Thursday, January 20, 2011

Caso Berlusconi: Le parole e i silenzi della Chiesa

SULLA CHIESA GIUDICE NELLA SFERA PUBBLICA E SUI SUOI CORRUTTORI

di Pietro de Marco

L’intelletto politico è segnato nel Novecento, erede delle rivoluzioni moderne, da una costante discriminazione dell’avversario secondo il valore. L’avversario non è tale razionalmente, e reversibilmente, in momenti e su terreni pubblici particolari; è Nemico personale e ad un tempo dell’umanità, della democrazia, della giustizia. I classici della scienza politica, che distinguevano rigorosamente i due livelli di inimicizia, avevano intravisto l’eventualità del loro collasso in uno solo, il Nemico assoluto, anche nelle pratiche conflittuali. La ineluttabilità di un obbligo morale al conflitto, avvertivano, implica un estremo pericolo, poiché la motivazione “per princípi” della lotta politica chiede di prolungare il conflitto fino all’annientamento.
Gli uomini che perseguono risultati radicali devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, “perisca pure il mondo”. La lotta assoluta tra valore e disvalore ha una sua sequenzialità devastatrice: obbliga a creare criminalizzazioni e svalorizzazioni sempre nuove, fino all’annientamento di “ogni vita politica indegna di esistere” (Carl Schmitt). L’inimicizia assoluta è teorizzata e alimentata dall’intelligencija moderna, fattasi titolare del giudizio di validità ultima sulle sfere di giustizia.
La tradizione giuridica, teologico-politica, pastorale della Chiesa è l’antagonista – ed è spesso il bersaglio diretto – di questa istanza “rivoluzionaria” di un giudizio che si pretende superiore e sommario.
Infatti, da un lato la Chiesa cattolica non conosce l’imperativo dell’annientamento di “vite politiche indegne di esistere”, se non nell’assoluta eccezione prevista dalla discussa dottrina del tirannicidio. Questo anzitutto perché non riconosce politiche salvifiche, quelle che simmetricamente si affermano le uniche “degne di esistere”.
Dall’altro lato, la potestà di giurisdizione della Chiesa si regola nell’ordinario del tutto diversamente, distinguendo tra materie che riguardano il foro esterno e quelle pertinenti il foro interno. La giurisdizione di foro esterno si esercita in pubblico e si riferisce al bene comune. L’altra guarda immediatamente e direttamente il bene della singola anima; si esercita nel segreto e ha effetto nella coscienza.
Si tratta di un paradigma giuridico, in effetti antropologico e teologico-politico, alto e complesso. Solo il moralismo militante, il nuovo attore politico della modernità che si realizza nella figura dell’opinione publica-partito, può pensare di alterare ad hoc, se e quando serva, con l’arma del “quarto potere”, l’esercizio civile della razionalità politica e cattolica.
Si osserverà che questo ordine sociale, razionale e cattolico, suppone l’autorità del confessore sulla persona privata, oltre ad una potestà della Chiesa nella sfera pubblica. E che le due istanze debbono coesistere e completarsi. Ma i limiti dell’efficacia “erga omnes” delle decisioni della Chiesa in società pluralistiche non ne invalidano una validità permanente; esse restano, anzi, tanto più esemplari quanto più si palesano gli “effetti perversi” del mancato riconoscimento di “tribunali della coscienza” che abbiano autorità sulle condotte private.
Nello spazio pubblico italiano le richieste alla Chiesa di intervenire, oggi, con condanne contro qualcuno, non solo sono “partigiane” (l’opinione pubblica attiva è sempre partito), ma intendono provocare la Chiesa ad un giudizio pubblico per obiettivi estranei, forse opposti, al senso, al fondamento, della sua destinazione e giurisdizione.
Non solo si vuole indurla ad un metodo improprio, anzi illegittimo, perché anticiperebbe, come fa per definizione l’opinione pubblica, la ponderazione rigorosa dei fatti e delle imputazioni. Ma le si suggerisce di assumerere nella propria prassi l’istituto della “ghigliottina politica”, il corto circuito liquidatorio tra foro esterno e “forum animae”, contro la razionalità rigorosa che canonisti e teologi, tribunali e confessori, hanno praticato nei secoli e praticano.
Non sorprende che si tenti di trasformare la Chiesa in uno strumento aggiuntivo, e decisivo, della mobilitazione dell’intelligencija, anzi, in una parte dell’intelligenciia stessa. Minoranze colte di clero e laicato lo sono già, e obbediscono ai suoi moti con perfetto automatismo. Ma l’arruolamento nella “machine” dell’opinione pubblica eterodiretta è il peggio che possa accadere all’intelletto cattolico e all’istituzione ecclesiastica. È da credere che non accadrà.
*
La predicazione e l’ammaestramento della Chiesa non dimenticano, peraltro, di sanzionare il “libertinaggio irresponsabile”, diffuso da decenni nel circuito perverso dei modelli di esistenza “liberata” (non solo sessuale) generalizzati dai nuovi media.
In un coraggioso saggio sul pudore pubblicato dall’editore Einaudi, Monique Selz scrive: “In questa esibizione che fa vedere tutto, è in gioco niente meno che il tentativo o il simulacro della rivelazione del mistero dell’origine, che porta all’illusione che sia possibile comprendere l’altro totalmente e quindi impossessarsene. Contro questo, il pudore ha il compito di nascondere l’immagine per proteggere l’essere”.
La dittatura della trasparenza impudica del sé, l’ipertrofia delle libertà intime congiunta alla comoda retorica delle virtù pubbliche, il frequente “servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata, per altri scopi” (secondo le parole di monsignor Crociata): per queste strade pubbliche la cosiddetta emancipazione ha camminato e cammina, confermata o anticipata dalle leggi, dalla esibizione dell’orgoglio eversivo, dal “pride” di turno, dai preservativi a scuola e la pillola abortiva nello zainetto, dalla consulenza immoralista dei magazine. Tutto palese, e prevalentemente istituzionale, è ormai questo processo di socializzazione, enormemente diluito nel tempo. E dietro ai tanti educatori “alla libertà” opera una visione del mondo seriosa (non stiamo parlando di veline), programmaticamente rivolta alla decostruzione di principi e istituti.
Nella sfera civile deborda e ad essa sembra appartenere anche quella vita privata un tempo oggetto della chiacchiera sussurrata, della riservata calunnia, e che oggi la vetrina universale dei media di massa rende pubblica. Morale e diritto, però, ci rendono avvertiti. Tra coloro che propongono i modelli del “nuovo”, nel romanzo, nel saggio, nel programma scolastico o nelle leggi di una regione, nella battaglia politica o nella accattivante esibizione del genere Gay Pride, e volentieri dileggiano tutto ciò che è “vero, nobile e giusto”, da un lato, e dall’altro lato colui, chiunque sia, che viene trascinato in pubblico c’è una sostanziale differenza.
Nel primo caso, coloro che propongono un paradigma di emancipazione “libertina” della morale sociale si assumono responsabilità e provocano il nostro giudizio; per parte sua il giudizio cattolico afferma, da molto tempo, che “è in pericolo il bene stesso dell’uomo”.
Nel secondo caso, persone e condotte vengono trascinate da terzi nell’agorà, in modo che le giudichiamo, quasi fossero esse ad esibirsi e presentarsi. Questa procedura piuttosto ci suggerisce, con la mente alla polverosa e assolata piazza dell’adultera, la bruciante frase di Gesù: “Chi di voi è senza peccato…” (Giovanni 8, 7). Infatti non vi è legittimità alcuna in un giudizio del genere; tanto meno legittimità pubblica, poiché quella persona incolpata non attribuisce esemplarità alla condotta di cui la si accusa. Proprio lo spazio privato da cui è stata strappata per dirle:”Così ti mostri a tutti?” fa intendere che tale persona non propone né una dottrina né un paradigma. Altri lo fanno. Non lasciamo che la mobilitazione dei “virtuosi” ci cambi oggi le carte in tavola.
Dunque, né il giudice – a meno non sia un giudice della Lubjanka –, né il giudizio morale del privato dovrebbero accogliere delle deformazioni lesive della persona, fatte per colpire il suo onore, come prove a carico. Giurisdizione e opinione dell’uomo medio si sono, invece, reciprocamente contaminate nel triangolo tra a) intercettazioni a tappeto di dubbia legittimità, b) costruzione e dilatazione mediatica dello scandalo, c) uso politico della peculiare pubblicizzazione del privato nel flusso massmediale. Il giudice si fa parte non tanto per sue interne insindacabili ragioni partigiane, quanto per la contaminazione tra privato e pubblico che, oggi, la pratica delle intercettazioni comporta, senza che egli possa sostenere di non esserne consapevole, anzi attore. Contaminazione che rende liquide le capitali separazioni tra privato e pubblico. E producendo ad arbitrio il “monstrum” di vicende private di interesse pubblico, con procedura inedita nel nostro ordinamento, quella della prova mediatica, apre l’ordinamento stesso al genere del “processo pubblico-politico” rivoluzionario.
Firenze, 19 gennaio 2011

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/01/19/caso-berlusconi-le-parole-e-i-silenzi-della-chiesa/

No comments: