Occidente e Cristianesimo: il conflitto delle interpretazioni e la “riserva escatologica” della fede
intervento pronunciato da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del dibattito-incontro su "L’avvenire del Cristianesimo", tenutosi il 24 gennaio al Centre Culturel Saint Louis de France di Roma.
Il destino dell’Occidente si è prestato alle interpretazioni più diverse, spesso tra loro in conflitto. Fra le metafore utilizzate non poche si muovono in direzione di un giudizio tragico, come ad esempio quelle di “tramonto” e di “naufragio”. È Oswald Spengler a privilegiare la categoria di “tramonto”: nata in opposizione alla modernità decadente, la sua opera Il tramonto dell’Occidente [1] ne è in realtà un estremo epigono. Essa intende dimostrare le tendenze dissolvitrici insite nella modernità occidentale, leggendo il processo in atto sotto il segno di un inevitabile declino: le due anime del Faust, la tecnica e la tragica, sono polarizzate a scapito della seconda. La svolta non può essere data per Spengler dalla democrazia, mera dittatura del denaro, né dalle ideologie del progresso schiave della tecnica, come il socialismo, ma da una tensione tragica, che riconcili storia e natura in un nuovo inizio. Non è difficile constatare come queste analisi abbiano potuto produrre terribili frutti, legati a letture ideologiche e violente tanto di destra, quanto di sinistra.
Ben diversa è l’origine della metafora del “naufragio”, scelta da Hans Blumenberg nella sua opera Naufragio con spettatore [2] come chiave di comprensione della condizione attuale dell’Occidente. Punto di partenza è il testo in cui Lucrezio presenta lo spettatore che dalla riva assiste rassicurato a un naufragio [3]: la contrapposizione tra la sicurezza della terraferma e il mare in tempesta, esprime la condizione “classica” dell’esistenza, certa di un punto di appoggio da cui poter guardare la scena della vita e del mondo. È questa certezza che si perde nel tempo della modernità: “Vous êtes embarqué”, dirà Pascal [4]. Il naufrago è ormai lo stesso spettatore: non c’è più lo stabile punto di vista a partire dal quale ci si possa porre come spettatori distaccati. L’onda, sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano, siamo noi stessi. La condizione post-moderna, cui è approdato il viaggio dell’Occidente, consiste insomma nel nuotare da naufraghi in mezzo al mare della vita, cercando di costruire una zattera su cui rifugiarci.
I modelli interpretativi della crisi dell’Occidente, che ho voluto richiamare, presentano una convergenza impressionante con molti dei giudizi raccolti dall’inchiesta de La Croix sulla condizione del cristianesimo occidentale oggi: se all’idea di Occidente si sostituisce in essi quella di cristianesimo, la convergenza appare evidente. Ecco solo alcuni esempi di valutazioni, registrate dall’inchiesta a proposito del presente e dell’avvenire della vicenda cristiana: “déclin annoncé”, “pessimisme lancinant”, “enfouissement”, “glissement d’identité”… Sembra quasi che per non pochi Occidente e Cristianesimo si identifichino “tout-court” nella loro parabola di grandezza e di caduta: in questo senso, l’inchiesta ha colto un luogo comune presente in modo pervasivo in molti degli interpreti dell’attuale vicenda cristiana. È giusta, però, questa identificazione assoluta? Ed è giusto trarne la conseguenza che “declino dell’Occidente” significhi senz’altro “declino del cristianesimo”? O, invece, la “riserva escatologica” della fede non comporta sorprese che non sono quantificabili nei termini di un semplice giudizio storico o di una valutazione di processi culturali puramente mondani?
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1. Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeshichte, 2 vol.: 1918, 1922; nuova edizione 1923 (la traduzione italiana è di Julius Evola 1957; riedizione Parma 1991).
2. Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt am Main 1979 (traduzione italiana: Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna 1985).
3. Cf. Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4.
4. Pensées, in Oeuvres complètes, éd. J. Chevalier, Paris 1954, n. 451 (= 233 Brunschvigc). Blumenberg pone questa frase in esergo al suo libro.
5. Die letzten Dinge, Mainz 19896 (traduzione italiana: Le cose ultime, Brescia 1997).
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