Monday, June 28, 2010

Santificazione o sfruttamento del basso clero?

Autore: A. Castegnaro
Titolo: Il prete: disagio e trasformazione. Ridare forma al presbiterio

Riferimento: Regno-att. n.12, 2010, p.414

Raccogliendo i frutti di molti studi e inchieste sul clero, Alessandro Castegnaro – presidente dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto (OSRET) – evidenzia il disagio dei preti in Italia. Si sentono spesso uomini «in trincea», chiamati a muoversi con prudenza, ma spesso da soli e senza il sostegno dell’istituzione e degli altri preti.
(...)
Ne emerge un quadro complesso di profonda trasformazione della Chiesa nelle sue figure istituzionali e nella vita comunitaria. Tale trasformazione in atto non può essere evitata: essa richiede da un punto di vista sia giuridico sia ecclesiale un accompagnamento interpretativo e un governo responsabile.

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Esiste oggi un serio problema di qualità delle relazioni
nella Chiesa. Esso ha due risvolti, uno dei quali riguarda
le relazioni di carattere verticale (con l’autorità)
e l’altro quelle di carattere orizzontale (tra preti, nel presbiterio).
Sul primo è difficile raccogliere opinioni chiare
tra i preti. Sui rapporti con l’autorità essi preferiscono
restare abbottonati e rifugiarsi su formulazioni moderate,
che alludono a rapporti «abbastanza» buoni con il
proprio vescovo. Tra i numerosi aspetti che si potrebbero
approfondire quello che forse è meno noto, ma che
genera molta sofferenza, è la mancanza di un sistema
chiaro di premi e di punizioni. Dalle indagini sul burnout
questa dimensione è risultata essere del tutto inesistente
(cf. RONZONI [a cura di], Ardere, non bruciarsi). I
riconoscimenti quando si è operato bene sembrano
mancare. Tutto è sempre dovuto. L’impegno profuso
non viene riconosciuto (e non solamente dall’autorità) e
l’apprezzamento non viene percepito.
Chi opera in modo
insoddisfacente, salvo casi estremi, è trattato allo stesso
modo, o così pare.
La questione del mancato apprezzamento
è particolarmente sentita nel rapporto tra parroci
e preti giovani alle prime esperienze, che si percepiscono
al di sotto delle attese sviluppate nei loro confronti
(qualcosa che avviene spesso anche negli istituti religiosi
e all’interno delle famiglie, nel rapporto genitori-figli).
Va detto che è tipico di tutte le organizzazioni istituzionalmente
altruistiche essere poco attente a riconoscere
l’apporto dei propri membri.
Il fine, l’ideale a cui sono
votate, assorbe tutte le altre considerazioni. È un
aspetto a cui si dovrebbe invece prestare attenzione.
Il giudizio critico espresso nei confronti del livello
delle relazioni negli ambienti ecclesiastici emerge con
particolare evidenza a proposito dei rapporti tra preti.
Esiste un certo numero di preti che non ha rapporti significativi
con i propri confratelli o che non li sente vicini
(circa uno su quattro).
Più in generale le relazioni si
sviluppano in funzione delle attività da svolgere e poco
in funzione dell’ascolto reciproco. Vi è la tendenza a
considerare più il ruolo che la persona. Alcuni preti parlano
di una «mentalità da caserma». Le relazioni sono
povere. C’è poca stima e la superficialità dei rapporti favorisce
il pregiudizio.
In tutto questo c’è molto di maschile
e una lettura di genere della problematica presbiterale
sarebbe molto utile. Un aspetto che mi ha sempre
colpito è che i preti, nei confronti dei propri confratelli,
si pongono in modo fortemente giudicante. La situazione
più diffusa è perciò la paura del giudizio. Parlare vuol
dire essere giudicati. Quello che fai viene visto dagli altri.
Introdurre cambiamenti nella propria vita, ad esempio
al fine di stare meglio, è difficile proprio a causa di
questa paura. Come si è espresso un prete: «Noi che siamo
i professionisti dell’accoglienza non facciamo altro
che giudicare»
. Molti preti pensano che non vi sia speranza
di cambiare le relazioni con i confratelli.
Si manifesta
un atteggiamento di sfiducia e di rinuncia, un desiderio
d’immobilità. E questo è un fatto grave.
È in questo quadro che si colloca la scarsa disponibilità
per la vita assieme ad altri preti che le ricerche documentano,
al di là di una dichiarata ma generica (e
probabilmente calante) valutazione positiva per le unità
pastorali. I preti non vogliono vivere con altri preti.
La
solitudine è ricercata anche perché è rassicurante: impedisce
che i confratelli osservino i propri disagi, quando
vi sono.

(...)
In effetti viene da chiedersi, o almeno
a me è successo di chiedermi, lavorando su questi
temi: ma c’è qualcuno che vuole bene al prete? Qual
è la comunità del prete? È il presbiterio? Può essere il
presbiterio?
(...)
L’immagine eucaristica del prete «mangiato»,
«spezzato», se non è vissuta con equilibrio – in quanto
ideale che esiste certo, ma non come «dovere» e figura di
ruolo da attuare qui e ora – rende difficile quel tanto di distanziamento
dal ruolo, quella sana distinzione tra persona
e ruolo sociale, che sono necessari per conservare il
proprio equilibrio e che sono tutt’altra cosa della spersonalizzazione.
Si ha la sensazione, invece, che alcuni vivano
tale distanziamento, il bisogno di proteggere il proprio
equilibrio personale, la ricerca di soluzioni che consentano
di vivere meglio, il rifiuto della sindrome del «bed at the
church», come prove della fragilità della propria vocazione
e che ciò li faccia soffrire.
(...)
Il modo in cui viene proposta ai preti l’immagine ideale,
come se l’adeguarsi a essa fosse un obbligo morale e non
un dono della grazia, d’altra parte, potrebbe essere anche
all’origine di quella ipertrofia del giudizio cui abbiamo accennato,
della mancanza di carità tra presbiteri. È come
se, nel momento in cui si diventa preti, le debolezze non
fossero più ammesse. L’immagine ideale non lascia spazio
a mediazioni e a incertezze. Tu sei prete! Per te tutto è dovuto!
La tua disponibilità o è totale o non è! Se sbagli ti
senti giudicato, anche se in forme nascoste. Se fai bene,
niente ti deve essere riconosciuto.
Ci sarebbe bisogno di
ascolto, di molto ascolto. Non è un caso che i preti, quando
si chiede loro di disegnare la figura ideale del vescovo
indichino innanzitutto la capacità di venire ascoltati.
(...)
Le questioni indicate sono ormai «mature», nel senso
che sono presenti da tempo. Hanno bisogno di essere affrontate
seriamente e per quello che sono: problemi che
hanno a che fare con l’umanità del prete e con la vita della
Chiesa in quanto sistema di relazioni, senza illudersi
che le soluzioni possano essere puramente di natura spirituale,
né che il controllo dei casi di più evidente deterioramento
personale possa bastare. I preti si attendono indicazioni
più chiare verso quali direzioni nuove s’intende
andare, anche dai loro vescovi; indicazioni in grado di fare
realmente i conti con i cambiamenti avvenuti nel contesto
socio-religioso e nel profilo spirituale del prete, e
con la situazione determinatasi in seguito alla contrazione
numerica dei presbiteri; soluzioni che evitino di cullarsi
nell’idea che qualche santo alla fine provvederà.

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Commento:

Se il "basso clero" trattasse la gente come vengono trattati dai loro superiori, un gran numero se ne sarebbe gia' andata.
Se non sbaglio anche il ruolo del vescovo o del superiore religioso e' una forma pastoralita'. Oltre a fare prediche ogni tanto dovrebbero anche dare l'esempio. o no?

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