Tuesday, July 31, 2018

“Though a good deal is too strange to be believed, nothing is too…

"Though a good deal is too strange to be believed, nothing is too strange to have happened."
― Thomas Hardy, The Personal Notebooks Of Thomas Hardy

「多くのことは信じられないほど奇妙ではあるが、起こったからには、あまりにも奇妙なことは何一つない」
トーマス・ハーディ

"Sebbene un buon numero di cose sia troppo strano per essere creduto, niente è troppo strano per essere successo."

Thomas Hardy


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“Though a good deal is too strange to be believed, nothing is too…

"Though a good deal is too strange to be believed, nothing is too strange to have happened."
― Thomas Hardy, The Personal Notebooks Of Thomas Hardy

「多くのことは信じられないほど奇妙ではあるが、起こったからには、あまりにも奇妙なことは何一つない」
トーマス・ハーディ


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Friday, July 27, 2018

Primavera missionaria, di Gianpaolo Romanato (Missioni e colonialismo in età moderna) - Diario

Primavera missionaria, di Gianpaolo Romanato (Missioni e colonialismo in età moderna) - Diario

Primavera missionaria, di Gianpaolo Romanato (Missioni e colonialismo in età moderna)

Riprendiamo da L'Osservatore Romano del 6/10/2011 un articolo scritto da Gianpaolo Romanato. Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l'unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/10/2011)

Le missioni furono la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa dell'Ottocento.

Scoperta perché la missione in età postrivoluzionaria, rivolta ai popoli nuovi di Africa, Oceania, Asia e delle due Americhe, non garantita dalle strutture del patronato statale in vigore nell'ancien régime, fu sostanzialmente diversa da quella del periodo prerivoluzionario.

Speranza perché di fronte al nuovo nemico rappresentato dalla modernità e dall'organizzazione dello Stato liberale, la conquista di popolazioni sconosciute e mai toccate dal cristianesimo apparve come una nuova frontiera, un'imprevista possibilità di rifondazione del messaggio cristiano, una rivincita dopo le ripetute sconfitte patite in Europa.

Questa proiezione missionaria avvenne sotto l'egida della più rigida cultura controrivoluzionaria, a partire dal papa che per primo se ne fece interprete e banditore, Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Cappellari, monaco camaldolese originario di Belluno, che prima dell'elezione era stato per cinque anni prefetto di Propaganda Fide.

Egli, mentre impostò con le encicliche "Mirari vos" (1832) e "Singulari nos" (1834) le linee portanti di quella che per un cinquantennio sarebbe rimasta l'intransigenza cattolica antimoderna, avviò anche la rinascita delle missioni con una serie di iniziative che vanno dalla fondazione di quarantaquattro vicariati apostolici nelle terre nuove alla promulgazione dell'enciclica "Probe nostis" (1840), il manifesto della nuova missionarietà.

La cosiddetta "primavera missionaria" ottocentesca nasce così da radici culturali opposte a quelle della modernità.

Che lo slancio della Chiesa verso i popoli nuovi derivasse da un desiderio di rivalsa nei confronti dell'ondata laicizzatrice liberale dilagante in Europa, emerge dalle parole stesse di papa Gregorio XVI. L'enciclica iniziava, infatti, ricordando le "sventure" che opprimevano la Chiesa "da ogni parte", gli "errori" che ne minacciavano la sopravvivenza. Ma, "mentre per un verso dobbiamo piangere – scriveva il papa – dall'altra parte dobbiamo rallegrarci dei frequenti trionfi delle missioni apostoliche", trionfi che dovrebbero suscitare "maggiore vergogna" in "coloro che la perseguitano". Questa contrapposizione diventerà uno dei fili conduttori della storia missionaria, conficcata fin dall'inizio nel più tipico filone intransigente, controrivoluzionario.

Ma non solo la cultura missionaria, bensì anche il personale che la realizzò provenne da una cultura fondamentalmente "ultramontana", di scontro, estranea al mito ottocentesco della nazione che fu invece uno dei grandi alvei in cui si sviluppò la rivoluzione della modernità, di cui il colonialismo ottocentesco fu una delle espressioni.

È importante tenere presente questo sfondo intellettuale e teologico, che conferma, se ce n'è bisogno, la complessità e l'imprevedibilità della storia. Nel caso di cui ci stiamo occupando la novità non è figlia della rivoluzione ma della reazione, cioè di una cultura che normalmente non apre al futuro ma induce a rifugiarsi nel passato. L'elemento vincente della cultura missionaria fu, infatti, proprio la sua estraneità al mito della nazione.

Universalismo cristiano

I missionari che sciamarono per il mondo possedevano molto più il senso della Chiesa che il senso della patria. Si sentivano figli e difensori di una Chiesa perseguitata e costretta sulla difensiva dal liberalismo, dalle rivoluzioni nazionali. Ciò accentuò la loro estraneità rispetto alle idee politiche ottocentesche e rafforzò l'identificazione con l'universalismo cristiano. Le missioni non nascono italiane, francesi o tedesche, nascono cattoliche, figlie di una Chiesa ricompattata attorno a Roma e ormai distaccata dalle vecchie Chiese nazionali prerivoluzionarie, nascono in rotta di collisione con quegli ideali di grandezza e di potenza che mossero le potenze europee a conquistare e ad annettere i continenti nuovi.

Queste considerazioni valgono in particolare per i missionari italiani, quelli più vicini, anche geograficamente, a Roma e al nuovo spirito della cattolicità.

Il missionario italiano si sentì prevalentemente uomo di Chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali. Negli istituti italiani sorti nel XIX secolo e dediti esclusivamente ad attività missionaria – dalle missioni africane di Verona fondate da Daniele Comboni al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), dai saveriani ai missionari della Consolata – l'ideologia nazionale, o nazionalistica, è quasi inesistente. Predomina invece l'ansia apostolica, che diventa più forte e impellente quanto più le vicende politiche italiane sembrano riservare alla Chiesa in Italia un futuro incerto e difficile.

Sono proprio queste difficoltà che rafforzano il loro senso di appartenenza alla Chiesa, al di sopra del sentimento patriottico, il desiderio di aprirle strade nuove presso popoli lontani, non ancora toccati dal cristianesimo, l'ansia di trovare una "missione vergine" dove il Vangelo non fosse ancora arrivato, e fosse possibile predicarlo senza contaminarlo con interessi politici, ideologici.

Nelle "Regole" del PIME è detto che "l'Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie tra le popolazioni più derelitte e più barbare". La speranza e l'ideale di questi istituti è quello di rifondare il cristianesimo il più lontano possibile dalla vecchia Europa, dalle sue divisioni e dai suoi interessi.

Analoga l'intenzione di Comboni, che imitò l'istituto lombardo pensando esclusivamente all'Africa come alla "più infelice e certo la più abbandonata parte del mondo". In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l'opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici. La missione "deve essere cattolica, non già spagnola, o francese o tedesca o italiana", non si stancava di ripetere. Egli conosceva perfettamente le associazioni e gli istituti missionari europei, per averli visitati e frequentati, e lamentava che in Francia "lo spirito di Dio" fosse ancora troppo condizionato dallo "spirito di nazione".

Ma neppure in Francia il condizionamento della nazionalità impedì di vedere chiaramente che le missioni dovevano tenersi lontane dalla politica degli Stati cui appartenevano i missionari, come scrisse con grande lucidità il superiore francese della missione in Eritrea al governatore Ferdinando Martini, quando si stava preparando l'espulsione di missionari transalpini dalla nostra colonia: "Per noi non esiste che una sola parola: la Missione Cattolica, siano i membri che la compongono francesi, italiani, tedeschi o inglesi".

Tra missione e colonizzazione

L'intreccio fra missione e colonialismo è complesso. I due fenomeni sono paralleli, contemporanei e interdipendenti, tanto in età moderna quanto in età contemporanea.

In età moderna i missionari giungono nelle Americhe e in Asia sulle navi dei colonizzatori, protetti dalle medesime leggi, imbrigliati nei vincoli del patronato statale. E la situazione non è diversa nelle aree del globo, in particolare il Nord America oggi canadese, all'epoca sotto controllo francese. Ma tanto la Santa Sede quanto gli ordini religiosi impegnati nelle missioni non tardano a entrare in conflitto con il potere politico e a cercare spazi di autonomia.

Roma fonderà la potente congregazione di Propaganda Fide, nel 1622, proprio allo scopo di riportare, dovunque fosse possibile, le missioni sotto il controllo ecclesiastico, anche tramite abili espedienti canonici come l'istituto dei vicari apostolici, vescovi dipendenti direttamente da Roma, vescovi cioè "in partibus", che rispondevano del loro operato alla sede apostolica e non all'autorità politica.

I vicari apostolici furono utilizzati in particolare nel tentativo di aggirare il patronato portoghese. Nel caso del patronato spagnolo il modo per sfuggire al vincolo statale consistette nell'avvio di esperimenti di evangelizzazione svincolati dalla giurisdizione della corona di Madrid, in territori posti fuori o ai margini dalla sua giurisdizione.

In questo secondo caso va ricordato l'esperimento delle Riduzioni fra i guaraní del Paraguay (ma in realtà allargato anche ad altre aree e popolazioni sudamericane). Le Riduzioni erano missioni totalmente sotto controllo della Compagnia di Gesù, sulle quali la corona di Spagna non aveva quasi nessun potere. Sappiamo però che esse crollarono quando Spagna e Portogallo riordinarono i confini e privarono le missioni degli spazi di autonomia di cui avevano goduto per un secolo e mezzo. Non sempre Propaganda Fide riuscì a realizzare gli intendimenti per cui era sorta, neppure con l'espediente dei vicari apostolici.

Per tutta l'età moderna, insomma, missione e colonizzazione vissero una difficile coabitazione, spesso conflittuale.

In età contemporanea notiamo caratteristiche analoghe. Missioni e colonie vanno insieme, sia pure con sfasature non prive di importanza. In genere la missione precede la colonia e spesso si dirige in territori estranei o ai margini della colonizzazione: l'Oceania dove operò il PIME, la Patagonia dove si insediarono i salesiani.

Ma le coincidenze, nonostante queste sfasature, non devono impedirci di notare le diversità.

Nell'Ottocento e nel Novecento i missionari imparano le lingue locali, operano non sovrapponendosi alle culture autoctone ma penetrandole dall'interno, favoriscono la nascita di clero e gerarchie locali, seguendo le direttive romane emanate fin dalla famosa Istruzione ai vicari apostolici del Tonchino del lontano 1659 – un documento pontificio lungimirante, più citato che conosciuto –, ribadite in tutte le successive direttive pontificie e riprese dalla enciclica "Maximum illud" di Benedetto XV del 1919. Mentre la colonia è una conquista di territori, spazi e risorse, un'operazione di potere, la missione è un tentativo di innesto del cristianesimo senza alterare le culture locali.

Non sempre l'operazione fu portata avanti con la necessaria chiarezza, ma l'intenzione era questa. Comboni dirà che la presenza missionaria nella "Nigrizia" – come si definiva allora l'Africa – doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove esiste oggi una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. "Salvare l'Africa con l'Africa" fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via.

Se osserviamo a posteriori la storia del colonialismo europeo, notiamo più chiaramente la differenza fra colonialismo e missione. Il colonialismo è esploso lasciando macerie che hanno devastato, e continuano a devastare, i continenti extra-europei. La missione non è esplosa, è sopravvissuta all'età coloniale, si è trasformata e ha dato vita alle cosiddette giovani Chiese, con clero e gerarchia indigeni.

Oggi nel sacro collegio sono presenti decine di cardinali provenienti da Paesi africani o asiatici che furono colonie fino al secondo dopoguerra. Le missioni sono servite a dilatare il cattolicesimo su scala planetaria e a inculturarlo nei popoli nuovi.



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Monday, July 23, 2018

Mindfulness, la pratica di chi non giudica. E non pensa - La Nuova Bussola Quotidiana

Mindfulness, la pratica di chi non giudica. E non pensa - La Nuova Bussola Quotidiana

Mindfulness, la pratica di chi non giudica. E non pensa

Come ultimo derivato delle tecniche di meditazione buddiste, di cui in Occidente ammiriamo praticamente solo una caricatura, si diffonde la mode del Mindfulness. Consigliata e praticata a tutti i livelli, dalle scuole alla Massoneria, induce alla fuga dalla realtà e all'autoinganno.

Mindfulness

Non c'è giornale che non abbia dedicato pagine allo "stato di benessere" con cui i ragazzi thailandesi intrappolati nella grotta hanno accolto i soccorritori. Quasi fosse stata la meditazione insegnata loro dall'allenatore e non l'azione dei poveri soccorritori (di cui uno ha anche perso la vita) a salvarli da morte certa. Una narrazione insistita e sospetta, non c'è che dire, chiaramente indirizzata a solleticare un interesse.

Del resto anche il cardinal Ratzinger ha sostenuto che, del buddismo, l'occidente scristianizzato ama la caricatura. Dovendo tornare sulla sua celebre e fragorosa definizione di buddismo come "autoerotismo spirituale", l'allora Prefetto della Dottrina della Fede spiegò all'intervistatore che quel giudizio valeva proprio per l'«uso consumistico» del buddismo, ed era indirizzato ad «un certo "mercato" che falsifica le grandi religioni adattandole al gusto e alle mode del moderno mondo occidentale». Da qui la domanda. Che volto ha assunto, nel tempo, quella "moda", quella "falsificazione", quella caricatura dell'esperienza buddista? A giudicare dalla mole enorme di manuali, di congressi, di corsi, non ci sono dubbi nell'indicare nella «mindfulness» (o «piena consapevolezza» o "piena attenzione") la risposta al quesito. Parliamo di una tecnica di rilassamento usata come mezzo per sconfiggere lo stress e l'ansia, diffusasi anche in non poche comunità cristiane. Persino i bambini non vengono risparmiati, tanto che titoli come "Attento e calmo come una ranocchia", "Io e te sulla nuvoletta", "Respira con l'orso. Calma, concentrazione ed energia positiva" riempiono le vetrine delle librerie.

Ma a cosa mira questa tecnica di concentrazione? A suscitare uno stato di attenzione sul presente, in cui – senza minimamente sottoporli a giudizio – si possano osservare, oltre alla respirazione, anche i propri pensieri, i sentimenti (non a caso Bhikkhu Bodhi, Presidente della Buddhist Association of the United States, afferma che ciò che si pratica in Occidente sarebbe non "piena attenzione" bensì "attenzione nuda", proprio perché non esiste alcuna componente etica). La medesima assenza di valutazione che si vive nella meditazione si dovrà poi mutuare nella vita quotidiana.

Qui si apre il primo grande problema, perfettamente centrato da Giovanni Paolo II nel libro-intervista Varcare la soglia della speranza. «L'"illuminazione" sperimentata da Budda – scriveva il Pontefice polacco – si riduce alla convinzione che il mondo è fonte di sofferenza per l'uomo», e che «per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo». In questa visione, quindi, risulterà obbligatorio «spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna [..], presenti nella nostra psiche e nel nostro corpo». Più ci liberiamo dai legami razionali, più ci rendiamo indifferenti alla sofferenza che è nel mondo. La sintesi di Papa Wojtyla coincide esattamente con ciò che cerca di fare la tecnica meditativa della "piena consapevolezza".

A confermare l'analisi, aggiungendo un inquietante dato, è proprio Jon Kabat-Zinn, professore di Medicina presso l'Università del Massachusetts, creatore del programma MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) e unanimemente considerato lo scopritore della tecnica meditativa. In Mindfulness per principianti (Mimesis, 2018) Kabat-Zinn scrive testualmente che la tecnica «ha l'obiettivo di farci scoprire il valore del "non sapere" (sic), e il valore di imparare a stare con noi stessi, senza giudicare e senza pensare troppo».

Se siamo davvero arrivati all'apologia del "non sapere", ecco che assurge a gigantesco paradosso il fatto che oltre 200 scuole spagnole (anche cattoliche, come in Andalusia) abbiano inserito la mindfulness nell'orario scolastico. Del resto, imbattersi in alunni con gli occhi chiusi, in posizione del Loto, intenti a praticare la "piena consapevolezza" oggi non è raro neanche nelle scuole italiane.

Attenzione però. C'è un elemento che dovrebbe far aprire ulteriormente gli occhi su questa tecnica meditativa: tra gli adepti delle Logge massoniche, gli inviti espliciti ad adottare la mindfulness sono all'ordine del giorno. La Rispettabile Loggia Hermes nº13 di Madrid, ad esempio, arriva addirittura mettere «a disposizione di tutti i massoni i materiali di sostegno alla pratica meditativa». Sul loro sito spiegano l'operazione di divulgazione degli esercizi, «coscienti dell'importanza della pratica dell'attenzione pura come mezzo di realizzazione interiore». La potente Loggia madrilena, infine, non potrebbe davvero essere più chiara (e inquietante) quando spiega che tali pratiche meditative sono «uno degli strumenti più potenti per passare dall'iniziazione virtuale comunicata nella loggia a un'iniziazione effettiva, cioè a un'esperienza della sacralità o della trascendenza». Ai tanti "normalisti" alla Alberto Pellai, per i quali «non c'è alcuna controindicazione alla pratica della mindfulness», consigliamo di meditare sull'"l'esperienza di trascendenza" che a loro parere si può vivere in una loggia massonica.

Giovanni Paolo II aveva previsto tutto, quando nel già citato libro-intervista con Vittorio Messori metteva «sull'avviso quei cristiani che con entusiasmo si aprono a certe di tecniche di meditazione e di ascesi» (senza contare quel Catechismo della Chiesa Cattolica che al nº 2726 mette in guardia proprio dallo «sforzo di concentrazione per arrivare al vuoto mentale»).

Manca un ultimo dato sul fenomeno mindfulness, forse il più importante. La statunitense Susan Brinkmann, ex femminista proveniente dalla New Age e oggi premiata scrittrice cattolica, nel suo documentatissimo A Catholic Guide to Mindfulness, ha fatto rivelazioni importanti, raccontando innanzitutto della crescente preoccupazione del mondo scientifico per la spropositata pubblicità che i media hanno dato circa i benefici della mindfulness. Ciò ha come effetto psicologico il cosiddetto "bypass spirituale": il ricorrere, cioè, a pratiche spirituali per evadere dai problemi concreti, auto-ingannandosi, e soprattutto smettendo di risolvere i conflitti attraverso canali e metodi scientifici riconosciuti, quali, ad esempio, la Psicoterapia. Ma c'è di più. La Brinkmann, dati alla mano, rivela che è una solenne bufala quella delle evidenze scientifiche relative alla bontà della tecnica meditativa. In una recente intervista al National Catholic Register la scrittrice chiarisce che «un'analisi su 18.000 studi di mindfulness, condotti da ricercatori della Johns Hopkins University, ha trovato metodologicamente validi solo 47 lavori, cioè lo 0,0026%». Mentre la stessa ricerca – e questo è il dato completamente taciuto dai media mainstream – «ha portato a scoperte più allarmanti sugli effetti negativi della "piena consapevolezza"». Portando alla luce la letteratura scientifica nascosta, l'apologista cattolica (oggi terziaria carmelitana) afferma che queste pratiche meditative, attraverso «l'uso di tecniche progettate per svuotare o gestire la mente», inducono a «stati di coscienza alterati», tanto che in alcuni casi si è arrivati «fino al punto di richiedere l'esorcismo».

Questo insomma sembra il prezzo da pagare per una pratica "gentile", che non crea problemi di coscienza, e che, a differenza del lascito giudeo-cristiano, non esige nulla perché "non giudica". 



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Interview with Japanese Poet and Cardinal in L’Osservatore Romano - ZENIT - English

Interview with Japanese Poet and Cardinal in L'Osservatore Romano - ZENIT - English

Interview with Japanese Poet and Cardinal in L'Osservatore Romano

Japan, Cardinal Thomas Aquinas Manyo © Vatican News

A Thunderbolt in a Serene Sky

"In a serene sky / a rumble / as a Pentecost." It's by this verse, composed in the brief Japanese poetic form, the haiku, of which he is a master, that Thomas Aquinas Manyo Maeda commented on Pope Francis' decision to include him in the College of Cardinals. The Archbishop of Osaka, who was born in the Archdiocese of Nagasaki and was also Pastor at Hiroshima — the two martyred cities of nuclear folly  — confided to L'Osservatore Romano on July 20, 2018, in an interview where he speaks of the role of the Church in Japan, in an increasingly secularized country.

Here is our translation of the interview.

* * *

What did you do when you learned that the Pope gave you the red hat?

 At first, I was perplexed and, prey to astonishment, I wondered: why me? I'm not qualified! Without thinking, I composed the verse "In a serene sky / a rumble / as a Pentecost," because this announcement was truly a thunderbolt in a serene sky. After a moment, I thought that, if it was the work of the Spirit, that same Spirit would also give me the strength to accomplish the task; and recalling the Gospel phrase "At your word I will let down the nets," I decided to accept, with humility, the engagement that was asked of me.

What are the main challenges that the Church in Japan must address?

 The fact that the number of faithful doesn't increase and the decrease of vocations of priests and consecrated is the most urgent issue. To halt this tendency, I believe that it's necessary that the faithful, the clerics and the Religious be always more aware of the importance to live their faith in joy. If one lives this joy of the faith, I'm certain that the number of Catholics will increase, as well as the number of vocations to the priesthood and the consecrated life. Above all, it's urgent to evangelize the ecclesial community itself. In fact, although it knows how to intervene, because of a lack of courage or out of modesty, it appears incapable of reacting. On the other hand, I also believe that it's important to re-appropriate in a certain way the method of the time known as missionary, perhaps by finding new ways of expression of the missionary method, such as the missionary zeal of that time.

What is the role of education in the context of Christian witness in a country where Catholics are a minority?

 I think that the realm of education is the privileged milieu for the spread of the Gospel among young people. In the past, up to some forty years ago, a very high number of Baptisms were celebrated thanks to the schools. Today, this happens rarely. Not only is there little inclination to administer the Sacraments of Initiation but there is even a certain abstention from giving religion lessons. At school and in the Universities, as elsewhere, it's necessary to transmit the Gospel with more courage. To do that, it's important to form qualified Catholic teachers.

What is the situation in the inter-religious dialogue?

At the heart of the national Episcopal Conference, there is a specific Department that addresses this and, in each diocese, there is a Committee in charge of organizing exchange activities and dialogue with other religions.  For instance, for the promotion of peace, there were numerous initiatives in collaboration with representatives of Buddhism and Shintoism; prayer vigils are held periodically together.  However, I think it's important to note that dialogue should already be practiced in everyday life. In a same family, there are persons that belong to different religions. It's moving to observe how these persons live, respecting one another mutually, in seeking the will of God. I find it important to consider the dialogue also from this point of view.

Can one evangelize in a secularized society?

Precisely because we live in a society where secularization is very advanced, I think that the proclamation of the Gospel is even more necessary. Or rather, it seems really that an increasingly higher number of people are seeking good news, such as that of the Gospel. To satisfy this need, I believe it's necessary to cultivate enthusiasm and to renew the methods and expressions of the proclamation.

What role do the consecrated play in the Church of the Land of the Rising Sun?

I would say it's very important: today, despite the aging of the personnel and the decrease of vocations, the different Religious Congregations contribute largely — with activities connected with each one's charism –, to the evangelization of the society. Suffice it to think of their engagement in the area of education, of health and in other sectors of social life. Then, within the diocesan pastoral they support the parishes and the activities of different Commissions. In particular, the work of the consecrated is revealed important in the pastoral of foreigners. At the same time, as one reads in the Instrument of Work in preparation for the Synod on the "New Evangelization," with the offer of themselves, the consecrated witness God's priority over all things and by the means of life in common, they witness the strength and the depth of the bonds that spring from the Gospel. I believe that this witness represents a very important aspect of their mission. The composition of Religious Communities becomes also a form of witness. In fact, they are increasingly international and, in a society, such as Japanese society, which opens slowly to diversity, that witnesses that it's possible to live "together" beyond national barriers.

What do you do for the numerous immigrants that arrive every year?

The Church's engagement in this area presents different aspects. First of all, there is the pastoral dimension. Finding themselves suddenly in a different world and culture than those of their origin, immigrants are in need of help to be able to maintain and cultivate their faith. In offering them our assistance, we work so that this is possible. Regular celebrations are planned in the mother tongue of the countries of origin; at the same time, in the parishes, we make an effort to receive them warmly and to walk with them. There is also a social aspect. Migrants who arrive in Japan, meet with several difficulties: they need lodging, must learn the language, they are in need of help in the education of their children, legal advice, etc. We make an effort to offer them assistance in all these areas. In my Archdiocese of Osaka, the Center for Social Activities is in charge of contributing this type of assistance. And then there is a humanitarian aspect. Whether they are Christians or not, we engage ourselves in welcoming them with warmth and in protecting their rights as persons. Finally, priestly and religious vocations are also born among the immigrants. We cannot but rejoice.

 [ZENIT's translation by Virginia M. Forrester]

 



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Friday, July 20, 2018

Il Sismografo

Il Sismografo

Intervista al giapponese Thomas Aquino Manyo Maeda. Poeta e cardinale

(Nicola Gori) «A ciel sereno / un rombo / come di Pentecoste»: con questo verso composto nella breve forma poetica giapponese haiku, di cui è maestro, Thomas Aquino Manyo Maeda ha commentato la decisione di Papa Francesco di annoverarlo nel collegio cardinalizio. L'arcivescovo di Osaka — che è nato nell'arcidiocesi di Nagasaki ed è stato anche pastore di Hiroshima — le due città martiri della follia nucleare — lo ha confidato all'Osservatore Romano in questa intervista in cui parla anche del ruolo della Chiesa in un Giappone sempre più secolarizzato.
Cosa ha fatto quando ha appreso che il Pontefice le concedeva la porpora?
All'inizio sono rimasto perplesso e, in preda allo stupore, mi dicevo: perché io? Non sono qualificato! Senza pensarci ho composto il verso «A ciel sereno / un rombo / come di Pentecoste». Perché quell'annuncio è stato proprio un fulmine a ciel sereno. Dopo un po' ho pensato che, se questa è opera dello Spirito, lo stesso Spirito mi avrebbe dato anche la forza per assolvere il compito; e ricordando la frase evangelica, «Sulla tua parola getterò le reti», ho deciso di accettare con umiltà l'impegno richiestomi.
Quali sono le principali sfide che deve affrontare la Chiesa in Giappone?
Il fatto che il numero dei fedeli non cresca e la diminuzione delle vocazioni di sacerdoti e consacrati, sono le questioni più urgenti. Per contrastare la tendenza, ritengo necessaria una sempre maggiore consapevolezza, da parte dei fedeli, del clero e dei religiosi, dell'importanza del vivere con gioia la propria fede. Se si vive questa gioia della fede, sono certo che il numero dei cattolici crescerà, come anche il numero delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Innanzitutto, è urgente evangelizzare la stessa comunità ecclesiale. Infatti, pur sapendo come intervenire, essa per mancanza di coraggio o per pudore, si mostra incapace di reagire. D'altra parte, ritengo anche importante riappropriarsi in certo modo del metodo proprio dell'epoca cosiddetta missionaria, magari trovando nuove modalità espressive sia per quel metodo missionario sia per lo zelo missionario di quell'epoca.
Che ruolo svolge l'educazione nell'ambito della testimonianza cristiana in un paese in cui i cattolici sono una minoranza?
Ritengo che gli ambienti educativi siano l'ambito privilegiato per la diffusione del Vangelo fra i giovani. In passato, fino a circa quaranta anni fa, un numero molto alto di battesimi si celebrava grazie alle scuole. Oggi avviene di rado. Non solo si è restii ad amministrare i sacramenti dell'iniziazione, ci si astiene anche dal fare la lezione di religione. A scuola e nelle università, come altrove, è necessario trasmettere il Vangelo con maggiore coraggio. A tal fine, è importante formare insegnanti cattolici qualificati.
Qual è la situazione nel dialogo interreligioso?
All'interno della Conferenza episcopale nazionale c'è un dipartimento specifico che se ne occupa e, in ogni diocesi, c'è un comitato incaricato di svolgere attività di scambio o dialogo con le altre religioni. Ad esempio, per la promozione della pace, sono state avviate numerose iniziative in collaborazione con i rappresentanti del buddismo e dello shintoismo; insieme si celebrano periodicamente anche veglie di preghiera. Tuttavia, penso sia importante notare come il dialogo venga già praticato nella vita di tutti i giorni. Nella stessa famiglia ci sono persone appartenenti a religioni diverse. È commovente osservare come queste persone vivano, rispettandosi a vicenda, nella ricerca della volontà di Dio. Ritengo sia importante considerare il dialogo anche da questo punto di vista.
Si riesce a evangelizzare in una società secolarizzata?
Proprio perché viviamo in una società in cui la secolarizzazione è molto avanzata, ritengo ancora più necessario l'annuncio del Vangelo. Anzi, sembra proprio che un numero sempre più alto di persone siano alla ricerca di una buona notizia come quella evangelica. Per soddisfare tale richiesta ritengo necessario coltivare l'entusiasmo e rinnovare i metodi e le espressioni dell'annuncio.
Quale ruolo hanno i consacrati nella Chiesa del Sol Levante?
Direi molto importante: oggi, nonostante l'invecchiamento del personale e il calo di vocazioni, le diverse congregazioni religiose contribuiscono grandemente, con attività pertinenti al carisma di ciascuna, all'evangelizzazione della società. Basti pensare al loro impegno nel campo dell'istruzione, della sanità e in altri settori della vita sociale. All'interno della pastorale diocesana, poi, sono di sostegno alle parrocchie e alle attività delle diverse commissioni. In particolare, il lavoro dei consacrati si rivela importante nella pastorale degli stranieri. Allo stesso tempo, come si legge nello strumento di lavoro in preparazione al Sinodo sulla "nuova evangelizzazione", con l'offerta di se stessi, i consacrati testimoniano la precedenza di Dio sopra ogni cosa, e per mezzo della vita in comune testimoniano la forza e la profondità dei legami che scaturiscono dal Vangelo. Ritengo che tale testimonianza rappresenti un aspetto importantissimo della loro missione. Anche la composizione delle comunità religiose diventa una forma di testimonianza. Esse, infatti, sono sempre più internazionali e, in una società come quella giapponese, che lentamente si apre alla diversità, questo testimonia che è possibile vivere "insieme" superando le barriere nazionali.
Cosa fate per i numerosi immigrati che giungono ogni anno?
L'impegno della Chiesa in questo ambito presenta aspetti diversi. Innanzitutto, vi è quello pastorale. Trovandosi improvvisamente in un ambiente e in una cultura diversi da quelli di origine, gli immigrati hanno bisogno di aiuto perché possano mantenere e coltivare la loro fede. Offrendo la nostra assistenza, ci adoperiamo perché ciò sia possibile. Sono previste celebrazioni regolari nella lingua madre dei paesi di origine; allo stesso tempo, nelle parrocchie ci impegniamo ad accoglierli con calore e a camminare con loro. Vi è anche un aspetto sociale. I migranti che arrivano in Giappone incontrano varie difficoltà: necessitano di un alloggio, devono imparare la lingua, hanno bisogno di aiuto nell'educazione dei figli, di consulenza legale ecc. Noi ci adoperiamo per offrire assistenza in tutti questi ambiti. Nella mia arcidiocesi di Osaka, il centro per le attività sociali si incarica di svolgere questo tipo di assistenza. C'è poi un aspetto umanitario. A prescindere dal fatto che siano cristiani o meno, ci impegniamo ad accoglierli con calore e a proteggere i loro diritti come persone. Ultimamente, anche fra gli immigrati nascono vocazioni sacerdotali e religiose. Non possiamo che esserne lieti.
L'Osservatore Romano, 19-20 luglio 2018


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Tuesday, July 17, 2018

Primavera missionaria, di Gianpaolo Romanato (Missioni e colonialismo in età moderna) - Diario

Primavera missionaria, di Gianpaolo Romanato (Missioni e colonialismo in età moderna) - Diario

Primavera missionaria, di Gianpaolo Romanato (Missioni e colonialismo in età moderna)

Riprendiamo da L'Osservatore Romano del 6/10/2011 un articolo scritto da Gianpaolo Romanato. Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l'unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/10/2011)

Le missioni furono la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa dell'Ottocento.

Scoperta perché la missione in età postrivoluzionaria, rivolta ai popoli nuovi di Africa, Oceania, Asia e delle due Americhe, non garantita dalle strutture del patronato statale in vigore nell'ancien régime, fu sostanzialmente diversa da quella del periodo prerivoluzionario.

Speranza perché di fronte al nuovo nemico rappresentato dalla modernità e dall'organizzazione dello Stato liberale, la conquista di popolazioni sconosciute e mai toccate dal cristianesimo apparve come una nuova frontiera, un'imprevista possibilità di rifondazione del messaggio cristiano, una rivincita dopo le ripetute sconfitte patite in Europa.

Questa proiezione missionaria avvenne sotto l'egida della più rigida cultura controrivoluzionaria, a partire dal papa che per primo se ne fece interprete e banditore, Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Cappellari, monaco camaldolese originario di Belluno, che prima dell'elezione era stato per cinque anni prefetto di Propaganda Fide.

Egli, mentre impostò con le encicliche "Mirari vos" (1832) e "Singulari nos" (1834) le linee portanti di quella che per un cinquantennio sarebbe rimasta l'intransigenza cattolica antimoderna, avviò anche la rinascita delle missioni con una serie di iniziative che vanno dalla fondazione di quarantaquattro vicariati apostolici nelle terre nuove alla promulgazione dell'enciclica "Probe nostis" (1840), il manifesto della nuova missionarietà.

La cosiddetta "primavera missionaria" ottocentesca nasce così da radici culturali opposte a quelle della modernità.

Che lo slancio della Chiesa verso i popoli nuovi derivasse da un desiderio di rivalsa nei confronti dell'ondata laicizzatrice liberale dilagante in Europa, emerge dalle parole stesse di papa Gregorio XVI. L'enciclica iniziava, infatti, ricordando le "sventure" che opprimevano la Chiesa "da ogni parte", gli "errori" che ne minacciavano la sopravvivenza. Ma, "mentre per un verso dobbiamo piangere – scriveva il papa – dall'altra parte dobbiamo rallegrarci dei frequenti trionfi delle missioni apostoliche", trionfi che dovrebbero suscitare "maggiore vergogna" in "coloro che la perseguitano". Questa contrapposizione diventerà uno dei fili conduttori della storia missionaria, conficcata fin dall'inizio nel più tipico filone intransigente, controrivoluzionario.

Ma non solo la cultura missionaria, bensì anche il personale che la realizzò provenne da una cultura fondamentalmente "ultramontana", di scontro, estranea al mito ottocentesco della nazione che fu invece uno dei grandi alvei in cui si sviluppò la rivoluzione della modernità, di cui il colonialismo ottocentesco fu una delle espressioni.

È importante tenere presente questo sfondo intellettuale e teologico, che conferma, se ce n'è bisogno, la complessità e l'imprevedibilità della storia. Nel caso di cui ci stiamo occupando la novità non è figlia della rivoluzione ma della reazione, cioè di una cultura che normalmente non apre al futuro ma induce a rifugiarsi nel passato. L'elemento vincente della cultura missionaria fu, infatti, proprio la sua estraneità al mito della nazione.

Universalismo cristiano

I missionari che sciamarono per il mondo possedevano molto più il senso della Chiesa che il senso della patria. Si sentivano figli e difensori di una Chiesa perseguitata e costretta sulla difensiva dal liberalismo, dalle rivoluzioni nazionali. Ciò accentuò la loro estraneità rispetto alle idee politiche ottocentesche e rafforzò l'identificazione con l'universalismo cristiano. Le missioni non nascono italiane, francesi o tedesche, nascono cattoliche, figlie di una Chiesa ricompattata attorno a Roma e ormai distaccata dalle vecchie Chiese nazionali prerivoluzionarie, nascono in rotta di collisione con quegli ideali di grandezza e di potenza che mossero le potenze europee a conquistare e ad annettere i continenti nuovi.

Queste considerazioni valgono in particolare per i missionari italiani, quelli più vicini, anche geograficamente, a Roma e al nuovo spirito della cattolicità.

Il missionario italiano si sentì prevalentemente uomo di Chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali. Negli istituti italiani sorti nel XIX secolo e dediti esclusivamente ad attività missionaria – dalle missioni africane di Verona fondate da Daniele Comboni al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), dai saveriani ai missionari della Consolata – l'ideologia nazionale, o nazionalistica, è quasi inesistente. Predomina invece l'ansia apostolica, che diventa più forte e impellente quanto più le vicende politiche italiane sembrano riservare alla Chiesa in Italia un futuro incerto e difficile.

Sono proprio queste difficoltà che rafforzano il loro senso di appartenenza alla Chiesa, al di sopra del sentimento patriottico, il desiderio di aprirle strade nuove presso popoli lontani, non ancora toccati dal cristianesimo, l'ansia di trovare una "missione vergine" dove il Vangelo non fosse ancora arrivato, e fosse possibile predicarlo senza contaminarlo con interessi politici, ideologici.

Nelle "Regole" del PIME è detto che "l'Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie tra le popolazioni più derelitte e più barbare". La speranza e l'ideale di questi istituti è quello di rifondare il cristianesimo il più lontano possibile dalla vecchia Europa, dalle sue divisioni e dai suoi interessi.

Analoga l'intenzione di Comboni, che imitò l'istituto lombardo pensando esclusivamente all'Africa come alla "più infelice e certo la più abbandonata parte del mondo". In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l'opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici. La missione "deve essere cattolica, non già spagnola, o francese o tedesca o italiana", non si stancava di ripetere. Egli conosceva perfettamente le associazioni e gli istituti missionari europei, per averli visitati e frequentati, e lamentava che in Francia "lo spirito di Dio" fosse ancora troppo condizionato dallo "spirito di nazione".

Ma neppure in Francia il condizionamento della nazionalità impedì di vedere chiaramente che le missioni dovevano tenersi lontane dalla politica degli Stati cui appartenevano i missionari, come scrisse con grande lucidità il superiore francese della missione in Eritrea al governatore Ferdinando Martini, quando si stava preparando l'espulsione di missionari transalpini dalla nostra colonia: "Per noi non esiste che una sola parola: la Missione Cattolica, siano i membri che la compongono francesi, italiani, tedeschi o inglesi".

Tra missione e colonizzazione

L'intreccio fra missione e colonialismo è complesso. I due fenomeni sono paralleli, contemporanei e interdipendenti, tanto in età moderna quanto in età contemporanea.

In età moderna i missionari giungono nelle Americhe e in Asia sulle navi dei colonizzatori, protetti dalle medesime leggi, imbrigliati nei vincoli del patronato statale. E la situazione non è diversa nelle aree del globo, in particolare il Nord America oggi canadese, all'epoca sotto controllo francese. Ma tanto la Santa Sede quanto gli ordini religiosi impegnati nelle missioni non tardano a entrare in conflitto con il potere politico e a cercare spazi di autonomia.

Roma fonderà la potente congregazione di Propaganda Fide, nel 1622, proprio allo scopo di riportare, dovunque fosse possibile, le missioni sotto il controllo ecclesiastico, anche tramite abili espedienti canonici come l'istituto dei vicari apostolici, vescovi dipendenti direttamente da Roma, vescovi cioè "in partibus", che rispondevano del loro operato alla sede apostolica e non all'autorità politica.

I vicari apostolici furono utilizzati in particolare nel tentativo di aggirare il patronato portoghese. Nel caso del patronato spagnolo il modo per sfuggire al vincolo statale consistette nell'avvio di esperimenti di evangelizzazione svincolati dalla giurisdizione della corona di Madrid, in territori posti fuori o ai margini dalla sua giurisdizione.

In questo secondo caso va ricordato l'esperimento delle Riduzioni fra i guaraní del Paraguay (ma in realtà allargato anche ad altre aree e popolazioni sudamericane). Le Riduzioni erano missioni totalmente sotto controllo della Compagnia di Gesù, sulle quali la corona di Spagna non aveva quasi nessun potere. Sappiamo però che esse crollarono quando Spagna e Portogallo riordinarono i confini e privarono le missioni degli spazi di autonomia di cui avevano goduto per un secolo e mezzo. Non sempre Propaganda Fide riuscì a realizzare gli intendimenti per cui era sorta, neppure con l'espediente dei vicari apostolici.

Per tutta l'età moderna, insomma, missione e colonizzazione vissero una difficile coabitazione, spesso conflittuale.

In età contemporanea notiamo caratteristiche analoghe. Missioni e colonie vanno insieme, sia pure con sfasature non prive di importanza. In genere la missione precede la colonia e spesso si dirige in territori estranei o ai margini della colonizzazione: l'Oceania dove operò il PIME, la Patagonia dove si insediarono i salesiani.

Ma le coincidenze, nonostante queste sfasature, non devono impedirci di notare le diversità.

Nell'Ottocento e nel Novecento i missionari imparano le lingue locali, operano non sovrapponendosi alle culture autoctone ma penetrandole dall'interno, favoriscono la nascita di clero e gerarchie locali, seguendo le direttive romane emanate fin dalla famosa Istruzione ai vicari apostolici del Tonchino del lontano 1659 – un documento pontificio lungimirante, più citato che conosciuto –, ribadite in tutte le successive direttive pontificie e riprese dalla enciclica "Maximum illud" di Benedetto XV del 1919. Mentre la colonia è una conquista di territori, spazi e risorse, un'operazione di potere, la missione è un tentativo di innesto del cristianesimo senza alterare le culture locali.

Non sempre l'operazione fu portata avanti con la necessaria chiarezza, ma l'intenzione era questa. Comboni dirà che la presenza missionaria nella "Nigrizia" – come si definiva allora l'Africa – doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove esiste oggi una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. "Salvare l'Africa con l'Africa" fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via.

Se osserviamo a posteriori la storia del colonialismo europeo, notiamo più chiaramente la differenza fra colonialismo e missione. Il colonialismo è esploso lasciando macerie che hanno devastato, e continuano a devastare, i continenti extra-europei. La missione non è esplosa, è sopravvissuta all'età coloniale, si è trasformata e ha dato vita alle cosiddette giovani Chiese, con clero e gerarchia indigeni.

Oggi nel sacro collegio sono presenti decine di cardinali provenienti da Paesi africani o asiatici che furono colonie fino al secondo dopoguerra. Le missioni sono servite a dilatare il cattolicesimo su scala planetaria e a inculturarlo nei popoli nuovi.



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Saturday, July 07, 2018

Sense of sin in Japan


“The conception of sin, as distinct from uncleanness, is wanting, or rudimentary,   and throughout their history the Japanese seem to have retained in some           measure this incapacity to discern, or this reluctance to grapple with a problem of Evil. […]Much that is baffling in the study of their history, from ancient to   modern times, becomes clearer when one remembers that they have never been  tortured by the sense of sin” 

(G.B. Sansom, Japan. A Short Cultural History, New York,  1931, p. 54)