, il suo superamento dev’essere considerato come un progresso necessario dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della tolleranza universale?». L’impressione realistica — al di là delle molteplici analisi condotte (si pensi a quella imponente offerta dal saggio L’età secolare di Charles Taylor) — è che il “disincanto” e la “de-divinizzazione” (Entgötterung) operata dall’indifferenza religiosa tipica della secolarizzazione abbiano creato non tanto un progresso liberatorio quanto piuttosto un inaridimento morale ed esistenziale e uno svuotamento di senso.

La pur nobile fiducia nella tecnoscienza riesce a evadere solo le domande sulla “scena” dell’essere e dell’esistere, non sul loro “fondamento” e significato. Alla fine lo statuto di inerzia religiosa, che abbiamo abbozzato e che pone problemi seri e complessi all’evangelizzazione, alla pastorale e alla stessa cultura ecclesiale, può essere illustrato con la suggestiva ripresa dell’episodio evangelico di Zaccheo operata da Montale nella poesia intitolata appunto Come Zaccheo: «Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi. / Ahimé, non sono un rampicante ed anche / stando in punta di piedi non l’ho visto».

Fermiamoci per ora qui nel nostro viaggio dedicato al confronto spesso dialettico tra fede e cultura. Altre tappe sono possibili: ne selezioneremo in futuro alcune, nella consapevolezza che non sarà facile percorrere tutti i sentieri e i meandri del credere, memori delle battute del Faust di Goethe: «Chi oserà dire: Io credo in Dio? / Puoi domandare a preti o a saggi / e la risposta sembrerà prendere in giro / chi ha fatto la domanda (I, 3426-30)». 

Tuesday, November 27, 2012

7 存在観念の諸理論


7 存在観念の諸理論

 
 すべての人に共通とした、自発的に働く存在観念と、哲学的立場によって異なるそれの理論的記述との間に区別がもうけられた。我々の理論的記述が既にあげた。残るは、他の立場から提案された幾つかの見方と対照的に比較することによってさらなる解明を求めることである。
 パルメニデスにとって存在は一つであり、始めもなく終わりもなく、同質で分割不能、不動、不変、充満とした球体であった。

(原注:See F.M. Cornford, Plato and Parmenides (London: Routledge and Kegan Paul)28-52.)

 この立場の起源は次のようである。パルメニデスはブランク否定という選択肢を排除したから、肯定問選択肢しか残らなかった。肯定は合理的に根拠にある場合「真理の道」であり、合理的根拠のない場合は「うわべの道」となる。パルメニデスは「真理の道」に従うことによって自らの存在観念に至った。
 合理的肯定という選択はどのような存在理念に導くだろうか。肯定であればなんでも受け入れる人は、その肯定の意味の正しい名声、仮定、帰結をも受け入れなければならない。いかなる判断も文脈を必要としていて、肯定の文脈を肯定せずには元々の判断は意味を失ってしまう。こうして、合理的肯定は、一つの全体をなす諸判断の集合の肯定でなければならない。したがって、肯定されるものはその集合に匹敵する一つの全体である。
 肯定される一つの全体とは何か。適切な答えは、経験全体に探求と反省をし始めることにある。知られるべき全体は、正しい判断の全体に匹敵する。しかし、パルメニデスは近道をとった。彼は、存在が間接的な定義しかゆるさないという事実に気が付かなかった。彼が、存在観念を、”人間”とか”円形”というような概念と同じように扱った。彼が、存在観念は一定の仮定と一定の帰結をもった一定の本質であると思った。存在は存在するから、存在しないことはありえない。生成することも、消滅することもありえない。逆に、非存在も生成も消滅も、存在ではないから、それら三つは無でないといけない。また、存在は分化されえない。存在と異なるものは存在ではない、したがって無である。また、存在以内には差異はないので、運動や変化はありえない。最後に、空白、空っぽは無である。存在は無と違うから、空白ではありえない。したがって、充満している。などなど。


プラトンの形相〔イデア〕は,通常の感覚的経験を超越した,思惟的天界に投射されたものであった。それでプラトンの形相は,①審美的経験の,②数学者と自然学者の閃きの,③反省的理解による無条件のものの,④道徳的意識の,⑤知的・理性的な合目的的生活の,理念的な対象である。それらは混雑したカバンのようなものであり,『パルメニデス』は転換のきっかけとなって,形相の区別を描く必要性や,より完全な〔形相(イデア)についての〕理論を提示する必要性が明示されている。

 プラトンは『ソフィスト』のなかで,理性的な対話〔discourse: 言葉による思想の伝達〕を通じて存在のイデアに迫るものとして,哲学者を描いている〔254a〕。〔プラトンは〕それぞれの形相〔イデア〕が互いに孤立していることは,対話の可能性を排除してしまうことに気づいていた。対話の可能性は異なった形相、言い換えれば異なった範疇の結合にある〔259e〕。とすると、諸形相の間に混じり合うこと、相互参与があり〔259a〕、”偉大さ”や”公平さ”と同じように”非存在の形相”がある〔258c〕。

 〔プラトンのイデア論の〕立場の不適切さは,知性のレベルと反省のレベルとを区別するのに失敗していることに基づく。この区別なしでは,判断における無条件なものは,秘かにただの思考の対象に帰属させられてしまう。そのように帰属させるのは,それらの無条件なものを永遠の形相へ変換するためである。そしてその逆に「~である」と「~ではない」は,これによって判断は無条件のものを措定するのであるが,それらもまた形相であるとみなされるかぎりにおいてのみ,意味をもつことになる。これらの結果,形相がたくさんになり,それぞれが根源的にしかも永遠に,相互に他のものから区別された形相とみなされる。

------------
〔たとえば「これは犬である」と考えられるのは「これ」の形相,「は」の形相,「犬」の形相,「である」の形相のおかげであり,それぞれの形相は具体的なものから離れてイデア界に存在する永遠のイデア(形相)だと考えられる。判断は諸形相の統合として考えられる〕。
-----------

こうして、さまざまの形相の寄せ集めが出来上がるが、そうした根源的で永遠の形相同士は,理性的な対話を通じてのみ,到達されるものである。そしてもし対話がそれらの形相を参照するためのものであるなら,対話における統合的(synthetic)要素へと関連づけられるべく,それらの受け持ちが混じり合わなければならない。しかし相互に区別された形相同士の混じり合いとは何であろうか? p.389

こんな難問に答えようとする前に、こんな難題は実際に成り立つかどうかを定めた方がよいだろう。我々思うに、事実この設問は成り立たたない。判断に到達するまで、認識の増加は不完全である。判断に到達する前に統合的要素はすでに認識に含まれている。判断が加えるのは、反省のための質問だけであり、イエスかノー、「~である」か「~ではない」である。肯定される、または否定されるものは単独の命題でもありうるし、仮説を構成する命題の集合全体でもありうる。いずれにしても両方は条件づけられたもの、あるいは事実上無条件なものとして把握されうる。したがって、判断は単語の統合ではなく、そのような統合の無条件的な想定である。判断に対応するのは、諸形相の統合ではなく、事実の絶対性である。

プラトニズムは純粋な知りたい欲求への敬虔さにおいて目覚ましかったが,判断の本性を捉え損ねたことで、具体的な万有の事実から理念的な天界へと逸脱したことになってしまった。p.390


 アリストテレスは,判断を統合(synthesis)として定義することにおいて,プラトニズムによりそっていた(Ibid. 263; Aristotle, De anima, III, 6, 430a 26)。しかしかれは,知性のための問い(これは何か? なぜそうなのか? という問い)と,反省のための問い(それはそのようで在るか? ほんとうにそうなのか? という問い)とを峻別した(Posterior Analytics, II, 1, 89b 22-38)。その結果,アリストテレスは事実に対して健全で明晰な見方をもつことができた。事実の正確な含意には到達しないままで。

アリストテレスは経験論者のように事実を感覚的な充足に帰し,感覚的充足を通じて条件付けられたものは無条件のものとして把握される,などとは考えなかった。そうすることなく,実質上無条件であること〔条件をみたすかぎり必然的に肯定されること〕に事実を帰した。

しかし,アリストテレスに,次のような問うをすれば、かれが十分に考えなかったことについて聞くことになる。実質的無条件とは,わたしたちの知ることにおける第3の構成要素なのか,それとも,そうではなくて,実質的無条件とはただの肯定のゴム印のようなものとして,概念について,その感覚的な内容と知解可能な内容とが合致していることについて,ハン押しするものなのか,と。p.390

 この解決されていない曖昧さは,かれの方法論においてもかれの形而上学においても,現れている。アリストテレスにとって,究極の問いは,実在についての問いであった。すでに記述的な知ることにおいて,それは解決済みの問いであった。その解決は,説明のための探求において前提としておかれるようになった。

そして説明の機能は,単純に,或るものがなにものであるか(そのものは何か),なぜそのものはそれがもっているような属性をもっているのか,決定するものであった。説明の本来的に(intrinsically)仮説的な性格と,それがさらに実在についての検証的な判断を必要とすることは,見逃された。

また、アリストテレスは存在とは何か,問うた。その質問は,理解への要求を表明し,原因についての知識への要求を表明するものである。ごく自然に,アリストテレスは次のように答えた。存在の原因は,それに内在する形相である(Metaphysics, VII, 17)。

第一義的には,存在とは実体的形相によって構成されるもので,あるいは,第二の考えでは,実体的形相と質料とから構成されるものである。第二義的には,存在は付帯的(偶有的)形相によって構成されるものである。付帯的形相とは,すなわち「白」とか「熱」とか「強度」とかであり,これらは無ではないが,単純に存在者というとき意味されるものではない。

さらに、存在者とは実在する実体とそれらの実体の属性と,実体の付随的な変化とを寄り集めたものである。しかし,存在者は事実として実在していることを示すけれども,実在するということは,実体的形相の実在性reality以上のものではなく,実体的形相の主として内在する仮定と帰結に伴うものなのである()。p.391

 きわめて当然のことだが,こうした立場からは,存在者の観念の統一性について,問題がもちあがる。アリストテレスはかれの先行者であるパルメニデスやプラトニストたちと袂を分かって,存在者を具体的な万有としてとらえ,事実,万有が存在するとうりに知られるのであるとした。

しかし,つぎの点ではアリストテレスは先行者たちを袂を分かつことはなかった。すなわち。存在者の観念は概念的な内容である,という考えである。アリストテレスは,存在者とは何かと問うた。言い換えれば,アリストテレスは存在者とは何か概念的な内容であると仮定し,そしてアリストテレスは理解の内容の明示化(公式化)に先だって,何の理解の働きが起こることか尋ねた。

しかし,すでにみてきたように,存在者は間接的にのみ定義できるものである。だから,アリストテレスは,どんな特徴的な理解の働きをも示すことはできなかった。ところが,理解の目立ったタイプの働きは閃きであり,閃きは感覚的データに現れる可知的形相を把握する。だからアリストテレスは,存在論的な原理たる「形相」を,ものにおける存在(者)の基盤として示し,形相を把握する認識の働きを閃きとして,その閃きから存在者の概念的内容が起原するものとして,示した。p.391

こういうわけで、中世のスコラ主義は一つの問題を受け継いで〔しまった〕。存在の観念は一つであるか、それとも多数であるか。一つであるなら、その統一性は内容の統一性であるか、それとも多くの内容の関数の統一性であるか。

ガンのヘンリクス(羅: Henricus Gandavensis or Henricus de Gandavo 1217年頃 – 1293年)は、存在の統一性はただ単に名辞の統一性であると考えていたようである。神はある、我はある。両方の場合、存在が肯定される。けれども、肯定される現実は単にそれぞればらばらである。


ドゥンス・スコトゥス(Johannes Duns Scotus 1266年? - 1308年11月8日)が、名辞の統一のほかに、内容の統一もあると主張した。汝のいかなる一部分または一側面も、同一性のゆえに、我の一部分または一側面ではないが、それにもかかわらず汝も我も無ではない。であるから、無の否定によって消極的に表されるものを積極的に構成するなんらかの最小限度の概念的内容があるはず。それは何であるかは、他の積極的内容に訴えることによって宣言することはできない。なぜなら、それは思考の究極的原子であるから。単純に単純なものである。けれども、次の方法でそれに接近できる。つまりそれは、ソクラテスは人間を前提にし、人間は動物を前提にし、動物は生きた質料的実体を前提にし、実体は何か、実体よりもより少なく限定されるもの、より少なく排他的なものを前提にしているというふうに指摘することである。存在という概念は、最も小さい内包(connotation)と最大の外延(denotation)を持った概念である。しかも、本質上、抽象的な概念である。外延するのは、単なる存在では決してなく、無限か、それとも存在のある有限的な様態かである。様態というのは、さらなる内容あるいは区別できる内容として見るべきではなく、むしろ基本的な無制限な内容の内在的変数とみるべきである。


トマス・デ・ヴィオ・カイエタヌス(Thomas de Vio Caietanus 1469 - 1534)は、スコトゥスの見解に満足しなかった。それは、スコトゥスがガンのヘンリクスの見解に満足しなかったのと同様である。

6.当惑させる観念


6.当惑させる観念

(…)

 第一に,存在の観念は,理解の行為の表現または明示化から帰結するものであるか?
 他の概念は,それらの名前の使い方への,あるいはわれわれにとっての“もの”への,あるいはものそれ自体への,閃きの結果である。存在の観念は,他のすべての内容を貫徹し,それはすべての概念の明示化(公式化)において示されるものである。存在の観念は存在者への閃きの結果ではない,というのもそのような閃きとはすべてのものについてすべてのことを理解するようなものであり,そうした理解にわれわれは到達しえないからだ。存在者の観念は,すでに述べてきたように,無制限の対象に向けられた知的および理性的意識の方向性である。p.384

 第二に,存在の観念は本質をもつだろうか,あるいはそれ自体が一つの本質なのであろうか?
 他の諸概念が理解の行為の結果であり,理解の働きは或る観点から何か本質的なものを把握することであり,他の諸概念は諸本質である。さらに,他の諸概念が反省のための問いに先だって完璧なものであり,その反省のための問いはそうした本質が在るかどうかを問うものであり,他の諸概念はただ本質としてその実在性や現実性からは切り離されている。 しかし存在の観念は存在者についての理解の結果ではない。存在の観念は,或る観点から何か本質的なものについての把握に基づくのではなく,したがって存在の観念は,何かの本質の観念ではない。さらに,存在の観念は知性のレベルで不完全なものにとどまる。それは概念を反省のための問いへと前進させる。それは単一の判断を超えて正しい判断の総体へと進ませる。そしてだからそれは,実在性や現実性から切り離されてはいない。p.384

 第三に,存在者の観念は定義できるだろうか?
 存在の観念は,通常のどの仕方でも,定義することはできない。というのもそれはすべての定義の内容を支えるものであり,貫徹するものであり,それを超越するものであるからだ。しかしながら,存在の観念は,一定の決まった特徴をもっている。存在の観念はわれわれの知ることの無制限の対象に関わるもので,具体的な宇宙,在るものすべてに関わる。さらに,存在の観念は,われわれの知ることの構造が決まっているかぎりにおいて,決まったものである。したがって,存在の観念は間接的に,知性的把握と理性的肯定によって知られるものすべて関わるものであると,定義することはできる。他方で,そうした定義はわれわれの知ることにおいてどんな問いが適切で,どんな答えが正しいのかを定めるものではない。それは唯物論者が在ることは物であることだと主張するのをほっぽらかしにする。また経験論者が在ることは経験されることだと主張するのも許すし,観念論者idealistが在ることは考えられることだと主張するのも許すし,現象論者が在ることは現れることだと説明したりするのも許す。p.384-385


第四に,どうして存在という一つの観念がそのように多様な意味をもちえるのか?
 なぜなら,存在の観念は間接的にのみ決められるものだからだ。存在の観念は,正しい判断によって決定されるものの観念である。もし戦術的な正しい判断が,物質は実在する,そして物質だけが実在する,というものであるなら,唯物論者は正しい。もし戦術的な正しい判断が,現象がある,そして現象だけがある,とするなら現象主義者は正しい。同様に,他の立場を表明する命題が正しいなら,そのような立場からの存在が明らかになる。存在の観念は,どの立場が正しいかを決定するものではない。それはただ,知性が把握し理性が肯定するものが存在者であるとだけ,決定するのである。p.385

 第五に,存在の観念は,何か前提や属性をもっているだろうか?
 他の諸概念は決まった本質であり,だからそれらは前提や含意をもっている。もしXが動物ではないなら,Xは人間ではない。もしXが人間なら,Xは死すべきものである。しかし存在の観念は,何らかの本質の観念ではない。それはただ正しい判断が成されるに応じて決定されたものとなる。そして存在の観念が完全に決定されるのは,正しい判断の全体がなされたときである。しかし,判断することは決まったプロセスであって,このプロセスの本性を把握するのにすべての判断がなされる必要はない。この事実が,認識論を,具体的な宇宙の一般的な構造を決定するための操作の基礎とするのである。p.385

 第六に,存在者の観念は同名同義的かアナロギア(類比)的か?
 概念は同名同義的といわれるのは、それがすべての適用において同じ意味であるとき,一つの適用から他の適用へと移行するときに意味が体系的に変化する場合にはアナロギア的と言われる〔たとえば、挫折、把握、(Windowsは類比でもあり、同名異義的でもある)。存在の観念はそれがすべての内容を支えるかぎりで同名同義的といわれうるだろう。というのも,その観点からすれば,知りたい欲求とは一つであり,具体的な宇宙(万有)という無制限の対象もまた一だからである。また,存在の観念はそれが他のすべての内容を貫徹するかぎりにおいて,アナロギア的と言われうるだろう。この仕方でもって,esse viventium est vivere,つまり,「生きているものの存在は生きることである」,といえるのである。最後に,存在の観念は同名同義的でもアナロギア的でもないとも言える。というのも,この区別は概念に関わり,これに対して存在の観念は他の諸概念を支えるものであるとともに超越するものでもあるからである。しかし次のことは言っておいてもよいだろう。しばしば「存在(者)の類比 analogy of being」と呼ばれるものは,われわれが「存在(者)の観念は他の諸概念を支え,貫徹し,超越する」と言っているのと,まさに同じことである。p.385-386

 第七に,存在の観念は抽象的なものなのだろうか?
 或る観念が抽象的とされるためには,決まった内容をもっていて,その内容が他のいろいろな内容から抽象される〔人間という観念は肌の色を抽象する〕,という必要がある。存在の観念はなんであれ何ものからも抽象されてはいない。存在の観念はすべてを包括する観念である。その内容は正しい判断の総体によって規定される。

 しかしながら,さらに可能な判断のより大きな総体がある〔つまり、哲学的諸判断〕。そのなかには,戦術的な集合があって,その集合が具体的な宇宙(万有)の一般的な性格を明らかにする(定義する)のに寄与する。異なったいろいろな哲学によって観点が変わるのに応じて,である。そうした戦術的な諸集合については,すでに叙述された。たとえば,物質があって物質しかない,とか,現象があって現象しかないのだとか,思考があって思考しかないとか,われわれの知ることの構造は決定されていて、したがってわれわれの認識に比例する存在の構造は決定されている,とか。

 さて,そうした判断の戦術的な集合体のおかげで,具体的な宇宙の一般的な性格と,具体的な宇宙(万有)のその詳細のすべてとを区別することができる。十分明確に,具体的な宇宙(万有)の一般的性格の決定は,存在の抽象的な見かたである。というのも,それは存在者の全体を全体として考察するのではなく,存在者の全体をいくつかの戦術的な部分もしくは側面によって固定されたものとして考察するからである。

 このやり方で,「存在としての存在」〔アリストテレスの形而上学〕という言い回しの一般的な意味に到達するのである。しかし,何が存在としての存在であるかを決めるためには,どの特定の哲学においても,その哲学における戦術的な判断について検証しなければならない。そして何が存在としての存在の正しい意味であるかを決めるには,正しい哲学の戦術的な判断について検証しなければならない。p.386


Insight 386

第八に,存在の観念は,類〔たとえば動物〕なのであるか,種〔たとえば人間〕なのであるか,種差〔たとえば“理性的な”〕なのであるか?
 存在の観念が他のすべての認識的内容に対してより先であるかぎりにおいて,それは種差を加えることによって〔種へと〕区分けされるのを待っているところの類のようである。しかし,存在の観念が他のすべての内容を予測し,貫通し,そして包括するかぎりにおいては,それは類とは異なり,そしてそれ〔たとえば、麺類〕はその種差の内容〔うどん、そば、スパ〕とはまったく区別されたところの限定された内容なのである。

このようにして,存在者は赤い存在者,緑の存在者,青い存在者へと分類されることができる。そして色は赤い色,緑の色,青い色へと分類されることができる。しかし,赤の概念は,色の概念にはない内容もしくは内容の要素をもっていて,だから赤は色という類を,その類にはなかったものを追加することによって差異化するのである。他方で赤の概念は存在者の観念にはないようななんらの内容も内容の要素をももたない。赤の概念は存在者を,存在者がもたないものを追加することによって差異化することができない。存在(者)を離れては,ただの無であるからだ。p.387

 第九に,いまだ判断することなく考えるとき,〔甲〕人は存在者について考えているか,〔乙〕無について考えているかのどちらかだ。もし人が存在者について考えているなら,人は存在(者)について知るために判断することはいらなくなる。もし人が何も考えていないなら,すべての思考は同じものでないといけない,それはいずれも無を扱っているのだ。

--------
注:「思考するときは、存在を無視してそうするのである」(p. 377 下から2行目)参照。例えば、ケンタウロスやフロギストンについて考える(p. 378参照)。考えるのレベルですでに存在を考えるのであれば、判断に進む必要はないだろう。ところが、考える、理解を得ようとする作業は「目標的」なものである。どうしても、判断まで進むために考えるのである。認識の諸レベルはつながっている。

----------

考えて、概念化し、考察し、仮定し、または定義するとき、人は何らかの存在者に対してそうするのである。従って、我々は前者〔甲〕を取る。人が何について考えるかといえば,存在者についてである。さらに,存在者について考えるというのと,存在(者)を知るというのとは、それとはまた別のことである。存在者について考えるというのは認識の第2のレベル〔熟考と判断の前にある思考と理解のレベル〕におけることであり,知ることの完璧な増大への途上にあることである。しかし,それは不完全な増大以上のものには達しないのであって,その不完全さは判断によってのみ,補われるのである。p.387

--------
注:ローナガンはここで、おそらく「可能的存在」と「現実的存在」の区別を念頭に置いていると思われる。第二のレベルで、同じようにケンタウロスついてもと馬についても考えることができる(可能な存在)。しかし、実際の存在(現実態)が関係してくるのは、判断のレベルのみであって、そこで「これが馬だ」と肯定される。
----------


 第十に,存在の観念は,具体的な宇宙(万有)の観念である。しかし普遍(万有)的な命題は抽象的な命題であり,それにもかかわらず,そうした普遍的命題は判断において肯定されうる〔例えば、「引力なしには重量はない」。「人間には人権がある」〕。つまり,そのとき判断は,存在者についての判断ではないか,存在者が具体的なものではないか,どちらかである。

 存在の観念が具体的なものの観念であるのは,それが宇宙(万有)の観念であるのと同様にしてである。それが宇宙(普遍/万有)の観念であるのは,問いはもはやなにも尋ねることがなくなったときに止むからである。それが具体的な観念であるのは,具体的なものに到達されるまで,さらなる問いがあることになるからだ。だから,単一の判断ではなく正しい判断の総体が,具体的な宇宙(普遍/万有)に相当するのであり,それが存在なのである。

----------
注:つまり、単独の判断は存在のある側面〔重量〕にのみ関係する場合はその判断は抽象的でありうる。けれども、その判断は真でありうるのは、正しい判断の総体の内である。存在の全体性と存在の様々な側面という区別は前提になっていると思われる。すべての単独の判断は正しい判断の総体に含まれる。存在の部分的側面の総括は、存在全体となる。(Tekippe)
-----------

 普遍的命題の問題は,分析的命題を,形式的(形相的)と質料的側面とに区別することによって解決できる。形相的には,分析的命題は①条件付けられたものであり,②単語の部分的で道具的な意味が文節の完全な道具的な意味へと融合する,その融合について統治するところの法則によって,その条件に連結されたものであり,③その条件をそれが用いる単語の意味や定義によって充足されたものである。質料的には,分析的命題は,用いられた用語や関係が①事実についての具体的な判断において生じるものとしてと知られうるかぎり、②事実についての具体的な判断において生じるものとして知られえないかぎり,または③事実についての具体的な判断において生じないと知られうるかぎりで,異なるものである。p.387

 形式的には,すべての分析的命題が具体的な万有へと関連するのは,統語論的(構文論的 syntactical)な諸法則が,不完全な道具的な意味を完璧な道具的な意味へと連合(融合)させるその連合(融合)の事実的側面となっているかぎりにおいてである。質料的には,いくつかの分析的命題が具体的な万有に関連するのは,第一のケースのように事実においてか,第二のケースのように試験的にである。p.388


-----
Analytic principle (p. 333)参照。
------



Wednesday, November 14, 2012

Il passo breve dall’ateismo alla dittatura

pagina 4 L’OSSERVATORE ROMANO mercoledì 14 novembre 2012






C o n g re s s o mondiale di metafisica D all’8 al 10 novembre a Roma si è svolto il quinto Congresso
mondiale di Metafisica; l’arcivescovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha tenuto una
relazione di cui riportiamo alcuni stralci.



Esperienza del mondo reale e conoscenza di Dio



Il passo breve dall’ateismo alla dittatura



di GERHARD L. MÜLLER



«L a vita è troppo breve perché si beva vino cattivo ». In tale pittoresco adagio si rispecchiano le multicolori visioni del mondo di stampo epicureo che caratterizzano le élites postmoderne.

All’infantile caparbietà di simile nichilismo, vorrei qui opporre l’ottimismo della visione cristiana del mondo e dell’uomo. Quell’ottimismo che san Paolo esprime con entusiasmo nella Lettera ai Romani: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (12, 12-13). È un fatto che la vita dell’uomo sulla terra sia breve, e quanto più passano i suoi giorni, tanto più ciascuno percepisce la brevitas vitae come una sfida esistenziale.

Ma proprio questo è il punto: merita profittare del tempo quale risorsa per destarsi dal sonno dell’ideologia

dell’autorealizzazione e dell’uomo che si costruisce da sé. «La vita è troppo breve perché ci si logori con una cattiva filosofia». Infatti, per dirla con parole di Gaudium et spes, «di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo?

Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (n. 10).

Perché libri del tipo Il gene egoista o L’illusione di Dio di Richard Dawkins o Dio non è grande di Christopher Hitchens figurano nelle liste dei b estseller? Perché giustificano in modo apparentemente scientifico il processo di scristianizzazione della civiltà europea e nordamericana, cominciato
nel diciassettesimo secolo, e promuovono uno stile di vita edonistico improntato all’utile e al profitto quale indice di morale filantropica e umanitaria.

Il cosiddetto “neo-ateismo” non offre, a dire il vero, nessun tipo di nuove fondazioni, che già non sia possibile ritrovare chiaramente formulate in David Hume e in tutti coloro che da allora in poi sono appartenuti e appartengono alla schiera degli empiristi e dei materialisti.

Semplicemente ci si sforza, nell’orizzonte della teoria evoluzionistica e della neurofisiologia, di estendere
l’approccio tipico delle scienze naturali, così che astrofisica, biologia e ricerche sul cervello determinino una
visione del mondo scientifica e, come si pretende, oggettiva, in cui non si dia più posto alcuno per l’uomo
quale persona come soggetto responsabile di atti, e per il suo rapporto personale con Dio. Simile visione
del mondo pseudo-scientifica propagandata dal neo-ateismo viene ai nostri giorni esaltata come programma

di opinione da imporre all’intera umanità, per cui, se qualcuno crede all’esistenza di un Dio personale, a costui non deve essere concesso diritto d’esistenza né mentale, avendo contratto un “virus divino” che richiede di essere isolato, né fisica, e deve perciò essere considerato un parassita. Volgendo uno sguardo retrospettivo sull’ateismo politico coltivato dal nazionalsocialismo in Germania o sul programma stalinista di estinzione della Chiesa, realizzato nell’Unione Sovietica, risulta ancora più evidente il carattere disumano e intollerante di tale neo-ateismo. Appare infatti chiaro che il cosiddetto ateismo scientifico difficilmente può opporre resistenza al suo stesso trasformarsi in ateismo quale visione globale del mondo e dunque quale programma politico-totalitario di assoluta disumanità.

Per garantire il progetto moderno della libertà dell’individuo dalla collettività, della coscienza personale rispetto alla legge meramente positiva, della dignità inalienabile di ogni uomo rispetto alla strumentalizzazione
d’interessi di gruppo (classe, popolo, capitale, e così via), è indispensabile una metafisica del reale così come un’antropologia della trascendenza dell’uomo verso la fonte indisponibile di tutta la creazione.

Una metafisica dell’essere e la conoscenza di Dio, nel senso della teologia filosofica, non sono solo d’interesse storico, ma la condizione di possibilità per cui il progetto della modernità non naufraga nella dialettica dell’illuminismo. Per questo, ai nostri giorni, come all’inizio del cristianesimo, più importante del dialogo con le religioni, pare quello con la ragione umana come tale, al fine di ritrovare un accesso integrale alla realtà data, ciò che apre le porte all’elaborazione di una teologia naturale.

Non dobbiamo ritornare a una forma passata di metafisica, per mostrare la ragionevolezza di tale approccio
e dei contenuti della rivelazione soprannaturale di Dio in Gesù Cristo, di fronte alla visione del mondo derivata dalle scienze naturali e alla riflessione filosofica scaturita dalla modernità. Partiamo invece dall’esperienza del mondo reale nell’intento di giungere a un’autocomprensione riflessa — ciò che l’essere “spirito” rende all’uomo possibile — e a una conoscenza di Dio, non in se stesso ma in quanto il mondo si pone in relazione con Lui, quale origine e termine di tutto l’essere finito, incluso l’uomo. L’uomo riconosce se stesso come persona solo alla luce di tale orientazione trascendente.

Solo in Dio incontra la pace nella sua ricerca della verità e nella sua tensione al bene.

Il discorso su Dio non può dunque cominciare dal suo puro essere in-sé, come se potessimo astrarre dal mondo esistente. La ragione finita e creaturale comincia sempre dall’esperienza del mondo già esistente. “D io” sta qui a significare il punto di provenienza dell’essere e dello spirito, senza essere da parte sua una specie di oggetto mondano che viene solo aggiuntivamente conosciuto.

L’uomo è sì in linea di principio e costitutivamente determinato, come spirito, dal riferimento a Dio, per lui inevitabile e di cui non può disporre. Egli deve però prender coscienza a posteriori di tale momento aprioristico e trascendentale

della sua auto-attuazione. Con ciò Dio non diventa un oggetto categoriale: appare solo come l’orizzonte
non abbracciabile verso cui ci muoviamo e da cui sappiamo di derivare in un senso assoluto. Lo spirito non
si trascende però solo intenzionalmente in direzione dell’infinito, ma si sa costituito proprio nella sua intenzionalità dall’assoluto non mondano di Dio. Esso si coglie in ultima analisi solo mediante la realtà del Dio trascendente.

Noi concepiamo il concetto di “D io” come la condizione reale del nostro essere come spirito nel mondo
e quindi anche come la condizione della realtà finita. Mentre Dio è la propria essenza mediante l’assoluto
possesso dell’essere, il mondo è realtà mediante una ricezione dell’essere sotto forma di partecipazione all’essere che lo rende finito. Il mondo partecipa all’essere di Dio, perché può esistere mediante la volontà di Dio, e precisamente nel modo della finitezza, mentre Dio sussiste mediante se stesso, in se stesso, in virtù di se stesso e attraverso la sua propria realtà.

L’azione creatrice di Dio è il permanente inserimento del mondo nell’attualità di Dio e la sua realizzazione
mediante Dio. Nell’uomo la storia naturale dell’essere trapassa nella storia dello spirito e l’uomo
non può perciò che concepirsi come ricezione spirituale perfetta dell’essere reale da parte della sua essenza,
in cui egli sussiste come persona, nel modo, cioè, dell’e s s e re - p re s s o - d i - s é .

La creazione dell’essere e dello spirito finito indica perciò già in sé l’apertura di un orizzonte illimitato
per un’esplicita auto-manifestazione di Dio nella sua Parola.

In altre parole, il Creatore viene incontro all’uomo in maniera personale come il compimento dell’autotrascendenza che determina lo spirito creato, attirato dallo Spirito incre a t o .

L’atto unico, atemporale e indivisibile della creazione coincide, al di fuori delle cose create, con l’attualità di Dio.

Il rapporto tra la produzione assoluta dell’uomo e della sua libertà a opera di Dio e l’auto-movimento
spirituale dell’uomo, che costituisce la sua libertà, potrebbe essere così espresso: Dio non esercita alcun influsso fisicamente misurabile sulla libertà creata, andandole invece incontro come motivo del suo agire.

Dio, quando mi viene liberamente incontro nella parola divina che lo esprime, si attualizza sempre come
compimento della mia libertà: Dio e la sua libertà permettono al movimento dinamico della libertà creaturale
di attuarsi pienamente al di là dei suoi limiti creaturali. L’uomo, per il quale Dio è diventato il movente della sua azione e della sua auto-progettazione nel mondo, sa di essere — per dirla in termini biblici — una specie di argilla nelle mani del creatore che lo plasma. Nello stesso tempo però, non si vede così esautorato e privato della propria libertà e personalità. Al contrario, si sperimenta piuttosto come abilitato ad attuare la propria libertà. Nel mentre la attua, sa che soltanto grazie all’auto-donazione di Dio come compimento della sua libertà egli è abilitato ad agire in ordine al fine.

L’attuazione che si muove verso il fine è resa possibile solo dalla presenza diretta del fine: la libertà è abilitata dalla grazia ad accogliere, autoattuandosi, la sua accettazione da parte di Dio. Nella grazia, Dio si rivela come la fonte eterna della libertà creata e come il suo orizzonte eterno sotto forma di amore. La forma della libertà umana, quindi, non si realizza nell’opposizione a Dio, come vorrebbe l’ateismo postulatorio, ma solo sul fondamento della perfetta libertà spirituale di Dio. Se Dio viene esaltato, anche l’uomo viene esaltato di conseguenza. La salvezza dell’uomo non può che arrivare dal Dio che offre liberamente all’uomo la sua grazia.

Paolo pertanto scrive: «Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene.

Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Efesini, 2, 8-10).

Su questa scia, il concilio Vaticano II insegna: «Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati. Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (Gaudium et spes, 10).

Tuesday, November 13, 2012

Resurrezione


Avvenire 12 nov 2012

DIALOGHI
Dolto, Vangelo e psicoanalisi
«Quando leggo i Vangeli, io incontro qualcuno. Attraverso i generi, le immagini, fantasmi letterari dei Vangeli, scopro un’umanità che si esprime, una personificazione così straordinaria, una carnalità così profonda che hanno del divino. In un racconto come lo scritto evangelico, così pieno di “natura” fin nei dettagli apparentemente incoerenti o alogici, trovo una coerenza al di là degli aspetti che possono apparire stravaganti. I Vangeli producono in me delle onde d’urto, di cui cerco di rendermi conto.

Con la psicoanalisi si va sempre oltre: a ogni risposta, si scopre un’altra domanda. Ma la psicoanalisi non spiega tutto. A un certo punto si ferma perché l’umano si ferma, non può andare oltre. Ma il desiderio ci trascina sempre oltre… Allora, è o il nonsenso e l’assurdo oppure è il senso che continua a interrogarci nel più profondo di noi stessi fin nel nostro inconoscibile; e questo, per me, è il campo di Dio. Aggiungo che la resurrezione è un evento che non è mai stato negato dai cristiani. È anche a partire da tale evento che la civiltà cristiana si è strutturata. Il “risveglio” di Gesù è la base stessa della fede di tutti i cristiani. Questo “risveglio” dalla morte è una testimonianza che sento veritiera, autentica: sento che, quali che siano le morti che ho subìto, ne sono tornata “risvegliata” poiché sono viva».

Ma, da quali morti è risuscitata? Quali morti, già da adesso, l’hanno risvegliata a un’altra vita?
«Ma, via, abbiamo vissuto molte morti, lei e io! La morte del feto quando nasce il bambino. La morte nel bambino il quale, credendo che suo padre e sua madre facciano le leggi del cielo e della terra, si accorge che essi non sono onnipotenti! Che perdita di fiducia nei propri genitori! Più tardi, che morte nel momento della pubertà! Amo un essere con tutta la mia fede, con tutta la mia immaginazione, con tutto il mio corpo e, disgraziatamente, scopro di essergli del tutto  indifferente! Dopo essersi divertito un po’ con il mio amore, si allontana da me per un’altra! Facciamo continuamente l’esperienza della nostra immaginazione impotente sulla realtà, poco conforme ai nostri sogni, eccetera. Tutta questa vita, mi dica lei, non è forse una morte permanente? Siamo esseri che scoprono, un giorno dopo l’altro, la propria impotenza. Un’impotenza che è sempre una morte per il nostro desiderio che vorrebbe essere onnipotente. È questo rischio ad accompagnare la nostra vita di viventi, amanti, desideranti, dandole anche senso».

In fin dei conti, rinasciamo dalle nostre ceneri?
«È vero. Continuiamo a risorgere… Continuiamo a vivere ricostruendo su lutti, morti, separazioni che spesso ci provano molto profondamente. Rinasciamo al nostro desiderio dopo aver lasciato in ogni nostro piacere, in ogni nostro tentativo, un po’ di noi stessi, della nostra speranza o delle nostre illusioni. Eppure, la speranza rinasce e il desiderio è sempre dentro di noi, e canta di nuovo il suo richiamo se rimaniamo in buona salute!... È questa paura che Gesù, durante tutta la sua vita, vuole farci superare: “Non abbiate paura!”. Non ripete forse questa frase come un leitmotiv? Egli stesso è giunto fino in fondo al suo desiderio: fare ciò che il Padre voleva. Non ha avuto alcun pensiero di vendetta contro coloro che lo torturavano e lo condannavano ingiustamente a morte, non si è mai sottratto, non ha mai schivato quella morte malgrado i tormenti dell’angoscia nel Giardino degli Ulivi. Tutto il suo essere accettava volontariamente di servire il desiderio inconoscibile che, attraverso di lui, doveva realizzarsi per salvare tutti gli esseri umani dalle angosce del loro desiderio mascherato dall’orrore del peccato, terrorizzato dalla morte fisica».

Secondo lei, Gesù è venuto a insegnarci a vivere il nostro desiderio. Ma, allora, perché è risuscitato? Che cosa aggiunge la sua resurrezione?
«Noi siamo esseri di carne, cerchiamo la soddisfazione del nostro desiderio, il godimento della carne. Ma mai questa carne e i piaceri che essa ci procura ci bastano né ci appagano. Gesù risuscitato ci insegna che se cerchiamo in spirito e in verità, affrontando il dubbio e la sua prova, se superiamo la carne senza bandire i piaceri condivisi, senza fare l’economia dei rischi per il nostro corpo, oltre la morte troveremo la pienezza del nostro desiderio».

Parliamo ora dei testi dei Vangeli. Che cosa la colpisce innanzitutto in questi passi che riferiscono, ciascuno a suo modo, che il Cristo si «risveglia» dalla morte?
«Quello che mi colpisce, o meglio, quello che mi commuove, è la gioia. Ogni apostolo, ogni donna, ogni discepolo si mette in cammino per avvertire gli altri e comunicare che il Cristo non è morto ma vive. Ognuno annuncia a tutti il suo incontro con lui, la propria scoperta e la propria gioia. Questo dono della gioia è il primo “frutto”, il primo effetto di tale avvenimento. La gioia non è divertimento né piacere, la gioia è un’emozione profonda che invade tutto il nostro essere, che ci esalta e ci fa sfavillare. Così, gli amici che vanno verso Emmaus si sentono il cuore ardere e, subito, ritornano a Gerusalemme a trovare gli Undici. “Vedendo il Signore, i discepoli furono felici”, eccetera. Sento, in tutti questi testi, lo choc o lo stupore; poi, passata l’incredulità, la gioia sconvolgente del ritrovarsi e, subito dopo, la familiarità, la sorpresa davanti alla trasformazione di Gesù. È davvero sconvolgente e gioioso, anche per me».

Dopo la morte, noi dunque ci svegliamo, come dice il Vangelo, attraverso il Cristo, a un’altra vita…
«Sì, credo di sì. Lo spirituale, non essendo consumo carnale, porterà una gioia indicibile nelle nostre parole attuali, poiché il piacere nel godimento del corpo è solo una metafora, un’analogia. Scopriremo allora il desiderio dello spirito soltanto sfiorato, presentito nell’amore di adesso. Sì, credo che potremo, in spirito, conoscere la verità dell’amore e un godimento di cui non abbiamo alcuna nozione prima di essere passati attraverso la morte».

Che cosa aggiungiamo noi alla comprensione della resurrezione di Gesù?
«Non dico che aggiungiamo qualcosa! Il mistero rimane sempre. Mi sembra che parlandone come abbiamo fatto, entrambi abbiamo provato innanzitutto della gioia; e poi ci siamo posti fra quei cristiani, giacché proprio questo è il loro nome: coloro che credono al Vangelo perché Gesù è morto e si è “risvegliato”».

Françoise Dolto

Monday, November 12, 2012

Trinity


三位一体の主日


三位一体の神秘を最初に本質的に体験したのは、イエスの弟子たちでした。イエスの死後、生きる意味を失って絶望し、まさに死んだも同然だった弟子たちは、突然のように神の愛に包まれて真実のイエスに出会い、神の愛の真理に目が開かれます。いわゆる「復活体験」ですが、この体験によって彼らは神をまことに親であると実感し、イエスはその神の現れである救い主キリストであると悟り、神の愛そのものである聖霊の喜びに満たされました。「復活体験」は「三位一体体験」だったのです。それは観念ではなく体験です。人の知恵による理解ではなく、神がご自身をそのように「啓あ(ひら)」いて「示」した、「啓示」の出来事です。
弟子たちはそれを、個人的な体験としてではなく、永遠なる一つの愛によって、みんなが一つの命を生きる、いわば「教会的な」出来事として体験しました。
「イエスは神の恵みのうちに復活して、今もいつも、永遠の命を生きている」。
「それによって私たちは父と子と聖霊の交わりに招き入れられ、真に生きる者となった」。
「私たちは聖霊の働きに満たされて、今、一つの体になっている」。
これらの理解は、弟子たちの共通体験によるものです。イエスの復活とは弟子たちの復活体験でもあり、教会の三位一体体験なのです。
 大勢の弟子たちがそのような共通の体験をしたことは驚くべきことですが、そのような体験がなければキリストの教会が誕生するはずもありません。すべてを十字架上でささげたイエスの愛が神の愛であることを聖霊の働きによって知った弟子たちが、神の本質をごく自然に「三位一体の神」として実感したのは当然のことであり、初代教会は、それを「父と子と聖霊」と表現したのでした。

ところで、この「三つであり同時に一つである」というのは、一見、抽象的で哲学的な観念のようにも思えますが、実はだれでもごく普通に理解していることでもあります。それはたとえば実際の「親」と「子」と「親心」の関係を考えてみても、すぐにわかることです。
 まず「親」。親は、子がいてこそ親でありえます。「子供がいない親」なんて、言葉の遊びとしては成立しても、実際にはありえません。
 次に「子」。子は生んだ親がいてはじめて子でありえます。生後親を失うことはあっても、始めはいたはずです。だれかが生んだからこそ存在しているわけですから。
 そして「親心」。親と子は、愛によって結ばれています。わが子にどうしても存在してほしいと願い、実際にわが身を削るようにして生み、その子を全面的に受け入れて育てる親心があるからこそ、親子は親子になる。親心がなければ子は生まれないし、たとえ生んだとしても親心で愛さないならばもはや親子とは呼べません。親の愛の有無は、それが親子であるかどうかの前提条件です。親心なしには、親も子も存在しないということです。
 子と親心がなければ親になれない。親と親心がなければ子はいない。親と子がいなければ親心もない。つまり、「親」と「子」と「親心」は、それぞれ単独では意味をなさない三位一体的な存在なのです。親と子と親心は、その三つが一つになってはじめて「親心によって結ばれている親子」という意味をもつわけです。それも、初めは親と子と親心がばらばらで存在していたのが後で一つになったわけではなく、初めから親と子と親心は一つに結ばれていたし、それはいつぃまでも一つです。
 もちろん、神が三位一体の神であり、父と子と聖霊が一つであるという神秘を完全に理解することはできません。しかし、真理は単純であり、その真理によって人間が救われるのだということを忘れてはなりません。キリスト教の核心となる真理は、だれにでも理解できて、だれをも救うものでなければならないのです。
 このように、三位一体の神は親子の類比によって深く味わうことができますし、まさにそれを味わうことこそが、人に救いをもたらします。だれもが父と子と聖霊の交わりの神秘の中へ入るように招かれています。ということは、だれもが、すでにその神秘を直感する暗黙の知恵を与えられているということでもあります。その直感に導かれ、キリストとともに三位一体の交わりに入るときこそ、人は復活体験にあずかっているのです。(晴佐久昌英著、『十字を切る』、女子パウロ会、140-143)

Sunday, November 11, 2012

Teilhard de Chardin, De Lubac, Vat. II


Come Pierre Teilhard de Chardin trovò un appassionato difensore
Un avvocato al Vaticano II
Lo sforzo di Henri de Lubac per far conoscere il pensiero autentico dell’amico


sabato 10 novembre 2012 L’OSSERVATORE ROMANO, pag. 5.

di ÉRIC DE MOULINS-BEAUFORT * *Vescovo ausiliare di Parigi


Il 9 e il 10 novembre convegno alla Gregoriana
Nel testo qui pubblicato anticipiamo stralci della relazione che il vescovo
ausiliare di Parigi tiene nel corso del Convegno europeo Teilhard
de Chardin, intitolato «Sfide antropologiche di oggi. Una lettura
di Pierre Teilhard de Chardin per una evangelizzazione rinnovata. A
cinquant’anni dal concilio Vaticano II» che si svolge
a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana, il 9 e il 10 novembre.


È noto che Henri de Lubac è stato un amico di Pierre Teilhard de Chardin. Dopo il loro primo incontro, Henri de Lubac
fece subito parte dei corrispondenti di Teilhard e fu tra quelli a cui Teilhard teneva a far visita quando passava per Parigi. Teilhard sottoponeva a Lubac alcuni suoi testi, fiducioso nel suo parere di teologo, ma capitava che
non fossero d’accordo. È per questo che Teilhard ha potuto qualificare Lubac come un “c o n s e r v a t o re ”, prigioniero di certe rappresentazioni classiche del tempo e dello spazio.
Durante tutto il periodo preparatorio del Vaticano II, e durante tutto quanto il suo svolgimento, Teilhard ha notevolmente
occupato le menti, per lo meno nel mondo cattolico, sia quelle di chi lo riteneva una promessa, sia quelle di chi lo giudicava pericoloso. Lubac è stato considerato il suo avvocato autorizzato, e questo gli ha richiesto una multiforme attività, per difenderlo ma anche per liberarlo da erronee interpretazioni. Lubac, teologo, pur senza sentirsi teilhardiano, ha scoperto nel pensiero dell’amico ciò che avrebbe consentito alla Chiesa di trarre i migliori frutti dal
concilio.
Se Lubac ha scritto molto su Teilhard, è perché aveva ricevuto dai quattro padri provinciali di Francia, approvati dal superiore generale della Compagnia di Gesù, l’incarico di esporre il pensiero del suo anziano confratello per liberarlo
dalle erronee interpretazioni che cominciavano a proliferare. Era l’inizio dell’estate 1961. Ne è risultato un lavoro di quasi un decennio, del quale Lubac ha potuto dire che lo aveva molto assorbito e che non era sempre stato dei più
affascinanti. Il primo libro, La Pensée religieuse du Père Teilhard de Chardin, fu scritto in pochi mesi e
pubblicato nella primavera del 1962, poco prima dell’apertura del concilio.
Nel corso delle riunioni preparatorie, la Curia e, soprattutto, un certo numero di teologi “ro m a n i ”
erano ancora intenti a preparare un concilio classico di condanna delle opinioni pericolose per la fede, e
Lubac, che vi prese parte, poté constatare quanto Teilhard fosse considerato il bersaglio ideale.
Quelli che avevano preparato lo schema De deposito fidei, sul deposito della fede, o quello De ordine morali, ambedue respinti dai Padri conciliari, vi avevano inserito una condanna, certo non esplicita ma tuttavia chiara e determinata, del
gesuita francese.
Henri de Lubac fu profondamente colpito nel constatare che il pensiero dell’amico veniva attaccato
sulla base di alcuni testi brevi, tratti fuori da qualunque contesto, che non erano stati minimamente analizzati in modo serio, ed era preoccupato che i padri conciliari potessero pronunciare la condanna di un pensiero senza che fosse stato loro fornito alcun mezzo efficiente per darne una seria valutazione.
Nei Carnets du Concile, che contengono gli appunti di Lubac presi durante il periodo ante-conciliare e le prime sessioni, i riferimenti a Teilhard, relativi a incidenti o a discussioni a suo riguardo, sono sicuramente fra i più frequenti.
Uno degli incidenti più seri, riferiti da Henri de Lubac, avvenne il 16 febbraio 1961, con ripercussioni fino alla vigilia del concilio. Lubac aveva preso la parola nella commissione ante-preparatoria per protestare contro monsignor Piolanti e il padre Dhanis, che avevano introdotto in uno schema una condanna di Teilhard.

Padre Tromp che presiedeva la  commissione, si impegnò il 22 febbraio a limitare la cosa, ma il 26 settembre il testo stampato non conteneva, su questo punto, alcuna correzione. La vicenda del Monitum fu un altro segno della volontà un po’ ossessiva di certi ambienti romani di giungere a una condanna di Teilhard. Il libro di Lubac La Pensée religieuse
du Père Pierre Teilhard de Chardin fu pubblicato nella primavera del 1962. Il suo scopo è di presentare le grandi strutture della riflessione di Teilhard, per dimostrare che egli sfugge a quasi tutte le critiche che gli vengono rivolte.
Immediatamente alcuni circoli si misero in agitazione per ottenere una condanna del libro.
Secondo Lubac, Giovanni XXIII vi si oppose. Comunque, su «L’Osservatore Romano » del 1° luglio 1962, comparve
un “avvertimento” (Monitum ) datato 30 giugno. Era accompagnato da un articolo non firmato, procedura
che indica, nel protocollo del quotidiano del Vaticano, l’a p p ro v a zione dell’“autorità superiore”.
L’”avvertimento” stesso informava che le opere di padre Teilhard avevano un grande successo, ma non erano esenti da “ambiguità, anzi da gravi errori, che intaccavano la dottrina cattolica»; e chiedeva perciò che le menti, specie dei giovani, fossero efficacemente difese da questi pericoli.
Di fatto il libro di Lubac vi dava un contributo, come pure le discussioni, pubbliche o private, gli
articoli e le conferenze in cui si impegnava a dimostrare che il Monitum non aveva senso, e a porre in luce le assurdità o le approssimazioni, sulla cui base l’autore metteva in guardia contro Teilhard.
Quando si riunì il concilio, Lubac poté rapidamente constatare che l’opera dell’amico era ampiamente conosciuta in tutto il mondo.
Nell’aula conciliare, in cui il caso di Teilhard venne più volte rievocato, come pure all’esterno, con chiunque vi fosse interessato, egli si è dedicato a difendere o a esporre con precisione il suo pensiero, in modo che ciascuno potesse rivedere il proprio giudizio sull’uomo e sulla sua opera.
Le citazioni pubbliche di Teilhard spuntarono soprattutto durante la discussione sullo schema XIII, futura costituzione Gaudium et spes. A modo di esempio, Lubac ebbe occasione di incontrare l’abate di Beuron, dom Benoît Deetz, che era intervenuto per lamentare che il concilio non definisse il mondo partendo dalla Scrittura, ma «secondo un vago teilhardismo », e riuscì a fargli vedere che l’autentico pensiero di Teilhard andava invece piuttosto nella sua dire z i o n e .
Un segnale che il clima riguardo a Teilhard, nel corso del concilio, stava cambiando, furono due conferenze, non private ma pubbliche, che Lubac fece su di lui a Roma: la prima ebbe luogo con l’autorizzazione del cardinale vicario di Roma e di fronte a parecchi vescovi, ma chi aveva preso l’iniziativa ricevette comunque un rimprovero; la seconda nell’ambito del congresso tomista internazionale, su esplicita richiesta di Paolo VI.
Il 5 ottobre 1964, durante la terza sessione monsignr McGraph, vescovo di Panama, ritenendo, in una conversazione privata, che il nesso, affermato dal testo presentato, fra il lavoro umano e l’escatologia rimaneva troppo estrinseco, disse a Lubac «che nell’opera di Teilhard si sarebbero potute trovare, al riguardo, idee più precise».
Da quel momento in poi, Lubac noterà regolarmente nei suoi Carnets il modo in cui il pensiero di Teilhard affrontava con precisione e con profondità le problematiche che il concilio andava trattando. Lubac dovrà tuttavia dolersi del
fatto che parlare di Teilhard sia per alcuni «un’occasione per dir male di Roma» o farà notare quanto Teilhard sfugga a un errore del genere, che circola in certi ambienti teologici: il 17 ottobre 1964, commentando un articolo di Schillebeckx nella rivista «Concilium» (La Chiesa e il mondo), scrive: «Mai (Teilhard) avrebbe detto che la rivelazione non fa altro che esplicitare il cristianesimo implicito del mondo profano».
È così che, mentre non smettono le accuse di certuni, che cioè Te i lhard sia uno dei principali pensatori
responsabili del “p ro g re s s i s m o cristiano”, Lubac vede prender piede un utilizzo, che ritiene scorretto,
degli scritti o dei pensieri dell’amico, arruolato, a prezzo di gravi deformazioni o mutilazioni
della sua opera, nelle file di un secolarismo che non ha nulla di cristiano.
Perciò, dopo il concilio, il lavoro di Henri de Lubac per l’amico seguirà tre direzioni: rispondere
ad accuse ingiuste, che mettono in questione l’ortodossia della sua fede cristiana, collocando
ognuno degli scritti nel suo contesto e nel suo genere letterario; liberare il pensiero autentico di Te i lhard dalle letture secolarizzanti, facendo vedere la coerenza del suo pensiero, senza che si possa separare un’opera scientifica e filosofica dai suoi scritti religiosi o spirituali; mettere in rilievo gli assi portanti dello sforzo di pensiero di Teilhard, che possono e devono ispirare il pensiero cristiano nei decenni futuri.
Riportando le intuizioni di Teilhard nell’alveo della Tradizione della Chiesa, Lubac è ben persuaso di non edulcorarle o privarle della loro novità, recependole invece come Teilhard le ha concepite, e di garantire loro una maggiore fecondità per la vita della Chiesa.

Thursday, November 08, 2012

Temi interessanti dal sinodo: universita', religiosi, Nicolas


http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350357

Il rettore della Pontificia Università Lateranense, il vescovo salesiano Enrico dal Covolo, non ha usato mezze misure per denunciare come "il cavallo di Troia, attraverso il quale gli Stati si appropriano delle intelligenze degli studenti, è la formazione dei docenti". Ed ha aggiunto: "In molti paesi i docenti sono formati unicamente nelle università statali, e comunque chi vuole insegnare deve possedere l'abilitazione statale conseguita secondo il percorso formativo stabilito dagli Stati e con esami di Stato. La progressiva scristianizzazione dell'Occidente è avvenuta così, attraverso la scristianizzazione delle scuole e delle università. Ora, una nuova evangelizzazione non può che avvenire nel riconoscimento delle persone, della loro coscienza, dei loro diritti. Se gli Stati, come spesso hanno fatto e continuano a fare, si appropriano del progetto personale di apprendimento, tolgono alle persone la libertà di realizzarsi, privandole di un diritto originario e costitutivo. Di conseguenza, una comunità ecclesiale che si impegna per una nuova evangelizzazione dovrà curare con urgenza e priorità il buon funzionamento delle scuole e delle università in genere, ma in modo tutto particolare di quelle cattoliche".

Il cardinale indiano Telesphore Placidus Toppo, arcivescovo di Ranchi, ha lanciato un allarme sulla situazione degli ordini religiosi. "Vorrei rivolgere – ha detto – un umile appello agli ordini religiosi, affinché diventino di nuovo missionari. Nella storia dell’evangelizzazione, tutti gli ordini religiosi, guidati dallo Spirito Santo, hanno fatto cose straordinarie e meravigliose. Possiamo dire lo stesso, oggi, delle congregazioni religiose? È possibile che abbiano iniziato a operare come multinazionali, svolgendo tanto lavoro buono e necessario per rispondere ai bisogni materiali dell’umanità, dimenticando tuttavia che il fine principale della loro fondazione era quello di portare il kerygma, il Vangelo, a un mondo perduto? Dobbiamo apprezzare i numerosi gruppi giovanili e i nuovi movimenti ecclesiali che stanno raccogliendo la sfida. Tuttavia, ritengo che questo sinodo debba invitare i religiosi e le religiose a svolgere in modo esplicito e diretto il lavoro di evangelizzazione e di trasmissione della fede, in collaborazione con i vescovi locali. Vorrei anche chiedere alla congregazione per la vita consacrata di essere più attiva nella promozione del 'sensus ecclesiae' tra tutti i religiosi".

Anche il prefetto della congregazione per i vescovi, il cardinale canadese Marc Ouellet, ha espresso critiche a proposito dei religiosi, quando ha notato che "nelle relazioni tra gerarchia e vita consacrata sono sorti non pochi disagi: talora per una certa ignoranza dei carismi e del loro ruolo nella missione e nella comunione ecclesiale, talaltra per l’inclinazione di alcuni consacrati alla contestazione del magistero".

Ma diametralmente opposto è apparso il giudizio formulato dal superiore del più numeroso degli ordini religiosi, il preposito generale della Compagnia di Gesù, Adolfo Nicolas, uno spagnolo vissuto a lungo in Asia. Leggendo il suo resoconto del sinodo sul mensile gesuita "Popoli" è facile notare la differenza di accenti rispetto all’indiano Toppo, soprattutto laddove padre Nicolas insiste sulla “santità” e la “salvezza” già presenti fuori della Chiesa visibile più che sul primario impegno di propagare la fede cristiana, auspicato dal cardinale.