LÉVI- STRAUSS
Compirà cent’anni il prossimo 28 novembre. È considerato il padre moderno di una disciplina che guarda alle culture con una mentalità «relativistica». Dopo le ricerche in Brasile, elaborò una teoria che ha condizionato generazioni di studiosi
L’antropologia senza centro
DI LUCETTA SCARAFFIA
Claude Lévi-Strauss compirà cento anni il prossimo 28 novembre, e la Francia si prepara a festeggiare quello che è stato, senza dubbio, il più importante intellettuale francese del Novecento. Anche il fatto che stia per raggiungere una età così significativa e rara gli conferisce un’aura speciale, un’aura che si aggiunge a quella di monumento vivente alla cultura del secolo, di cui ha impersonato al meglio la pretesa di trovare una spiegazione 'scientifica' a tutto. Si tratta di uno status che il grande antropologo ha raggiunto già da mezzo secolo: si può considerare, infatti, che la sua consacrazione sia avvenuta il 5 gennaio 1960, giorno della lezione inaugurale al Collège de France, che non solo lo accoglieva fra i suoi membri, confermando ufficialmente il suo statuto di grande studioso, ma si apriva alla disciplina da lui – in un certo senso – inventata, l’Antropologia strutturale. Egli realizzava così, finalmente, la sua ambizione di estendere il dominio dell’antropologia fino a comprendere tutte le scienze umane, studiate con metodi scientifici analoghi a quelli delle scienze naturali. Lévi-Strauss, profeta della morte del soggetto e papa della modernità trionfante, si presenta quindi ai suoi contemporanei come colui che svelerà loro il senso di quello che sembrava solamente disordine. Il suo immenso successo non è solo di natura accademica: se oggi pensiamo che non esistono le razze, ma solo le differenze culturali, se crediamo che non si possono fare differenze di valore fra le culture, se pensiamo che un mito Hopi sia interessante e importante co- me un Vangelo, è solo grazie all’influenza esercitata dal suo pensiero. Un’influenza non solo positiva: come ha scritto un suo contemporaneo e critico, il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, «l’ateismo moderno, non è la negazione di Dio, ma l’indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto al giorno d’oggi, il più disorientato e il più disorientante ». Nato nel 1908 da una famiglia ebraica ormai assimilata nella società francese, laureato in filosofia, trova la sua strada nella ricerca etnologica grazie alla possibilità di insegnare per un periodo all’università di San Paolo, in Brasile. La scelta dell’etnologia – racconta nelle sue interviste – è stata quasi casuale: per alcuni anni, infatti, si era impegnato soprattutto in politica, con il partito socialista e il sindacato e forse, se le occasioni fossero state altre, la sua vita avrebbe preso una direzione diversa. Gli anni trascorsi a San Paolo, e soprattutto i mesi di vacanza dall’università passati a fare ricerca fra le popolazioni indigene meno contaminate dalla civiltà occidentale – e questi saranno gli unici periodi di ricerca diretta sul campo della sua lunga vita di studioso – costituiranno invece il suo battesimo come etnologo e gli faranno scoprire l’intensa attrazione per l’esotico e il diverso. L’esilio obbligato a New York durante il regime di Vichy lo mette in contatto con l’antropologia anglosassone, allora all’avanguardia, e gli consentirà di tessere relazioni durature e importanti anche con la comunità degli intellettuali esiliati là durante la guerra. Particolarmente feconda la sua amicizia con il linguista russo Roman Jakobson, grazie a cui scoprirà la linguistica strutturale, che gli offre la possibilità di arrivare a un sapere oggettivo – come quello delle scienze naturali – in cui vedrà la chiave per ritrovare, sotto la superficie della storia e degli avvenimenti, la logica che porta il reale a essere quello che è. Egli si pone davanti al mondo come davanti a un testo, che bisogna imparare a leggere e comprendere direttamente. L’applicazione dell’analisi strutturale ai sistemi di parentela delle tribù amerindie da lui studiate costituì il primo banco di prova di queste teorie innovative. La famiglia, per Lévi-Strauss, non è un fatto naturale, e ogni spiegazione naturalista non può arrivare a spiegare il suo funzionamento; l’unica spiegazione è quella culturale, che egli trova nei simboli della parentela. Un sistema di parentela, egli scrive, «esiste solo nella coscienza degli uomini »: oggi sappiamo bene quali effetti questa affermazione ha determinato nelle nostre società.
Il ritorno in Francia nel dopoguerra non fu facile, anche se quelli furono gli anni di una feconda collaborazione con l’Unesco, per cui scrisse uno dei suoi saggi più famosi, Razza e storia, nel quale confutava l’esistenza delle razze, nonché quella di una gerarchia fra le culture. Intorno a questa tesi scoppiò un vivace dibattito: Roger Caillois, sociologo e scrittore, accusò Lévi-Strauss di relativismo, perché obbligava l’etnologo a essere coscienza critica dei valori della cultura da cui era emerso. Mentre, al contrario, per Caillois sarebbe proprio l’esistenza dell’etnologia a confermare la superiorità dell’Occidente sui 'primitivi'.
Un lungo viaggio in Estremo Oriente per l’Unesco lo metterà in contatto con le religioni orientali e con l’islam, verso cui proverà una manifesta antipatia; il suo agnosticismo radicale lo avvicina solo al buddhismo, che considera l’unica religione accettabile. Nel 1954 la sua fama cresce improvvisamente grazie a un libro non scientifico, una sorta di romanzo filosofico di viaggio, Tristi tropici,
che lo fa conoscere in tutto il mondo, anche al di fuori degli specialisti. L’ingresso nell’Ecole des Hautes Etudes non avviene, come lui voleva, fra le 'Scienze umane' della VI sezione, dominata dagli storici, ma nella V, delle 'Scienze religiose', composta, a detta dell’antropologo, di «poveri diavoli». In questo suo atteggiamento, è evidente non solo il disprezzo per le persone (uno dei colleghi era Dumezil!), ma per il tema stesso: egli non considererà mai la religione come tema autonomo di ricerca, ma solo come specchio dell’organizzazione sociale e culturale di un popolo. Per questo, il suo interesse si indirizzerà ai miti, alla cui decifrazione dedicherà la seconda parte della sua vita di ricerca, mentre come saggista si cimenterà con i grandi temi dell’umanità, come il progresso, il rapporto con la matematica, la musica e l’arte, talvolta sollecitato dalle conversazioni con amici come Benveniste, Lacan, Merleau-Ponty. Il testo mitico, per lui, non appartiene alla sfera religiosa, ma deve essere decifrato come un linguaggio. Ed è proprio sulla questione dell’analisi del mito che si concentra la critica di un altro antropologo francese, René Girard, che nella Francia ipnotizzata dal pensiero levistraussiano non trova spazio, ed è costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Girard denuncia la tendenza, in Lévi-Strauss, a «mettere da parte la verità»; in particolare, per quanto riguarda il meccanismo della vittima espiatoria, lo strutturalismo «fa scomparire il sacro». Ma è soprattutto la magistrale analisi di Girard sui Vangeli come rovesciamento del meccanismo tradizionale del capro espiatorio a costituire la confutazione più chiara del relativismo culturale.
Oggi lo strutturalismo non è più di moda fra gli studiosi, ma gli effetti del pensiero di Lévi-Strauss sono evidenti e forti nell’opinione comune, nella costruzione di un 'politicamente corretto' agnostico e relativista che sembra ormai avere contaminato ogni forma di pensiero.
Avvenire, 24 luglio 2008
Subscribe to:
Post Comments (Atom)
No comments:
Post a Comment