Friday, July 25, 2008

LEVI-STRAUSS

LÉVI- STRAUSS

Compirà cent’anni il prossimo 28 novembre. È considerato il padre moderno di una disciplina che guarda alle culture con una mentalità «relativistica». Dopo le ricerche in Brasile, elaborò una teoria che ha condizionato generazioni di studiosi
L’antropologia senza centro

DI LUCETTA SCARAFFIA

Claude Lévi-Strauss compirà cento anni il prossimo 28 novembre, e la Francia si prepara a festeggiare quello che è stato, senza dubbio, il più importante intellettuale francese del Novecento. Anche il fatto che stia per raggiungere una età così significativa e rara gli conferisce un’aura speciale, un’aura che si aggiunge a quella di monumento vivente alla cultu­ra del secolo, di cui ha impersonato al meglio la prete­sa di trovare una spiegazione 'scientifica' a tutto. Si tratta di uno status che il grande antropologo ha rag­giunto già da mezzo secolo: si può considerare, infatti, che la sua consacrazione sia avvenuta il 5 gennaio 1960, giorno della lezione inaugurale al Collège de France, che non solo lo accoglieva fra i suoi membri, confer­mando ufficialmente il suo statuto di grande studioso, ma si apriva alla disciplina da lui – in un certo senso – inventata, l’Antropologia strutturale. Egli realizzava co­sì, finalmente, la sua ambizione di estendere il domi­nio dell’antropologia fino a comprendere tutte le scien­ze umane, studiate con metodi scientifici analoghi a quelli delle scienze naturali. Lévi-Strauss, profeta del­la morte del soggetto e papa della modernità trionfan­te, si presenta quindi ai suoi contemporanei come colui che svelerà loro il senso di quello che sembrava solamente disordine. Il suo immenso successo non è solo di natura accade­mica: se oggi pensiamo che non esistono le razze, ma solo le differenze culturali, se crediamo che non si pos­sono fare differenze di valore fra le culture, se pensia­mo che un mito Hopi sia inte­ressante e importante co- me un Vangelo, è solo grazie all’influenza esercitata dal suo pensiero. Un’influenza non solo positiva: come ha scritto un suo contemporaneo e critico, il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, «l’ateismo moderno, non è la negazione di Dio, ma l’indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scrit­to al giorno d’oggi, il più disorientato e il più disorien­tante ». Nato nel 1908 da una famiglia ebraica ormai assimila­ta nella società francese, laureato in filosofia, trova la sua strada nella ricerca etnologica grazie alla possibi­lità di insegnare per un periodo all’università di San Paolo, in Brasile. La scelta dell’etnologia – racconta nel­le sue interviste – è stata quasi casuale: per alcuni an­ni, infatti, si era impegnato soprattutto in politica, con il partito socialista e il sindacato e forse, se le occasio­ni fossero state altre, la sua vita avrebbe preso una di­rezione diversa. Gli anni trascorsi a San Paolo, e so­prattutto i mesi di vacanza dall’università passati a fa­re ricerca fra le popolazioni indigene meno contami­nate dalla civiltà occidentale – e questi saranno gli u­nici periodi di ricerca diretta sul campo della sua lun­ga vita di studioso – costituiranno invece il suo battesimo come etnologo e gli faranno scoprire l’intensa at­trazione per l’esotico e il diverso. L’esilio obbligato a New York durante il regime di Vichy lo mette in contat­to con l’antropologia anglosassone, allora all’avan­guardia, e gli consentirà di tessere relazioni durature e importanti anche con la comunità degli intellettuali e­siliati là durante la guerra. Particolarmente feconda la sua amicizia con il linguista russo Roman Jakobson, grazie a cui scoprirà la linguistica strutturale, che gli of­fre la possibilità di arrivare a un sapere oggettivo – co­me quello delle scienze naturali – in cui vedrà la chia­ve per ritrovare, sotto la superficie della storia e degli avvenimenti, la logica che porta il reale a essere quel­lo che è. Egli si pone davanti al mondo come davanti a un testo, che bisogna imparare a leggere e com­prendere direttamente. L’applicazione dell’analisi strutturale ai sistemi di parentela delle tribù amerindie da lui studiate co­stituì il primo banco di prova di queste teorie in­novative. La famiglia, per Lévi-Strauss, non è un fat­to naturale, e ogni spiegazione naturalista non può arrivare a spiegare il suo funzionamento; l’unica spiegazione è quella culturale, che egli trova nei simboli della parentela. Un sistema di parentela, e­gli scrive, «esiste solo nella coscienza degli uomi­ni »: oggi sappiamo bene quali effetti questa affer­mazione ha determinato nelle nostre società.
Il ritorno in Francia nel dopoguerra non fu facile, anche se quelli furono gli anni di una feconda col­laborazione con l’Unesco, per cui scrisse uno dei suoi saggi più famosi, Razza e storia, nel quale con­futava l’esistenza delle razze, nonché quella di una gerarchia fra le culture. Intorno a questa tesi scop­piò un vivace dibattito: Roger Caillois, sociologo e scrittore, accusò Lévi-Strauss di relativismo, per­ché obbligava l’etnologo a essere coscienza criti­ca dei valori della cultura da cui era emerso. Men­tre, al contrario, per Caillois sarebbe proprio l’e­sistenza dell’etnologia a confermare la supe­riorità dell’Occidente sui 'primitivi'.
Un lungo viaggio in Estremo Oriente per l’U­nesco lo metterà in contatto con le religioni orientali e con l’islam, verso cui proverà u­na manifesta antipatia; il suo agnosticismo radicale lo avvicina solo al buddhismo, che considera l’unica religione accettabile. Nel 1954 la sua fama cre­sce improvvisamente grazie a un libro non scientifico, una sorta di romanzo filosofico di viaggio, Tristi tropi­ci,
che lo fa conoscere in tutto il mondo, anche al di fuo­ri degli specialisti. L’ingresso nell’Ecole des Hautes Etudes non avviene, co­me lui voleva, fra le 'Scienze umane' della VI sezione, dominata dagli storici, ma nella V, delle 'Scienze reli­giose', composta, a detta dell’antropologo, di «poveri diavoli». In questo suo atteggiamento, è evidente non solo il disprezzo per le persone (uno dei colleghi era Dumezil!), ma per il tema stesso: egli non considererà mai la religione come tema autonomo di ricerca, ma solo come specchio dell’organizzazione sociale e cul­turale di un popolo. Per questo, il suo interesse si indirizzerà ai miti, alla cui decifrazione dedicherà la seconda parte della sua vita di ricerca, mentre come saggista si cimenterà con i gran­di temi dell’umanità, come il progresso, il rapporto con la matematica, la musica e l’arte, talvolta sollecitato dalle conversazioni con amici come Benveniste, La­can, Merleau-Ponty. Il testo mitico, per lui, non appartiene alla sfera religiosa, ma deve essere decifrato come un linguaggio. Ed è pro­prio sulla questione dell’analisi del mito che si concentra la critica di un altro antropologo francese, René Girard, che nella Francia ipnotizzata dal pensiero levistraussiano non trova spazio, ed è costretto ad emigrare negli Stati U­niti. Girard denuncia la tendenza, in Lévi-Strauss, a «met­tere da parte la verità»; in particolare, per quanto riguar­da il meccanismo della vittima espiatoria, lo strutturali­smo «fa scomparire il sacro». Ma è soprattutto la magi­strale analisi di Girard sui Vangeli come rovesciamento del meccanismo tradizionale del capro espiatorio a costitui­re la confutazione più chiara del relativismo culturale.
Oggi lo strutturalismo non è più di moda fra gli studio­si, ma gli effetti del pensiero di Lévi-Strauss sono evi­denti e forti nell’opinione comune, nella costruzione di un 'politicamente corretto' agnostico e relativista che sembra ormai avere contaminato ogni forma di pensiero.


Avvenire, 24 luglio 2008

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