Saturday, August 24, 2013

La psicanalista e il monaco

Nel libro di Marie Balmary
La psicanalista e il monaco

di LU C E T TA SCARAFFIA

A dire la verità i libri che si propongono di riconciliare psicanalisi e cattolicesimo non mi hanno mai convinto. Mi sembra infatti che questi tentativi partano da un progetto armonizzatore al quale tutto viene subordinato, senza mai affrontare i veri problemi di fondo che dividono — o qualche volta improvvisamente uniscono — due sistemi di interpretazione dell’essere umano e dell’esistenza molto diversi tra loro. Non è questo il caso di un libro della psicanalista francese Marie Balmary, uscito nel 2005 (Paris, Éditions Albin Michel) e nel 2008 pubblicato in Italia dalle Paoline: Il monaco e la psicanalista.
L’autrice narra un dialogo fra una psicanalista ebrea — che è stata gravemente malata, e quindi si trova a ripensare il suo rapporto con la vita e soprattutto con la morte — e un monaco che
l’aveva conosciuta quando entrambi erano studenti di medicina.
Il dialogo non è però una trattazione astratta, che parla in generale del metodo psicanalitico e
della fede cristiana, ma una sorta di corpo a corpo fra due persone che cercano, che conoscono la sofferenza e che vogliono arrivare alla verità. Le parole della Bibbia, in quanto testo che unisce ebraismo e cristianesimo, anche se fino a quel momento poco praticato dalla psicanalista,
servono da terreno di riflessione e di scoperta.
All’inizio la contrapposizione sembra netta — «a lui la parola viene dall’esterno, a me dall’interno» — e il dialogo inizia con una polemica. Ruth, la psicanalista, accusa la Chiesa di avere tradito l’insegnamento evangelico, e Simon, il monaco, risponde che «il rinnegamento di Pietro mi sembra una base più sicura rispetto a una purezza e a una perfezione all’origine del cristianesimo», perché si riferisce a una «eredità accettata insieme al debito che comporta».
Ma poi l’analisi dei termini che escono spontaneamente dalle loro labbra — guarire, salvare,
grazia — e addirittura l’evo cazione e l’ascolto di brani musicali, insieme alle parole di filosofi e
di poeti amati da entrambi, aiutano l’approfondimento del discorso. Si arriva così al commento dell’episodio biblico del vitello d’oro, che per Simon rappresenta la scelta necessaria fra due
posizioni ben distinte: e cioè «la scelta fra un dio che ci ha fatti e un dio che ci facciamo noi».
Ruth teme che ogni religione porti l’essere umano alla posizione psicologica del servo davanti
a un dio, e arriva a definire la questione dell’ateismo in termini particolarmente originali. La psicanalista teme la contraffazione del Dio non creato compiuta da coloro che invece lo creano, e pensa che gli atei rifiutino non tanto il Dio creatore quanto il dio creato dagli esseri umani. «E
questo lavoro dell’anima è indispensabile per la fede altrui».

Simon le ricorda che «la nostra prima tendenza, quando vediamo la verità che si avvicina, è
di dirle: non ti vedo». Per questo si deve ascoltarla più volte, come recita il salmo 62: «Una
parola ha detto Dio, due ne ho udite». La bellissima lettera della sorella di Arthur Rimbaud, che
narra la conversione dello scrittore, offre poi a Ruth l’o ccasione di comprendere come la fede
debba essere condivisa, specialmente quando il verbo “c re d e re ” viene usato senza complemento oggetto, ma nel suo senso assoluto: «La prova del credere non è la certezza che ci sia qualcosa in cui credere, ma è il “credere con l’a l t ro ”».
Il punto più emozionante del dialogo — a cui si aggiunge Dan, un amico giornalista ebreo e ateo
— giunge con il disvelamento del sacrificio di Abramo. Al Dio (Elohim, nel testo ebraico) che
sembra esibire un’arbitrarietà pura, perché si presenta ad Abramo chiedendogli il sacrificio del figlio, si contrappone un altro Dio (Yhwh, nel testo ebraico) che gli trattiene la mano, segnando la fine dei sacrifici cruenti. Tutto l’episodio viene di conseguenza interpretato come una sorta di
vaccinazione spirituale, così descritta da Simon: «La Genesi racconta che si può arrivare al
vero Dio credendo in quello falso, e che un po’ alla volta si può passare dal sacrificio assurdo
all’alleanza di vita».
A questo punto i tre protagonisti del dialogo si trovano ad ammettere che i testi sacri ebraici
e cristiani non sono soltanto rivelati, ma sono addirittura rivelanti. E in questa vicenda la psicanalisi si dimostra solo uno dei tanti metodi che l’essere umano ha inventato per arrivare alla verità. Può quindi aiutare a comprendere il grande libro, e in definitiva essere meglio compresa
nella sua natura di cura guaritrice.

L'Osservatore romano, giovedi 24 agosto 2013

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