Dalle Confessioni alla Lumen fidei
Il filo di Agostino Tra Ratzinger e Bergoglio
di LEONARD O LUGARESI
All'inizio della terza parte dell'enciclica Lumen fidei, quella dedicata alla trasmissione della fede, il lettore si imbatte in questa suggestiva immagine: «È una luce che si rispecchia di volto in volto,
come Mosé portava in sé il riflesso
della gloria di Dio dopo aver parlato
con lui (...). La luce di Gesù brilla,
come in uno specchio, sul volto dei
cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).
Colpisce, in queste parole, che proprio il riverbero della luce di Cristo
sia indicato dal Papa come la prima forma di trasmissione della fede.
«La fede si trasmette, per così dire,
nella forma del contatto, da persona
a persona, come una fiamma si accende da un'altra fiamma», prosegue
lo stesso paragrafo della lettera, lasciandoci capire che questa sorta di
osmosi viene prima di ogni attvita missionaria organizzata, di ogni presa di posizione pubblica, di ogni
progetto culturale, di ogni programma catechetico.
Purtroppo noi moderni abbiamo
qualche problema con l'immagine
della luce, abituati come siamo a declinarla metaforicamente secondo
un'accezione sempre un po' illuministica, e — nell'esistenza quotidiana —
a dare per scontato il possesso e il
controllo della luce materiale, tanto
che anche il più breve blackout ci è insopportabile. Ci manca l'esperienza della luce
come dono e quella dell'ineluttabilità delle tenebre: così, per esempio,
quando preghiamo l'antico inno della compieta,
Te lucis ante terminum,
che spessore di coscienza hanno
quelle parole, quando per noi la luce
non ha mai termine e nelle nostre
città non viene mai propriamente il
buio della notte?
«È urgente recuperare il carattere
di luce della fede» dice il Papa
nell'enciclica (n. 4), ma per farlo oc-
corre dunque comprendere che tale
luce non è quella di un'immediata
nostra chiarezza di visione su ogni
cosa (un po' come la «formula che
mondi possa aprirti» di montaliana
memoria), non è la luce di un faro
che da noi si proietta sulla realtà
permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto
come un raggio che colpisce e illumina innanzitutto il nostro volto. In
virtù della fede, dunque, possiamo sì
dirci "illuminati", ma nel senso proprio del participio passato del verbo,
non in quello (sempre larvatamente
gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una
luce che dissipa l'oscurità del mondo
e rivela segreti inaccessibili a coloro
che sono nell'ignoranza.
La portata decisiva di questa distinzione, nell'intendere l'immagine
della luce della fede, si coglie mag
giormente se ci si riferisce al suo retroterra agostiniano, del resto esplicitamente richiamato dall'enciclica al
paragrafo 33: «Nella vita di
sant'Agostino — scrive Papa Francesco — troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata
integrata nell'orizzonte della fede.
(...) e così ha elaborato una filosofia
della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre
uno spazio alla libertà dello sguardo
verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la
luce trova come risposta un'immagine che la riflette».
Le Confessioni di Agostino ci offrono alcuni esempi estremamente significativi di questi diversi modi di
intendere l'illuminazione della fede.
Ne vogliamo ricordare almeno due:
nel quarto libro, ricordando le sue
imprese di giovane intellettuale orgoglioso di aver compreso da solo i
testi filosofici più ardui e convinto
di trovare in essi la chiave per conoscere Dio, Agostino descrive così la
sua posizione umana: «
Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da
essa illuminate, per cui la mia faccia
stessa, con la quale distinguevo le
cose illuminate, non era luminosa
(dorsum habebam ad lumen et ad ea,
quae inluminantur faciem: unde ipsa
facies mea, qua inluminata cernebam,
non inluminabatur)» (4, 16, 30). Con
questa folgorante osservazione egli
descrive perfettamente una situazione in cui anche noi rischiamo facilmente di trovarci. Anche noi, infatti,
benché convertiti e battezzati, siamo
tentati di vivere e di comportarci da
"illuminati", nel senso che usiamo la
fede per illuminare le cose e iintendiamo la missione come lo sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione
del mondo, ma «non abbiamo la
faccia rivolta al mistero» di Dio che
ci illumina, e di conseguenza non ne
riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane.
Come può avvenire la conversione
dall'una all'altra, per cui letteralmente si capovolge l'orientamento della
vita? Agostino ce lo mostra esemplarmente nell'ottavo libro raccontando
la vicenda di un altro intellettuale,
Mario Vittorino. Questo doctissimus
senex, che sa tutto e ha letto tutto, e
da tutti è venerato (con tanto di statua nel foro romano. Più di un nostro senatore a vita o un premio Nobel), leggendo la Scrittura e studiando con grande scrupolo omnes christianas litteras si convince della verità
del cristianesimo. Ne parla con un
prete colto, Simpliciano (ma non in
pubblico: sono confidenze che uno
come lui può fare, secretius et familiarius, solo tra persone di qualità, che
possono capirle) e gli dice: «Sai, io
ormai sono cristiano». Ne riceve una
risposta brusca, che oggi forse sarebbe da molti riprovata in quanto contraria allo spirito del dialogo: «Non
ti credo, e non ti considero cristiano
finché non ti vedo nella chiesa di
Cristo». La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe
essere il motto di tutti i "cristianisti"
senza fede): «
Sono dunque i muri
che fanno i cristiani? (ergo parietes
faciunt christianos?)» (8, 2, 4).
Se Vittorino fosse solo interessato
al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro (saepe parietum
inrisio repetebatur), reciprocamente
compiaciuti della propria arguzia.
Ma Vittorino è un uomo seria-
mente preoccupato del suo destino,
che sa — come dice splendidamente
Agostino — «arrossire di fronte alla
verità», e un giorno si presenta
all'amico dicendogli semplicemente:
«Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano» (eamus in ecclesiam:
christianus volo fieri). Quel che succede
dopo non possiamo qui riferirlo nei dettagli: basti dire che il
grande intellettuale declina l'offerta che i
preti gli fanno di celebrare il battesimo in
forma riservata e la ce-rimonia si svolge davanti a tutti, come una grande performance della fede, in cui Vittorino semplicemente si
mostra, fa vedere il suo volto illuminato dal battesimo. E tutti lo guardano, tutti ripetono il suo nome, e
quando fa la sua professione di fede,
dice Agostino, «avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore» (volebant eum
omnes rapere intro in cor suum) (8, 2,5).
L'attrattiva suscitata da Vittorino,
la bellezza che lo rende così desiderabile per quella folla che se lo mangia con gli occhi, è ben diversa dal
fascino umano che un maestro dalla
forte personalità può avere sul suo
uditorio: per intenderci, non è quella
che, stando a Porfirio, brillava sul
volto di Plotino quando faceva lezione (Porfirio, Vita di Plotino, 13). È
la luce divina che brilla, come su
uno specchio, sul volto del battezzato, che ha appena ricevuto quel sacramento che l'antichità cristiana,
non per nulla, ha tanto spesso preferito chiamare col nome bellissimo di
illuminazione" (fotismos).
Ha scritto il cardinale Bergoglio
nella prefazione a un volume su
Agostino (Giacomo Tantardini, Il
tempo della Chiesa secondo Agostino,
Roma, Città Nuova, 2009, pagine
388, euro 22): «Se Agostino è attuale, se ci è contemporaneo (...) lo è
soprattutto perché descrive semplicemente come si diventa e si rimane
cristiani nel tempo della Chiesa. (...)
Qui sta il punto: alcuni credono che
la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il
Signore. Invece è il contrario: tu sei
salvo quando il Signore ti cerca,
quando Lui ti guarda e tu ti lasci
guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi,
capisci che Lui stava là guardandoti,
ti aspettava Lui, per primo. Ecco la
salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti
lasci amare. La salvezza è proprio
questo incontro dove Lui opera per
primo. Se non si dà questo incontro,
non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui
Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo
di Dio». Forse è in questa radice
agostiniana, come già altri hanno
notato, che si trova una delle ragioni
più profonde della consonanza di
due personalità così diverse come il
Papa emerito Benedetto XVI e Papa
Francesco, e forse è qui anche la via
per non farsi intrappolare in una
falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di
profilarsi in certi recenti dibattiti intra ecclesiali.
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