Saturday, April 06, 2013

Risonanze dal Giappone



Il predecessore di Papa Francesco non ha mai goduto, specialmente agli inizi, di “buona stampa” e questo ha avuto i suoi effetti anche in campo ecclesiale. Francesco, invece, almeno agli esordi sembra essere piu’ facilmente accettabile, anche se e’ sempre per effetto del trattamento mediatico. Si potrebbe dire che il magistero del NYT o dell’Asahi Shinbun non ha meno influenza di quello pontificio.
Trent’anni fa i vescovi giapponesi erano considerati tra i piu’ ligi alle direttive romane. Poi qualcosa e’ cambiato e adesso siamo piu’ vicini, parafrasando Kant, alla “missione nei limiti del politically correct”.
Il deficit di inculturazione e di propagazione del Vangelo nel contesto delle millenarie culture dell'Estremo Oriente e' fin troppo evidente. Si tratta di vedere se, per recuperare il ritardo, sia praticabile la scorciatoia della "de-ellenizzazione" del Cristianesimo. Se, per esempio, sia possibile sostituire una visione confuciana o taoista del mondo a una aristotelica o illuminista. Oppure, se sia ipotizzabile una forma di vita ecclesiale che trae la sua origine direttamente dalla Parola senza passare attraverso le mediazioni dello “sviluppo dogmatico”. Se sia possible ottenere in laboratorio un distillato di Vangelo che, poi, si puo’ seminare nei piu’ svariati terreni. Se, in analogia con la “globalizzazione”, si puo’ pensare ad una Chiesa Cattolica “multipolare”; in quel contesto le chiese particolari che tipo di rapporto avrebbero con la Chiesa universale? La “multipolarita” delle sfere culturali e l’unita’ della fede come si possono coniugare?  Sono queste, credo, le questioni da affrontare. E credo anche che Francesco non potra’ trovare periferie piu’ lontane e piu’ difficili di queste.
Il problema piu’ spinoso rimane senz’altro quello della “lotta per le investiture” con l’imperatore cinese. In Giappone i rapporti diplomatici e l’ossequio formale ci sono, ma per quanto riguarda la sostanza i problemi non sono molto diversi.

Senza entrare nel merito delle opinioni teologiche, per avere un'idea di come si esprime un vescovo giapponese in una delle rarissime apparizioni sulla stampa "laica", basta dare un’occhiata al “Bungei Shunju” del dicembre scorso.
Yamaori Tetsuo (il guardiano dell'ortodossia dell'ideologia giapponese) cerca di arruolare i cattolici nel Nihonkyo. Mons. Ikenaga, o non se ne accorge, oppure sembra fare lo gnorri. Ma sostanzialmente ammette la subalternita' dei cattolici giapponesi alla ideologia del relativismo religioso.
Se non ho capito male, un vescovo della Chiesa cattolica romana si suppone che dovrebbe perlomeno "difendere e promuovere" l'ortodossia della fede, non diffondere opinioni teologiche peregrine. E poi sarebbe auspicabile che cercasse di essere "missionario", cioe' cercasse almeno di far presente anche a un pagano inveterato come Yamaori che il Vangelo e' la verita' che da senso a tutte le culture.
Insomma, la chiesa locale si configurerebbe come un “franchising”. Come i ristoranti della McDonald, pur sotto lo stesso marchio, in Giappone offrono un menu diverso da quelli americani o italiani, cosi la chiesa locale deve offrire quello che si puo’ vendere alla clientela locale. 
Sono queste, mi pare, le linee su cui si muovono quelli che invocano la collegialita’ episcopale come controbilanciamento del centralismo romano. Purtroppo concetti come l’ontologia del “subsistit Ecclesia”, la mutua penetrazione di chiesa locale e universale, o anche solo di “ipostasi ecclesiale” (J. Zizioulas) non sono stati masticati a sufficienza e ben digeriti neanche da molti teologi di professione. La direzione e' ben diversa da quella indicata da Valignano e Ricci (a proposito:  provate a cercare i testi di questi due, che rimangono a tutt'oggi insuperati pionieri dell'autentica inculturazione, nelle biblioteche dei missionari ...).
La questione non e’ solo se un pastore debba avere l’odore delle pecore, ma anche che le pecore vogliono essere guidate ai “pascoli ubertosi” e non alle acque amare e magari velenose del relativismo. Se le pecore devono rimanere unte, non dovrebbe essere con un qualsiasi lubrificante per macchine, ma deve essere con l'olio di Aronne.
Credo che Papa Francesco avra' bisogno di tutte le risorse che gli vengono dalla pratica del discernimento ignaziano, se vuole lasciare un segno cristiano anche in queste periferie. 


Inculturazione o fedelta'?


C'e' un proverbio giapponese che dice 朱と交われば赤くなる "shu ni majiwareba akakunaru" (lett. chi tocca inchiostro (rosso) si sporchera' di rosso").
L'equivalente italiano piu' vicino potrebbe essere:"chi va con lo zoppo imparare a zoppicare", che ha i suoi corrispettivi nelle lingue romanze: "Quien con lobos anda, a aullar se enseña."; "Hantez les boiteux, vous clocherez."
In inglese si potrebbe pensare a: "Who keeps company with the wolf will learn to howl."; "If you lie down with dogs, you will get up with fleas."; "He that touches (or toucheth) pitch shall be defiled."
M a c'e' anche: "In compagnia prese moglie anche un frate.", detto popolare che la nonna usa per dire che una cosa che da solo non avresti fatto, in compagnia la fai eccome!
Tutto questo serve a capire il dilemma dei missionari odierni alle prese con l'inculturazione del Vangelo in culture non cristiane. Se da una parte non si puo' piu' trasmettere il Vangelo come una predica che cade dall'alto, dall'altra, il fatto di condividere la vita dei destinatari della missione puo' avere degli effetti collaterali insospettati.
Cosi' chi vive in una societa' politeista, se non sta piu' che attento, e' piu' che naturale che, anche inconsciamente, tenda ad adeguarsi.
La post-modernita' e il "politically correct", per esempio, che sono stati definiti anche come un "politeismo dei valori", potrebbero essere una forma facilmente assimilabile di "zoppicamento".
In termini biblici questo medesimo dilemma lo si puo' vedere nella lunga e fatidica lotta del popolo eletto per mantenere una propria specifica identita' nel mezzo della cultura cananea. Che senso ha oggi la severa vigilanza e disciplina che Dio stesso sembra chiedere al popolo di Israele nei confronti della cultura cananea?  « I figli d'Israele abitarono in mezzo ai Cananei … e venerarono gli dei di costoro. » (Giudici, 3,5-6).« Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare, perché essi non v'insegnino a commettere tutti gli abomini che fanno per i loro dei e voi non pecchiate contro il Signore vostro Dio. » (Deuteronomio, 20, 16-18).

Se partiamo dal punto di vista che "Dio ha avvolto tutti nel peccato per usare a tutti misericordia", non si puo' dire che i cananei fossero piu' peccatori dei, per dire, Corinti o dei Greci o dei Romani. Probabilmente la cultura cananea, benche' militarmente e politicamente perdente, non era meno rispettabile di quella di altri popoli. Cosi' come la cultura giapponese non e' da considerarsi meno rispettabile di altre culture, comprese quelle di ascendenza cristiana. Non e' questo il punto. La colpa degli isrealiti non e' stata quella di non aver saputo discernere i "semina verbi", ne' quella di non essersi "inculturati", ma quella di non aver saputo mantenere una identita' sufficientemente distinta.

Forse che si puo' sostenere la tesi che nell'economia incarnazionale neotestamentaria questa problematica e' superata? Non sono mancate e non mancano posizioni teologiche di questo tipo. Ma allora, cosa rimarrebbe della "distinzione mosaica" (Ratzinger), dei profeti, dell'apocalittica, ecc. che leggiamo quotidianamente nella liturgia? Certo gli interlocutori di Paolo, i Corinti o i Romani, che vivevano nella cultura forse piu' raffinata del tempo, non potevano sentirsi esentati da problemi di questo tipo. Forse che lo siamo noi, solo perche' siamo cresciuti in regime di Cristianita'? Forse che possiamo ritenerci "vaccinati" contro ogni contaminazione? Non e' forse vero che la missione, la testimonianza di fede e' sempre anche un "pathos dell'individuo" (von Balthasar), una diuturna lotta contro false concezioni del divino?

Quello che si puo' dire con certezza e' che nei termini del racconto biblico, questo non e' senz'altro un tema secondario, ma un punto vitale su cui si gioca il possesso o meno della "terra promessa", cioe' di un corretto rapporto con Dio.

E allora perche' i missionari odierni nei loro incontri, non mettono mai a tema un problema cosi' importante? Se non e' perche ci sentiamo vaccinati, che non sia perche' ormai abbiamo gia' fatto molti passi sulla via del compromesso, al punto che non sappiamo piu' renderci conto dei pericoli? Quando in un convegno recente di missionari stranieri si discetta di missione "nei limiti del politically correct", da qui alla "cattivita' babilonese" ( la situazione in cui non si vede piu' la terra promessa) quanto ci passa? Dopo tutto quello che e' successo in questi ultimi cinquant'anni, sembrerebbe incredibile, eppure gli aficionados della teoria dei "cristiani anonimi" sono ancora tanti. Ai posteri l'ardua sentenza!
"Sicchè oggi la chiesa è divenuta per molti l’ostacolo principale della fede.Non riescono più a vedere in essa altro che l’ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini i quali, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo."
(J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005, p. 330 [originale tedesco 1968]) 

Se e' vero che il Vaticano II ha posto la chiesa locale come il soggetto primo della missione, questo non aveva il senso di appiattire tutti gli altri soggetti, come dimostra anche il magistero seguente. Di fatto i missionari stranieri ormai da qualche decennio hanno lasciato l'iniziativa alla chiesa locale, senza che questa peraltro sia diventata piu' missionaria. La chiesa locale e' soprattutto un centro di potere soprattutto burocratico (di tipo confuciano-aziendale) che controlla la pastorale ordinaria. I missionari hanno smesso di prendere l'iniziativa, la chiesa locale gestisce lo status quo: un perfetto stallo. Ormai dovrebbe essere evidente che una certa lettura del dettato conciliare non funziona.


In termini di numero di fedeli tutta la chiesa cattolica del Giappone non e' piu' grande della diocesi di Brescia, eppure ha tutto l'armamentario della CEI. A Roma sono stato solo tre anni, ma un'idea di come funziona la Roma papalina me la sono fatta. Alla sede della Conferenza Episcopale a Tokyo vicino al porto sono stato poche volte, ma mi e' bastato per capire le affinita' e che in fatto di mentalita' clericale e burocratica non ha niente da invidiare al Vaticano. Se papa Francesco riesce a riformare la curia, speriamo che il buon esempio trascini qualcosa anche da queste parti.

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