Friday, July 03, 2015

L’assoluto nell’istante

Cristianesimo e universalità L’assoluto nell’istante ---------------------------- Anticipiamo uno stralcio dall’articolo «Uni- versalità e cristianesimo in un’età secolariz- zata» che uscirà sul numero 3/2015 di «Vita e Pensiero», il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. -------------------------- di ADRIANO FABRIS --------------------------------- Per “salvare i fenomeni” dalla loro contingenza Platone ha l’universale. Lo ha posto in un mondo a parte, preliminare: il mondo delle idee. Si tratta del mondo vero, cioè del mondo assoluto ed eterno, a cui si deve commisurare il mondo dell'esperienza. In questa prospettiva i fenomeni guadagnano certamente un punto di riferimento stabile. Lo guadagnano se risultano adeguati al mondo delle idee. Ma c’è un solo modo di ottenere questa adeguazione e di verificarla. E questo modo è conosciuto appunto dal filosofo. In Platone, dunque, la mediazione tra particolarità e universalità viene fissata una volta per tutte nella forma di un assorbimento dell’elemento particolare, contingente, in una prospettiva universale ed eterna. Rispetto a questa sussunzione del particolare nell’universale, rigida e unica, il cristianesimo propone un’altra via. È quella, per un verso, dell’incarnazione e, per altro verso, della redenzione. L’incarnazione è, per esprimerci in termini filosofici, l’assoluto che si fa contingente, ed entra nella storia. In tal modo non si ha una separazione definitiva tra storico ed eterno, che può essere governata solo attraverso l’adeguazione del primo al secondo (cioè subordinando il particolare all’universale), ma si ha invece una relazione dinamica fra questi due livelli, che permette il loro collegamento anche se viene mantenuta fra di essi un’insup erabile differenza. La redenzione, poi, è non solo il punto d’arrivo della salvezza, e dunque l’esperienza del recupero dell’eternità di ciò che è contingente, ma è anche il cammino che l’essere umano è chiamato a percorrere per realizzare tutto questo. Di più. In tale cammino l’essere umano cerca di anticipare per quanto è possibi- le, con le sue azioni e nei riti della comunità, la vita eterna nella propria stessa vita. Sia l’incarnazione sia la redenzione non identificano dunque, in maniera indifferente, ciò che è assoluto e ciò che è contingente, ciò che è universale e ciò che è particolare. Ma neppure separano una volta per tutte questi due livelli, o pongono tra di essi, come unica possibilità di collegamento, una subordinazione e un assorbimento del particolare nell’universale. Ciò che mostra il cristianesimo, nella sua storia e nella sua dottrina, è invece l’idea che la relazione autentica non si realizza eliminando le differenze. E questo è possibile perché si tratta di una relazione dinamica, non già di un rapporto statico. In altre parole, nell’incarnazione ciò che è assoluto viene incontro a ciò che è contingente e lo abita. Ciò che è contingente, storico, risulta in tal modo santificato e impegnato a realizzare sempre di più, nella storia, la sua santificazione. Perciò esso può indirizzarsi verso l’asso luto e intraprendere il cammino della redenzione. E in questa relazione l’assoluto resta assoluto e il contingente, pure, rimane tale. Se dunque il problema è di come intendere il rapporto tra particolare e universale senza ricadere né nell’i n d i f f e r e n za né nel fondamentalismo, la soluzione, forse, può consistere in un modo diverso di comprendere la nozione stessa di “universalità”. Non si tratta di pensare separati universale e particolare. E nep- pure di confonderli insieme. La loro relazione è il risultato di una mediazione, di un cammino. E la dinamica, il cammino che sono propri del passaggio dal particolare all’universale. A partire da questo processo possiamo comprendere anche il concetto, tipicamente cristiano, di “missione”. Ecco perché, se l’universalità è un processo e non un dato di fatto, invece che di universalità dobbiamo forse parlare, meglio, di una universalizzabilità. Questo termine indica il modo in cui la particolarità della propria posizione può non già risultare, immediatamente, universale, o adeguata a una dimensione universale, ma venire spinta a realizzarsi in maniera universale. E, per far questo, dev’essere disposta a confrontarsi con le posizioni altrui, deve esporsi a esse e da- re testimonianza di sé di fronte a esse. Deve farlo perché è consapevole che proprio nella sua particolarità, in virtù dell’incarnazione, c’è un aspetto che può essere universalizzato. Che spinge all’apertura e non alla chiusura. Sempre tenendo conto, tuttavia, che il cristiano vive nel saeculum, ma non è del saeculum

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