Saturday, September 25, 2010

Postcolonial studies

Amselle, Jean-Loup, Il distacco dall’Occidente
Meltemi, Roma 2009, pp. 252, € 24,00, ISBN 978-88-8353-688-5
Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010

Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità

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Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.

Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.

La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.

Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.

Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).

In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.

Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.

A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.
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Introduzione

1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale

Conclusione

Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia

Bibliografia

Indice dei nomi propri

L'autore

Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).

Link

Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:
http://www.meltemieditore.it/PDFfiles/ildistaccodalloccidente_interviste.pdf

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