Saturday, November 28, 2020

Come orfani in cerca di un padre di JEAN-LUC MARION*

 Come orfani in cerca di un padre


di JEAN-LUC MARION*


Ad alcune settimane dalla sua pubblicazione, come si possono valutare l’accoglienza e l’impatto dell’enciclica Fra t e l l i tutti?

Il successo dell’enciclica Fratelli tutti dipende dalla forza e dalla correttezza della sua analisi politica. Riprendendo numerose analisi precedenti che aveva sviluppato come vescovo di Buenos Aires, Papa Francesco esplicita in dettaglio una

costatazione di Papa Benedetto XVI: «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli». E aggiunge: «L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma

cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere» (n. 12). Le argomentazioni

su questo «ritorno all’indietro» (n. 11) sono molto precise:

le nuove «ideologie» (n. 13), l’interpretazione degli uomini che «non servono ancora» o «non servono più» (n. 18), come scarti (n. 19) infra-umani, la «povertà» (n. 21) sistemica, l’inuguaglianza sociale ed economica dei sessi (n. 23) e persino la «schiavitù» (n. 24); ne conseguono «l’aborto», «il commercio di organi» (n. 24) e la «terza guerra mondiale a

pezzi» (n. 25). A essere in discussione non è altro che «...una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto» (n. 24). La speranza, forse ingenua, che la scomparsa dei

totalitarismi esplicitamente ideologici ci liberi dalle ideologie è venuta meno: l’idolatria

del mercato (n. 168), della globalizzazione (fino a quella delle pandemie), della trasformazione del pensiero in informazioni e data, tutto ciò comporta quantomeno il rischio di un nuovo totalitarismo, questa volta anonimo e veramente

universale, quello della «concupiscenza» (n. 166). Non c’è bisogno di molta filosofia per riconoscere qui la volontà di

potenza elevata al livello della volontà di volontà. Come si può far fronte a questa situazione, descritta senza mezzi termini? Papa Francesco si basa su una costatazione incontrovertibile: «nessuno si salva da solo, ...ci si può salvare unicamente insieme» (n. 32). Vale a dire che la sfida “salva te stesso” lanciata in faccia a Cristo sulla croce identifica la salvezza che il mondo vuole e che Dio al cont ra r i o scredita. Bisogna invece non salvare sé stessi, perché la salvezza ci giunge da l’a l t ro v e .

Da quale altrove? In un primo tempo, questa salvezza presuppone che si costituisca e che si tenti di costituire una comunità: «abbiamo bisogno di costituirci in un “noi”»; e l’enciclica ritrova qui quello che la filosofia moderna (da Husserl a Lévinas) ha identificato come un fine, che essa non ha veramente raggiunto; un “noi” dove comunicano e si comunicano gli ego. Poiché non si tratta soltanto, né prima di tutto, di un “noi” «contrapposto al mondo intero» (n. 89), di fronte ad altri diventati semplicemente «quelli» (n. 27, come per C. Schmitt). Poiché non ci sono «gli altri», ma piuttosto un “noi” (n. 17; vedi nn. 43, 78 e 152). Da qui la reiterata invocazione dell’«amicizia sociale»

(nn. 94, 99, 198-202, etc.), o meglio della «carità sociale» (n. 176 e seg., 182), e persino dell’«amore sociale» (n. 183). In effetti questa tesi non è affatto banale, perché vuole reintrodurre la carità nel concreto

della politica effettiva. Ma anche perché non è scontato che la «fraternità universale» (nn. 110 e 176), pur supponendo che possiamo raggiungerla, produca automaticamente e di per sé la pace, la comunità e l’intesa.

Essa può anche e spesso provocare la rivalità mimetica, dunque la violenza, e condurre all’omicidio: Romolo e Remo,

ma prima Caino e Abele (R. Girard seguendo Hegel). Oggi non solo non siamo di fatto tutti fratelli, ma ci scopriamo

anche, in materia di possibile fraternità, come fratelli senza padre, in altre parole orfani.

Senza padre, senza origine vivente della nostra fraternità putativa, ci uccidiamo a vicenda ancora più liberamente per

catturare l’eredità senza erede legittimo. Non è questione di sapere se siamo, possiamo o dobbiamo considerarci reciprocamente fratelli, ma di sapere di quale fraternità si tratta, in altre parole, di quale paternità, da quale Padre questa fraternità può giungerci. Il motto francese, nella sua rigorosa laicità, «Libertà, Uguaglianza e Fraternità», già problematica nei suoi due primi termini, resta illusorio, per non dire menzognero, nell’ultimo.

Perché la fraternità, ipotetica nel supposto “umanesimo” del mondo, non conduca alla guerra di tutti contro tutti, occorre addirittura riconoscere «la fraternità che il Padre comune ci propone» (n. 46). Occorre addirittura riconoscere

«... l’Altissimo, il Padre celeste» (n. 60) come il solo (Mt 23, 9). Anzi, l’enciclica dice letteralmente: «In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’a l t ro , perché chi crede può arrivare a

riconoscere che Dio ama ogni essere umano con un amore infinito e che “gli conferisce con ciò una dignità infinita”... E se andiamo alla fonte ultima, che è la vita intima di Dio, ci incontriamo con una comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune» (n. 85). Solo lo Spirito del Padre in Gesù Cristo ci consente di farlo (Rm 8, 15-17; Gal 4, 6); ed è per questo che l’enciclica si chiude con una preghiera allo Spirito: «Vieni, Spirito Santo!» (n. 287). Ma allora va da sé che l’eventuale desiderio di ogni essere umano di «amicizia sociale» acconsenta a questa

apertura trinitaria della fraternità in Cristo? Va da sé che «le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura» ritengano che ogni essere umano sia chiamato a «essere figlio o figlia di Dio»?

Le d i f f e re n t i religioni non differiscono forse proprio perché, eccetto il cristianesimo, non osano chiamare tutte le donne e gli uomini «figli di Dio», per adozione, in senso stretto? Oppure solo l’a l t ro v e , affidato certo ai

cristiani per tutti, lo rende pensabile e possibile in Gesù Cristo? Si è detto: «Solo un dio può salvarci». Resta da dire e da mostrare quale. L’enciclica può dunque dare l’impressione che l’i n t e r ro g a t i vo mondano sulla fraternità riceverebbe indistintamente una risposta dall’«amore sociale» e anche dalla carità trinitaria che lo Spirito riversa nei nostri cuori (cfr. Rm 5, 5). Che susciti riserve dipende dal fatto che lascia teologicamente implicita — proprio perché i destinatari, cristiani e soprattutto non cristiani, non l’ammettono, anzi la rifiutano — la ragione della fraternità dei cristiani: riconoscere un solo Padre, che è nei cieli.

Si tratta di una contraddizione? La preoccupazione pastorale di rivolgersi a tutti gli «uomini di buona volontà»

(da qui il voluto mantenimento del controsenso per una formula che va intesa, lo sappiamo, come «gli uomini a cui

Dio vuole bene, che Egli ama») porta ad attenuare lo scarto tra ciò che pensa, se pensa veramente, la vulgata globalizzata del mondo e ciò che Dio rivela in Gesù Cristo? Certamente no. Dopotutto, come mostra l’esegesi recente a proposito del discorso di Paolo sull’areopago (At 17), si può pensare che l’apostolato vada il più lontano possibile per avvicinare i punti di vista e costruire un passaggio, provvisorio e persino volontariamente ambiguo, che avvicini per esempio

gli “dei sconosciuti” e il Dio unico, al di là di ogni nome.

Dopo tutto la Rerum novarum e la Gaudium et spes ci hanno provato, non senza successo. Ma, come per Paolo, alla fine il discorso del cristiano deve ammettere come normale e inevitabile la contraddizione: ci sarà sempre chi si allontanerà dalla Risurrezione e chi, come Denys, l’accetterà. La contraddizione non sta nell’annuncio, ma nell’effetto dell’annuncio. Non designa una tensione nell’annuncio, ma il luogo in cui l’annuncio affronta la libertà di

ascoltare o meno. Ogni parola cristiana deve sapere non solo sopportare questa contraddizione con il mondo, ma anche

provocarla: perché è soltanto in essa che l’annuncio può sortire il suo effetto, provocare la fede o il rifiuto.


*Dell’Académie Française


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