Wednesday, August 08, 2007

Post-colonialismo

IDEE
Contro le tesi di Hitchens, l'antropologo Appadurai nega il nesso tra violenza e religione: «Al contrario, il pericolo è l'etnicità»

Se vuoi la pace, prepara la fede

Di Edoardo Castagna

Dice che è appena «lieve», la differenza tra religione ed etnicità. Uno di quei "quasi uguali", cioè, su cui da anni si sofferma la sua riflessione. Ma, parlando della nuova violenza che il mondo globalizzato ci mette sotto gli occhi, Arjun Appadurai in quella «lieve differenza» innesta uno scarto decisivo: «L'etnicità è una via a senso unico. La religione, al contrario, può aprire la strada all'inclusione dell'umanità». Spunto della sua riflessione, articolata sotto forma di dialogo con Judit Carrera e Josep Ramoneda sul quinto numero della rivista Esprit, è la sua costante indagine sul rapporto tra globalizzazione e violenza, della quale un paio d'anni fa Meltemi aveva portato in Italia Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione. L'antropologo indiano è considerato uno dei padri del postcolonialismo, la corrente di pensiero a cavallo tra storia, filosofia e antropologia che, ormai da qualche decennio, mira a svincolarsi dalle categorie concettuali proprie dell'Occidente "coloniale" e a elaborarne di proprie, capaci di por fine alla mai superata "subalternità" culturale del Terzo mondo. Un approccio dal quale, nonostante il fatto che abbia incominciato a far breccia anche nello stesso Occidente, recentemente lo stesso Appadurai ha preso le distanze. Negli ultimi anni la sua riflessione si è invece appuntata sul carattere eccezionalmente violento assunto, al tempo della globalizzazione, dai conflitti di carattere etnico-religioso: dal Ruanda all'ex Jugoslavia, per arrivare all'attuale Iraq e all'offensiva terroristica islamista. Il problema di fondo, secondo Appadurai, non è affatto - come sostengono le note tesi di Hitchens - quello delle differenze troppo grandi, ma è quello delle differenze troppo piccole. Sono queste che creano insicurezza, rendendo vaghe e vane le tradizionali e affidabili categorie di "noi" e "gli altri". Obbiettivo primario di al-Qaeda et similia è contrastare l'omologazione culturale dei musulmani allo stile di vita occi dentale. Ecco quindi, argomenta Appadurai, che si scatena la violenza più efferata: quella dell'età della globalizzazione, che spesso trova un appiglio ideologico in qualche perverso intreccio di religione ed etnicità. Nesso rigettato recisamente da Appadurai: dalle colonne di Esprit precisa che, al contrario, la religione «è associata all'emancipazione, alla dignità. Non è sempre così, lo sappiamo bene! Però contempla questa possibilità. L'etnicità è al contrario unidimensionale». Quindi, è necessario tracciare con chiarezza la linea che mette da un lato la religione, con il suo portato di inclusione e pace, e dall'altro l'estremismo religioso - con il suo gemello, il nazionalismo etnico - che al contrario chiamano esclusione e violenza. Detonatore dell'estremismo etnico-religioso è sempre, per Appadurai, la globalizzazione, che «favorisce la conflittualità e fa il gioco degli estremisti. L'estremismo religioso aumenta e la moderazione vede diminuire la sua influenza». Che fare? Da un lato, l'antropologo propone un esempio: «Vale la pena di ritornare a Gandhi: egli è stato estremo, senza mai essere violento». E, dall'altro lato, ribadisce il ruolo positivo della religione: «Con essa, è sempre possibile allargare il proprio orizzonte, se le condizioni sono favorevoli», anche perché «è legata alla filosofia e all'etica». Virtù, quest'ultima, che proprio non appartiene all'estremismo: nemmeno se si ammanta, senza diritto, delle vesti della religione.

da: Avvenire 4 agosto 2007

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