Problemi salienti
del rapporto Vangelo-cultura in Giappone
De-ellenizzazione
e teologie asiatiche
Bonazzi Andrea
“Kunshi ha Shu
ni shite Hi sezu,
De-ellenizzazione è un termine usato per indicare il rifiuto della filosofia
classica greca nella civiltà occidentale. Papa Benedetto XVI in particolare ha utilizzato questo
concetto nella conferenza all’universita’ di Ratisbona nel 2006. Papa Benedetto XVI considera il processo di de-ellenizzazione come manifestatosi
in varie fasi. La prima fase ha avuto luogo durante la Riforma, quando i riformatori hanno
considerato la Chiesa come troppo fortemente influenzata dalla filosofia e
hanno sviluppato l'insegnamento della sola scriptura, nel tentativo di
ridurre questa influenza. La seconda fase si e’ vista nella teologia liberale del XIX e XX secolo (ad
esempio, Adolf von Harnack), che ha cercato di secolarizzare il cristianesimo,
eliminando da esso molti elementi teologici e filosofici. La terza fase, ispirata dal pluralismo culturale,
e che ora è in corso, mira a rendere il cristianesimo più disponibile a culture
diverse eliminando influenze che, come
la filosofia greca, non sono considerati parte integrante di esso, ma un
accidente storico. In questo modo, al posto della filosofia greca, altri elementi
culturali vengono considerati partner priviligiati per il lavoro teologico.
I missionari nella loro predicazione avrebbe costretto gli ascoltatori ad assorbire concetti della cultura ellenica, così spesso il problema viene evocato, creando una sorta di “cristianesimo importato”, che è poco attraente per i popoli dell'Asia. Come esempio di questa posizione, cito una parte dell’intervento che l'arcivescovo di Nagasaki Francis Kaname Shimamoto, ha fatto nella quarta sessione del Sinodo dei Vescovi per l'Asia:
I missionari nella loro predicazione avrebbe costretto gli ascoltatori ad assorbire concetti della cultura ellenica, così spesso il problema viene evocato, creando una sorta di “cristianesimo importato”, che è poco attraente per i popoli dell'Asia. Come esempio di questa posizione, cito una parte dell’intervento che l'arcivescovo di Nagasaki Francis Kaname Shimamoto, ha fatto nella quarta sessione del Sinodo dei Vescovi per l'Asia:
"Anche se il cristianesimo non è legato a nessuna cultura
particolare, non si può ignorare la cultura del popolo a cui il Vangelo è
predicato. Nel continente asiatico, il
cristianesimo è ancora in qualche modo vestito di cultura europea. Nel contesto culturale
asiatico, l'evangelizzazione progredisce quindi necessariamente in congiunzione
con la graduale soppressione delle caratteristiche culturali europee. Questo processo, chiamato con il neologismo
"inculturazione", è inevitabile per l'evangelizzazione, in caso
contrario, il cristianesimo sarebbe sempre una religione ‘straniera’ per i
popoli asiatici".[2]
Allo
stesso Sinodo, l'arcivescovo di Osaka Leone Jun Ikenaga, ha messo in contrasto
la cultura ocidentale e le culture asiatiche. Questo contrasto metterebbe in evidenza, almeno questa e’ la pretesa, le ragioni
per cui molti asiatici sentono la Chiesa come ‘straniera’:
"In India, che è,
ovviamente, Asia Occidentale, il lavoro missionario, ci viene detto, risale ai
tempi apostolici. Eppure, questa
evangelizzazione a tutt’oggi, ha fatto pochi progressi. I
battesimi sono pochi, e forse più importante, il pensiero
cristiano non è entrato nella corrente principale della società asiatica. La causa non è solo la
differenza culturale, ci sono anche le differenze nel cuore umano. Cresciuto in Europa, il cristianesimo occidentale fa
una netta distinzione tra Dio e l'universo, paradiso e inferno. Sottolinea l'aspetto paterno
di Dio. I popoli dell'Asia hanno una mentalità
panteistica, credono nella trasmigrazione delle anime, sono attirati dal
pensiero della misericordia di Dio che abbraccia tutti".[3]
E' possibile
affermare che alcuni elementi culturali, che sono validi per una data cultura,
in particolare quelli della cultura occidentale, non sono validi per altri
contesti culturali?[4] Anche se è vero che la Chiesa "non è legata ad alcuna cultura
particolare" è difficile vedere come queste due asserzioni possano essere conciliate:
da un lato la Chiesa e il Vangelo devono "spogliarsi di tutti gli elementi
e tratti culturali non essenziali”, mentre dall'altro lato ci si deve assicurare
che il messaggio evangelico non sia isolato dalla cultura in cui deve essere
inserito. Giovanni Paolo II nella esortazione Catechesi Tradendae, afferma che
il messaggio evangelico non è puramente e semplicemente isolabile dalla
cultura, nella quale esso si è da principio inserito, e neppure è isolabile,
“senza un grave depauperamento”, dalle culture, in cui si è già espresso nel
corso dei secoli.
Non e’ forse
il caso di pensare che un dialogo tra culture, come è richiesto da un un
processo di inculturazione, comporta l'affermazione che almeno alcuni degli
elementi di ogni cultura genuinamente umana hanno un carattere universale? E se
questo e’ vero di ogni cultura non e’ forse vero anche
per il patrimonio culturale della Chiesa?
Se diamo per scontato il fatto che l'uomo potrebbe essere descritto come il punto d'incontro di diversi cromosomi, come l'effetto delle influenze ricevute nell’educazione, e nel contesto sociale, o di determinate strutture linguistiche, dobbiamo concludere che l'uomo è il prodotto di una storia, di una situazione geografica, economica e politica, di un contesto culturale? Oppure con Paolo VI possiamo dire: "il cristiano [...] afferma che l'uomo va al di là di tutti gli avatar dell’ esistenza, e che una certa idea di uomo trascende tutte le analisi scientifiche"[5].
In questo modo Paolo VI afferma l'esistenza di una natura umana che, per definizione, è comune a tutti gli esseri umani, e che non cambia nelle sue componenti essenziali con il passare del tempo o per l'influenza delle circostanze locali. E' possibile dedurre questa affermazione, per esempio, dai riferimenti che il papa fa alla legge naturale. Ogni volta che Paolo VI parla di legge naturale, ne parla come se la natura umana fosse qualcosa di comune a tutti gli esseri umani. La legge naturale, in effetti, proprio perche’ non è una legge scritta ma è una legge iscritta nel cuore umano, corrisponde alla natura umana. Per cui la legge naturale è comune a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro educazione, istruzione, ambiente culturale o di condizionamento storico.
Se diamo per scontato il fatto che l'uomo potrebbe essere descritto come il punto d'incontro di diversi cromosomi, come l'effetto delle influenze ricevute nell’educazione, e nel contesto sociale, o di determinate strutture linguistiche, dobbiamo concludere che l'uomo è il prodotto di una storia, di una situazione geografica, economica e politica, di un contesto culturale? Oppure con Paolo VI possiamo dire: "il cristiano [...] afferma che l'uomo va al di là di tutti gli avatar dell’ esistenza, e che una certa idea di uomo trascende tutte le analisi scientifiche"[5].
In questo modo Paolo VI afferma l'esistenza di una natura umana che, per definizione, è comune a tutti gli esseri umani, e che non cambia nelle sue componenti essenziali con il passare del tempo o per l'influenza delle circostanze locali. E' possibile dedurre questa affermazione, per esempio, dai riferimenti che il papa fa alla legge naturale. Ogni volta che Paolo VI parla di legge naturale, ne parla come se la natura umana fosse qualcosa di comune a tutti gli esseri umani. La legge naturale, in effetti, proprio perche’ non è una legge scritta ma è una legge iscritta nel cuore umano, corrisponde alla natura umana. Per cui la legge naturale è comune a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro educazione, istruzione, ambiente culturale o di condizionamento storico.
L’allora Cardinale
Ratzinger cosi’ si esprime sull'incontro tra fede e cultura: «Si potrebbe pensare che la cultura è sempre l'attività di una
singola entità culturale (Germania, Francia, America, e così via), mentre la
fede è semplicemente alla ricerca di una espressione culturale. Le diverse culture dovrebbero quindi,
per così dire, fornire alla fede un corpo culturale. La fede, in questo caso, sarebbe vissuta
solo attraverso le culture prese in prestito, in questo modo, però, tutte le
culture rimangono in qualche modo esterne alla fede cosi’ che potrebbe venirne spogliata
di nuovo. Soprattutto, nessuna di queste forme culturali prese in prestito non ha
nessuna rilevanza per le persone che vivono in una qualsiasi delle altre
culture. Universalità
sarebbe, quindi, in ultima analisi, una finzione. Questo
modo di pensare è fondamentalmente manicheo: riduce la
cultura a una mera incarnazione intercambiabile; la fede è smaterializzata in
un mero spirito, in ultima analisi priva di realtà. Una tale concezione è, naturalmente,
tipica della spiritualità post-illuminista. La cultura è relegata ad una mera forma
esteriore, e la religione ad una mera sensazione inesprimibile o in pensiero
puro ".[6]
Ratzinger elabora ulteriormente sull’incontro fra il cristianesimo e una
cultura non-evangelizzazata: "nell'incontro fra la fede con la sua cultura
e un'altra cultura finora estranea, non si può dare il caso che questa dualità
culturale venga tolta ne’ da un lato ne’ dall'altro. Il sacrificio del proprio patrimonio culturale in
favore di un cristianesimo senza particolare colorazione umana o la scomparsa
delle caratteristiche culturali della fede nella nuova cultura sono altrettanto
sbagliati. E' la tensione stessa che è produttiva, perche’ rinnova la fede e guarisce la
cultura. Sarebbe pertanto assurdo offrire un cristianesimo che è stato, per così
dire, preculturale o deculturalizzato, in questo modo il cristianesimo sarebbe
privato della sua forza storica e ridotto ad una vuota raccolta di idee ".[7]
La posizione che sostiene che i diversi ambiti culturali sono così
radicalmente diversi da essere inconciliabili tra di loro è un postulato non
dimostrato. Ai teologi che
fissano una netta distinzione, anzi la separazione, tra l'Occidente e gli altri
contesti culturali, le diverse culture devono sembrare cosi’ diverse, infatti, da
essere incomunicabili tra loro. Secondo questi
autori, ciò che è ritenuto essere vero in Occidente non può essere applicato ad
altri contesti culturali. Alla base di questa posizione c'è una
concezione filosofica che alla fin fine non tiene in debita considerazione
l'universalità e l'immutabilità della natura umana, né presta sufficiente
attenzione alla capacità umana di conoscere una verità oggettiva.
"L'inculturazione assume così la
potenziale universalità di ogni cultura. Presuppone che la stessa
natura umana è al lavoro in tutte le culture e che ci sia una verità comune all’
umanità che vive all'interno di quella natura umana e che aspira all’unita’. Per dirla in altro modo, l'intenzione di
inculturare ha senso solo se nessun danno viene fatto alla cultura dal modo in
cui, attraverso la direzione comune impartita dalla verità dell'umanità, viene
aperta e ulteriormente sviluppata da una nuova forza. Qualunque siano gli elementi in una data cultura che escludono tale
apertura e scambio culturale, essi rappresentano ciò che è insufficiente in
quella cultura, perche’ cio’ che causa esclusione di ciò che è diverso è
contrario alla natura umana. Il livello di sviluppo di una cultura si manifesta nella sua apertura, nella sua
capacità di dare e ricevere, nella sua capacita’ a svilupparsi ulteriormente, a
lasciarsi purificare e quindi ad adattarsi meglio alla verità e all'uomo ." «L’ incontro di culture è possibile perché l'uomo, al di la’ della varietà
della sua storia, delle sue strutture sociali e dei costumi, è un unico e
medesimo essere. Questo essere, l’uomo, è però toccato e colpito nel più profondo della sua
esistenza dalla verità stessa. L'apertura fondamentale di tutti gli uomini agli altri, e l'accordo nelle
cose essenziali che si ritrovano anche tra quelle culture che sono lontano le
une dalle altre, può essere spiegato solo dal modo nascosto in cui le nostre
anime sono state toccate dalla verita’".[8]
La fede
cristiana non coinvolge le persone umane solo in parte, ma nella totalità del
loro essere. E' proprio del comportamento
umano avere alla base delle proprie azioni idee, principi e norme peculiari,
perché sono proprio le idee che danno forma alla vita. In breve, ciò che dà alle persone un
senso di orientamento nella vita è la conoscenza. Quindi, il desiderio di conoscere la
verità su se stessi e sul mondo è una caratteristica specifica della vita
umana. La Rivelazione è il dono di Dio per noi che ci fornisce la conoscenza delle
verità fondamentali della vita, e la fede è la nostra risposta a tale
Rivelazione.
Tra le diverse manifestazioni del rapporto tra il contenuto della
Rivelazione e della cultura, la teologia ha un posto d'onore. La teologia, in effetti, è la comprensione ragionata
della Rivelazione[9]. Ci sono molti punti di incontro tra la rivelazione cristiana e la cultura
umana, come l'arte, l’educazione civica, l’economia e le istituzioni politiche,
così come tanti altri aspetti della vita umana di minore importanza come, per
esempio, il modo in cui ci si organizza nel lavoro e nel divertimento, modi
diversi di parlare, i tipi di umorismo, e alter cose simili. Tuttavia, nessuna di queste espressioni
della cultura umana ha la stessa rilevanza che ha la teologia cristiana per via
del pensiero che è coinvolto in questa disciplina. Correttamente intesa, dunque, la
teologia è l'espressione più alta dell'incontro tra la cultura e la
Rivelazione.
Principi filosofici e teologici
Principi filosofici e teologici
Prendiamo in
considerazione ciò che Paolo VI ha dichiarato sui principi filosofici da
utilizzare in teologia. Secondo il
Papa, ciò che rende certi principi filosofici e culturali accettabili è la loro
compatibilità con la fede, la loro veridicità, e quindi la loro universalità:
“Mentre, infatti, Aristotele e altri
filosofi erano e sono accettabili — salvo le necessarie
correzioni particolari — per
l’universalità dei loro principii, il loro rispetto della realtà oggettiva e il
loro riconoscimento di un Dio distinto dal mondo, non altrettanto si può dire
di ogni filosofia o concezione scientifica, i cui principii fondamentali siano
inconciliabili con la fede religiosa, vuoi per il monismo su cui si basano,
vuoi per la loro chiusura alla trascendenza, o il loro soggettivismo o
agnosticismo. Purtroppo non pochi sistemi moderni si trovano in questa
posizione di irriducibilità radicale alla fede cristiana e alla teologia” [10].
James Schall dice che queste idee su Dio e
l'universo non sono primariamente "occidentali". Queste idee, nella loro formulazione, sono andate formandosi sotto
l'impulso della Rivelazione stessa, nello sforzo di capire ciò che e’ e ciò che
non è stato trasmesso agli esseri umani. Inoltre, alcune di queste idee non sono
"occidentali" in quanto tali. I Greci e gli stessi Romani, con il loro
background filosofico, hanno trovato un certo tipo di idee già prevalenti in
Africa o in Asia ed hanno dovuto lottare con esse per venirne a capo. Anche se il chiarimento di queste idee è
stato formulato nella Chiesa, la risoluzione dei problemi è venuta non solo con
la filosofia occidentale, ma attraverso un incontro-scontro tra la filosofia
orientale e occidentale sotto l'impulso della Rivelazione.
Schall illustra la sua tesi con un esempio. Quando la tecnologia "occidentale” viene uasata da, per esempio, degli
asiatici, non è perché è occidentale, ma perché funziona, cioè, perché è
qualcosa di universale e puo’ essere messa in relazione a tutte le culture e perche’
chiunque la può imparare. In realtà, la possibilità stessa della scienza ha le sue radici storiche in
alcuni principi teologici, in particolare quelli sulla stabilità delle cause
seconde e l'idea di creazione dal nulla; questi principi vengono dalla teologia
occidentale, ma sono di portata universale.
Ciò che è vero della scienza è vero anche per le formule dogmatiche della Chiesa. Infatti, le formule usate dalla Chiesa per esprimere il contenuto del deposito di fede "non sono semplicemente espressioni 'occidentali', ma espressioni della mente umana che ha lottato con le questioni ultime in vista di fornire con la maggior chiarezza possibile una conoscenza delle cose più importanti. L'impulso a realizzare formule corrette, quindi, non e’ del tutto filosofico in origine, anche se i suoi risultati sono stati strumentali per la correzione e lo sviluppo della filosofia. Vale a dire, c'è qualcosa di universale, non solo culturale, in queste formule.”
Se il cristianesimo ha un carattere missionario pronunciato, Schall continua, non è perché è qualcosa di "specifico" per certi periodi storici o aree geografiche, ma perché, essendo nato in un determinato luogo, esso è destinato a essere un catalizzatore per tutte le culture, orientali e occidentali, del Nord e del Sud, in modo che certe idee precise su Dio e la sua venuta nel mondo possa essere stabilita in ogni cultura. Lo scopo del dialogo inter-culturale, dunque, non è semplicemente quello di affermare l'unicità di ogni cultura, ma di collocare la comprensione di ogni cultura ha di sé e del mondo davanti alla Rivelazione. Può ben risultare impossibile che tutte le idee e pratiche culturali di ogni società vengano correlate in modo coerente con la Rivelazione in modo tale che la compresione del mondo rimanga come e’ sempre stata. Quando Paolo VI nella Evangelii nuntiandi descrive come l'evangelizzazione delle culture come uno sconvolgimento, ha messo in chiaro che, l’accoglimento della Rivelazione e l'evangelizzazione, implicano cambiamenti culturali. D'altra parte, il Papa ha fornito un parametro che è legato alla accettazione della fede, come pure delle formule, anche quando sono difficili. La fede, ha detto, " deve essere accettata nella sua genuina e originaria e autorizzata formulazione, anche se difficile, anche se difforme dalla psicologia di chi la ascolta, anche se misteriosa (cfr. S. TH., Summa contra Gentes, 4, 76). "[11]
Ciò che è vero della scienza è vero anche per le formule dogmatiche della Chiesa. Infatti, le formule usate dalla Chiesa per esprimere il contenuto del deposito di fede "non sono semplicemente espressioni 'occidentali', ma espressioni della mente umana che ha lottato con le questioni ultime in vista di fornire con la maggior chiarezza possibile una conoscenza delle cose più importanti. L'impulso a realizzare formule corrette, quindi, non e’ del tutto filosofico in origine, anche se i suoi risultati sono stati strumentali per la correzione e lo sviluppo della filosofia. Vale a dire, c'è qualcosa di universale, non solo culturale, in queste formule.”
Se il cristianesimo ha un carattere missionario pronunciato, Schall continua, non è perché è qualcosa di "specifico" per certi periodi storici o aree geografiche, ma perché, essendo nato in un determinato luogo, esso è destinato a essere un catalizzatore per tutte le culture, orientali e occidentali, del Nord e del Sud, in modo che certe idee precise su Dio e la sua venuta nel mondo possa essere stabilita in ogni cultura. Lo scopo del dialogo inter-culturale, dunque, non è semplicemente quello di affermare l'unicità di ogni cultura, ma di collocare la comprensione di ogni cultura ha di sé e del mondo davanti alla Rivelazione. Può ben risultare impossibile che tutte le idee e pratiche culturali di ogni società vengano correlate in modo coerente con la Rivelazione in modo tale che la compresione del mondo rimanga come e’ sempre stata. Quando Paolo VI nella Evangelii nuntiandi descrive come l'evangelizzazione delle culture come uno sconvolgimento, ha messo in chiaro che, l’accoglimento della Rivelazione e l'evangelizzazione, implicano cambiamenti culturali. D'altra parte, il Papa ha fornito un parametro che è legato alla accettazione della fede, come pure delle formule, anche quando sono difficili. La fede, ha detto, " deve essere accettata nella sua genuina e originaria e autorizzata formulazione, anche se difficile, anche se difforme dalla psicologia di chi la ascolta, anche se misteriosa (cfr. S. TH., Summa contra Gentes, 4, 76). "[11]
Il sottostante problema del relativismo
L'"aggiornamento" per cui il Concilio Vaticano II e’ stato convocato, ha detto il Pontefice, deve essere prodotto dallo Spirito Santo e non da un relativistica deferenza alla storia che passa. Più e più volte Paolo VI ha parlato della pressante "tentazione" del relativismo storico:
“[I]n alcuni l’uso del pensiero si
modella sulla storia, ch’è ancora il tempo, che muta e che passa, e si contenta
di affermare ciò che oggi pare vero, ma che domani forse cambierà: è il relativismo
storico, che assorbe molti spiriti, pur tanto nobili e intelligenti, e che si
affaccia talora anche a certi cenacoli di studiosi di questioni religiose e li
distacca, insensibilmente ma gravemente qualche volta, dalla fede genuina di
Cristo e della Chiesa”[12]
Anche se è
importante fare le riforme necessarie prendendo in considerazione i cambiamenti
culturali, o i cambiamenti che avvengono a livello personale o nelle strutture psicologiche
collettive dei popoli, questo non dovrebbe portare ad un relativismo storico. Questo atteggiamento relativistico nasce da una "superficiale e quasi
servile accettazione delle filosofie di moda", che disturbano il nostro
modo umano di conoscere la verità, e che ci fanno dubitare anche la validità
dei principi fondamentali della ragione come ha detto il Papa in Colombia:
“[E]stamos tentados de
historicismo, de relativismo, de subjetivismo, de neo-positivismo, que en el
campo de la fe crean un espíritu de crítica subversiva y una falsa persuasión
de que para atraer y evangelizar a los hombres de nuestro tiempo, tenemos que
renunciar al patrimonio doctrinal, acumulado durante siglos por el magisterio de
la Iglesia, y de que podemos modelar, no en virtud de una mejor claridad de
expresión sino de un cambio del contenido dogmático, un cristianismo nuevo, a
medida del hombre y no a medida de la auténtica palabra de Dios”[13]
Nel testo sopra citato si può percepire la
logica del pensiero di Paolo VI. La radice del relativismo storico si puo’ trovare sia negli strumenti
filosofici, ma anche nel sistema teologico ermeneutico utilizzato per
affrontare la realtà. Da un lato, non si può pensare bene di Dio se non si pensa bene, cio’ che
succede se uno non usa una filosofia adeguata e realistica. Dall’altra parte, se la sociologia viene
usata come modello epistemico a cui la Rivelazione deve adeguarsi, il risultato
e’ un cristianesimo del tutto nuovo, fatto su misura umana.
Il "modello" di Tommaso d'Aquino
Il rapporto tra fede e cultura trova la sua controparte nel rapporto tra fede e ragione, e in ultima analisi in quello tra grazia e natura. Paolo VI tratta questi temi nella sua lettera Lumen Ecclesiae, scritta al Maestro Generale dell'Ordine Domenicano, in occasione della settimo centenario della morte di San Tommaso Aquinas.Questa lettera ci mostra il pensiero del Papa in materia di valori culturali con grande chiarezza. Brevemente estrapoliamo alcuni passi di quel documento.
Il "modello" di Tommaso d'Aquino
Il rapporto tra fede e cultura trova la sua controparte nel rapporto tra fede e ragione, e in ultima analisi in quello tra grazia e natura. Paolo VI tratta questi temi nella sua lettera Lumen Ecclesiae, scritta al Maestro Generale dell'Ordine Domenicano, in occasione della settimo centenario della morte di San Tommaso Aquinas.Questa lettera ci mostra il pensiero del Papa in materia di valori culturali con grande chiarezza. Brevemente estrapoliamo alcuni passi di quel documento.
“Senza dubbio, Tommaso possedette al
massimo grado il coraggio della verità, la libertà di spirito nell’affrontare i
nuovi problemi, l’onestà intellettuale di chi non ammette la contaminazione del
Cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di
questa. Perciò, egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere
sul nuovo cammino della filosofia e della cultura universale”[14]
In effetti,
Tommaso d'Aquino è stato in grado di armonizzare la secolarità del mondo con le
esigenze radicali del Vangelo, "
sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori,
senza peraltro venir meno alle supreme e inflessibili esigenze dell’ordine
soprannaturale”.
Il Papa quindi propone San Tommaso e il suo metodo. “Il metodo seguito da San Tommaso in
questo lavoro di confronto e di assimilazione è esemplare anche per gli
studiosi del nostro tempo. Si sa infatti che egli apriva con tutti i pensatori del
passato e del suo tempo — cristiani e non cristiani — una specie di dialogo
dell’intelligenza”.
Di fatto, il metodo dell'adattamento alla
cultura locale inaugurato da Valignano e portato a maturazione da Matteo Ricci e’
pienamente comprensibile solo se si tiene conto della loro formazione umanista
e aristotelico-tomista al Collegio romano.[15]
Cosi’, per fare un esempio a noi piu’ vicino, con
Clemente Alessandrino, Giustino e il prologo giovanneo possiamo concedere a R.
Panikkar, che i “semina verbi”
sono presenti in tutte le culture. Questo pero’ non vuol dire che operino
ovunque alla stesso modo. Se in una prospettiva “cosmoteandrica” possiamo
accettare una lettura inclusiva della storia e del cosmo, “l’esperienza
diacronica e diatopica delle culture e dei popoli”, non per questo dobbiamo
cadere in quella sorta di “Unschuld des Werdens” che caratterizza spesso le
religioni orientali. Un teologo cristiano dovra’ sempre leggere la storia anche
come storia del peccato umano.[16]
La via per Nicea
Nella
parte introduttiva della sua teologia trinitaria[17], pubblicata anche in
inglese col titolo The Way to Nicea, Lonergan spiega il lungo processo
che ha portato a quel fenomeno che dai tempi di Newman e’ conosciuto come “sviluppo
dogmatico” (Dogmatica evolutio), cioe’ la fissazione in formule della
Rivelazione biblica. Mentre il Vangelo si rivolge a tutta la persona, la
formulazione dogmatica ha come unico scopo di illuminare l’intelletto. Per
capire questo pero’ si richiede una “coscienza differenziata”. Questo concetto
e’ spiegato in dettaglio anche in Metodo in teologia, dove si spiega che
la coscienza puo’ operare a diversi livelli come quello del senso comune e
quello del linguaggio tecnico (per esempio le qualita’ primarie e secondarie di
Galileo o i due tavoli di Eddington). La comprensione dello sviluppo dogmatico
richiede che la coscienza sia aperta a questo sviluppo, il che “non avviene
spontaneamente ma solo attraverso un lungo processo di apprendimento sostenuto
da un serio impegno”[18].
Da questo
punto di vista come appare la situazione culturale del Giappone? Hajime
Nakamura in un testo ormai classico dedicato ai modi di pensiero orientali,
nella parte riguardante il Giappone ha una sezione dal titolo “Tendenze
irrazionaliste” (40 pagine) che elenca cosi' nell'indice: "(1)
Indifferenza verso le regole della logica. (2) Mancanza di interesse per la
rigorosita' formale. (3) Lento sviluppo della logica esatta in Giappone. (3)
Prospettive per lo sviluppo del pensiero logico in Giappone. (4) Tendenza ad
evitare idee complesse. (5) Predilezione per semplici espressioni simboliche.
(6)Mancanza di conoscenza di un ordine oggettivo. " [19]
Piu’
vicino a noi nel tempo, possiamo citare un articolo apparso sull’Osservatore
Romano il 14 agosto 2010 dell’allora ambasciatore presso la S. Sede, Kagefumi
Ueno:
“Secondo
la religiosità nipponica, l'essere umano non deve limitarsi solo a rinunciare
al karma, ai desideri e all'ego. Dovrebbe raggiungere il distacco dal pensiero
logico. In fondo, per l'homo japonicus, la religiosità è quel regno da cui sono
banditi anche il lògos, il pensiero logico, l'approccio deduttivo. In particolare
per i seguaci del Buddhismo Zen tradizionale, persino valori opposti come Bene
e Male vanno trascesi. Allo stadio spirituale più profondo della religiosità
buddhista non ci sono più santità, verità, giustizia, male, bellezza. Persino
la speranza, non più stampella a cui aggrapparsi, è da evitare. La libertà
ultima si raggiunge grazie alla passività assoluta. I buddhisti credono che il
distacco dai desideri sia necessario per guardare l'eternità. Nell'universo,
non vi è nulla di eterno o di assoluto. Ogni essere è transitorio, in altri
termini relativo. La Realtà ultima risiede nel "vuoto/nulla", o
nell'ambiguità.”
Nello
spirito della “filosofia” orientale che insegna il distacco dal lògos, l’ambasciatore
Kagefumi Ueno segnala alcune espressioni proprie del Buddismo Zen: "Molti è uno. Uno è molti";
"Essere è non essere"; "Essere è Mu (nulla). Mu è essere";
"La Realtà è Mu. Mu è la realtà"; "Ogni cosa viene dal Mu e viene
assorbita nel Mu. Una volta distaccati dalla "visione della ragione",
si trascendono valori opposti come il bene e il male. La libertà ultima si
ottiene grazie alla passività assoluta. Alla fine, lo spirito sarà come un
albero o una pietra.
In
Giappone, modernità e forme di approccio scientifico, tecnologico-razionale non
solo coesistono con una mentalità panteistica e animista, considerata
pre-moderna, ma ne escono rinvigorite, rafforzate. Molti prodotti nipponici di
alta tecnologia sono programmati, disegnati, prodotti e commercializzati da
persone che hanno più o meno la mentalità e la religiosità appena illustrata.
Anzi, il livello di tecnologia o di qualità del design viene accresciuto
dall'unione delle due diverse componenti: mentalità scientifica e mentalità
animista.
Ad
esempio, molte ditte nipponiche, quando installano nuovi macchinari nei loro
stabilimenti, invitano sacerdoti shintoisti a officiare cerimonie rituali, per
auspicare un corretto funzionamento dei macchinari. Allo stesso modo, si
compiono riti di ringraziamento verso lo spirito dei macchinari, prima di
demolirli. Anche in campo edilizio, i costruttori si affidano a rituali
shintoisti per impetrare la sicurezza dei futuri lavori con una cerimonia
all'aria aperta.
In
definitiva, nel Giappone contemporaneo, la mentalità pre-moderna
panteistico-animista e la moderna alta tecnologia sono strettamente connesse.
Con
Lonergan possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una “coscienza
indifferenziata” per quanto riguarda il valore religioso dei dogmi e che quindi
ci troviamo ancora ai primi passi “sulla via per Nicea”. Seguendo Lonergan
mentre descrive in dettaglio tutte le correnti culturali e religiose con cui i
padri ante-niceni si sono dovuti confrontare: i giudeo-cristiani, gli gnostici
( di varie specie), adozionisti, patripassiani, sabelliani, subordinazionisti,
ariani e semi-ariani, ecc. io penso che ne possiamo riconoscere molti tratti o
individuare dei paralleli nell’ambiente culturale odierno del Giappone e piu’
ampiamente dell’Oriente.
Modernita’
multiple
Secondo il sociologo Shmuel
Eisenstadt[20]
la storia giapponese alterna una enorme ricettivita verso le culture straniere
con lunghi periodi di chiusura. Vecchio o nuovo, nel mondo nipponico ogni
contenuto viene sottoposto a un processo di decostruzione che gli consente di
affiancarsi senza conflitti al preesistente.
Se in Occidente l'avvento del nuovo
implica il rifiuto del vecchio, secondo il paradigma della Querelle des
anciens et des modernes, niente di simile avviene in Giappone. Il processo
attraverso il quale si e’ sviluppata dal 1868 ad oggi la sua modernizzazione
non costituisce un fatto nuovo nella sua cultura, perche ripete una dinamica
millenaria.
L'atteggiamento che la cultura
giapponese ha nei confronti dell'Occidente e’ lo stesso che ha caratterizzato
per piu di mille anni i suoi rapporti con la Cina. Ci troviamo dunque di fronte
a una esperienza storica per la quale le nozioni di ibridazione e
di crossing sono inadeguate. Infatti non si tratta della
mescolanza e dell'incrocio tra contenuti differenti ed eterogenei: qualsiasi
contenuto viene sottoposto a un processo di decostruzione che lo rende adatto a
essere posto accanto a qualsiasi altro senza entrarvi in conflitto, per quanto
opposto e antitetico sia stato nella sua versione originaria. E’ percio’ una
pratica di giustapposizione quella che appare piu consona a spiegare
l'attitudine dei giapponesi nei confronti di cio che e’ estraneo: una
giustapposizione, va inoltre rilevato, fortemente permeata di una tonalita
estetica, che risulta di gran lunga predominante sull'etica e sulla metafisica.
Molteplici modelli di tradizione e
di modernita’ convivono in Giappone senza interferire l'uno con l'altro. Cio
che invece si rivela assolutamente refrattario a convivere con l'esistente
viene prima o poi espulso, come e’ avvenuto per il cristianesimo agli inizi del
secolo XVII, per il radicalismo rivoluzionario della contestazione studentesca
nel 1972 e per l'escatologia fondamentalistica della setta Aum nel 1995. In
altre parole, tutto cio’ che e’ nuovo suscita un grande interesse e trova
spazio in Giappone, eccetto la mentalita assiale ritenuta tipica
dell'Occidente.
A differenza della civilta occidentale, nella
quale le invasioni barbariche hanno prodotto una profonda frattura storica
(secondo Burckhardt l’unica vera grande crisi storica dell’Occidente), la civilta’
giapponese non ha sofferto alcuna invasione e si e’ sviluppata in modo autonomo
senza interruzione; essa costituisce percio un caso raro nella storia
dell’umanita’. Il simbolo di questa incredibile continuita’ e’ l’esistenza
attraverso tutta la storia del Giappone di una sola dinastia imperiale:
l’attuale era Heisei e iniziata nel 1989 con l’ascesa al trono del 126°
imperatore. Mutatis mutandis, e’ come se in Occidente esistesse ancora l’impero
romano! E tuttavia il Giappone ha conosciuto in quindici secoli continue
trasformazioni: proprio questa anomalia e’ un aspetto del cosiddetto ≪enigma giapponese≫, cosi come lo ha definito Karel von
Wolferen[21].
L’eccezionalismo giapponese
Sebbene la civilta’ giapponese sia
spesso considerata come una cultura in cui non c'e quasi nulla di originario e
di puro, appare azzardato interpretarne i caratteri fondamentali alla luce di
una categoria oggi frequentemente utilizzata, quella di ‘crossing’. E non solo
perche’ la croce e’ il simbolo piu’ facilmente individuabile dell'Occidente, il
punto d'incontro delle sue quattro tradizioni fondamentali: la greca, la
romana, l'ebraica e la germanica. Piu’ essenzialmente la croce e’ il simbolo
assiale per eccellenza, il luogo in cui si incrociano trascendenza e immanenza.
Ma la cultura giapponese e’ - come acutamente osserva Eisenstadt - priva di
trascendenza: da un punto di vista filosofico la visione del mondo giapponese
non riconosce entita’ o valori che trascendano questo mondo e sotto questo
aspetto contrasta parzialmente con la mentalita’ cinese e radicalmente con
quella indiana e occidentale.
L’eccezione giapponese risalta
grandemente se confrontiamo la situazione del Giappone con la filosofia della
civilta’ elaborata da Karl Jaspers. Brevemente, secondo Jaspers, sarebbe
avvenuto nella storia dell'umanita’ un cambiamento radicale (assiale) che si
manifesta intorno al 500 a.C. con il crollo delle antiche civilta’ millenarie
essenzialmente statiche[22], con la crisi della
tradizione e con l'emergere di una nuova mentalita’ caratterizzata
dall'opposizione tra immanenza e trascendenza. Tale cambiamento si manifesta in
Grecia con la critica del mito e la nascita della tragedia e della filosofia,
in Palestina col profetismo biblico, in India con la predicazione di Budda e in
Cina con l'insegnamento di Confucio e di Lao-tse.
In opposizione a Hegel, che considerava la
nascita di Cristo come l'evento capitale della storia umana e restava percio’
prigioniero di una prospettiva eurocentrica, Jaspers si propone di introdurre
nella filosofia della storia una prospettiva universale che attribuisca alle
civilta’ asiatiche una importanza pari a quella greca. L'aspetto essenziale di
questa svolta e’ l'esperienza del conflitto: secondo Jaspers, il contenuto
della liberta’ si manifesta nella percezione di polarita’ e di antitesi. Di
fronte a ogni posizione si sviluppa una posizione contraria: la liberta’ si
manifesta nella possibilita’ di scegliere tra due opzioni che sono sentite come
incompatibili. La liberta’ e’ perduta dove viene meno la coscienza della inconciliabilità
degli opposti. L'esperienza dell'assialita’ e’ dunque connessa con la coscienza
di un aut-aut, di una alternativa a cui e’ connessa la necessita’ di scegliere
in modo irrevocabile. Non si puo’ piu’ essere tutto, la liberta’ implica
l'unilateralita’ della decisione: e’ libero solo chi puo decidere. La svolta
assiale, da cui secondo Jaspers nasce la civilta’, attribuisce alla
irreversibilita’ delle scelte e alla coerenza un ruolo essenziale; e’ ovvio che
in questa prospettiva tutto cio’ che sottraendosi alla scelta resta mescolato e
ibrido, non appartiene davvero alla storia, vale a dire non ha un significato
ed un valore universale. La svolta epocale avvenuta quasi contemporaneamente
nel V secolo a.C. ha successivamente perduto la sua radicalita’: il momento
assiale e’ degenerato spesso in anarchia, oppure si e’ irrigidito in
costruzioni dogmatiche (come e avvenuto nell'impero romano e in quello cinese);
tuttavia fino ad oggi - secondo Jaspers - non esiste un'altra strada e coloro
che sono stati estranei alla svolta assiale (come i germani e gli slavi in
Occidente, i giapponesi, i malesi e i siamesi in Oriente) hanno dovuto prima o
poi adeguarsi ad essa.
Questa vigorosa concezione della
storia costituisce il punto di partenza di Eisenstadt, secondo cui la civilta
giapponese e’ stata ed e’ tuttora una societa’ non assiale, nonostante
l'influenza esercitata dai modelli occidentali durante il periodo Meiji dal
1868 e l'occupazione americana del 1945-52. L'assunzione di modelli stranieri in
Giappone non e’ una novita’, ma risale alle origini stesse della storia di
questo paese: infatti a partire dal 552 d.C. la corte di Yamato ha importato
dalla Cina non solo il buddhismo, ma perfino la scrittura, le tecniche, le arti
e tutto uno stile di vita.
Fin da allora il tratto distintivo
dell'esperienza storica giapponese consisterebbe dunque in una straordinaria
ricettivita’ nei confronti delle culture straniere, alternata a lunghi periodi
di chiusura nei confronti dell'esterno. Pur facendo proprie concezioni del
mondo assiali come il buddhismo, il confucianesimo e la filosofia occidentale
(liberale, socialista o nazionalista), il Giappone avrebbe operato una de-assializzazione
di queste religioni e ideologie, privandole completamente delle loro pretese
trascendenti e incanalandole in una direzione immanentistica e particolaristica
in accordo con l'unico elemento autenticamente giapponese, lo Shinto.
In ciascun ambito pubblico e privato
(politico, economico, familiare o connesso alla creativita culturale, di natura
individuale o collettiva) i giapponesi avrebbero proceduto a una decostruzione
della civilta assiale, attraverso strutture sociali improntate all’interdipendenza
e fondate non sulla coercizione autoritaria, ma su obbligazioni reciproche
(giri) e su sentimenti piu’ di natura estetica che morale. Questa mentalita’ spiegherebbe
il fatto che in Giappone non ci siano state guerre di religione ne’ rivoluzioni
sociali: tutte le influenze provenienti dall'esterno sarebbero state
incorporate dentro un contesto che sottolinea l'importanza delle situazioni
empiriche a scapito dei principi universalmente validi. Cio’ spiegherebbe anche
la scarsa importanza degli intellettuali portatori di ideologie, che in
Giappone non sono mai riusciti a mobilitare vasti settori di pubblico. In altre
parole, la dimensione assiale sarebbe stata sistematicamente sottoposta a una
riformulazione immanente e particolaristica, che le toglie ogni pretesa di
assolutezza e di esclusivita’. Un genere letterario molto praticato sia in
Giappone che all’estero, noto come “Nihonjinron”, ha sottolineato il carattere
unico della civilta giapponese: questo orientamento, che si e manifestato nella
filosofia (Watsuji Tetsuro), nella psicoanalisi (Doi Takeo), nell'antropologia
(Ruth Benedict), negli studi culturali (Augustin Berque), nella sociologia
(Robert Bellah), nella linguistica (Suzuki Takao), focalizza la propria
attenzione sull'eccezionalita’ del caso giapponese rispetto al resto del mondo.
Il Nihonjinron e’ tuttavia stato oggetto di una critica serrata che ne ha messo
in evidenza l'arbitrarieta.[23] Non di rado l'esaltazione
enfatica della giapponesita’ si fonda sulla trasposizione in Giappone di un
mito occidentale: quello della comunita’ etnica (Gemeinschaft) opposta alla
societa borghese (Gesellschaft), secondo l'antitesi formulata nel modo piu
chiaro gia alla fine dell'Ottocento.
In Giappone la rivolta contro l'America
ha ampiamente attinto a questa ideologia, conducendo al fanatismo
nazionalistico del kokutai. Non a torto percio’ e’ stato osservato che
molto spesso la lotta per mantenere una propria identita’ ha radici nel pensiero romantico europeo e
nella sua ostilita’ nei confronti della civilta’ urbana, del razionalismo, del
benessere e dello straniero.
L'idea che Eisenstadt ha del
Giappone esula tuttavia dagli schemi del Nihonjinron, e non costituisce una
forma di occidentalismo (cioe’ un tradizionalismo di origine occidentale
giocato contro l'occidente). Secondo Eisenstadt la globalizzazione implica che
tutte le societa del mondo sono o saranno presto moderne: i termini del
conflitto percio’ non sono piu individuabili nella polarita’ tra modernita’ e
tradizione, bensi tra differenti tipi di modernita. Questi nuovi conflitti non
sono solo economici o politici, ma coinvolgono diverse concezioni della
modernita’. Anche considerando il problema solo dal punto di vista economico,
le modernita’ si distinguono tra loro a seconda della diversa regolazione di
quattro elementi fondamentali: mercato, regulation, intervento statale,
welfare. Dal punto di vista politico, i fondamentalismi sono considerati da
Eisenstadt come sviluppi paradossali del giacobinismo; essi percio’ non
costituiscono affatto un ritorno all'ancien regime, ma sono la
trasposizione in chiave moderna di alcune utopie eterodosse nate e sviluppatesi
in prossimita delle grandi religioni.
Restano aperte alcune domande: la
strategia culturale della giustapposizione e’ una caratteristica unica e
specifica del Giappone, oppure si ritrova anche in altre civilta’? La civilta’
occidentale e’ cosí esclusivamente assiale, come pretende Jaspers, oppure sono
esistite ed esistono all'interno dell'Occidente tendenze non assiali che si
sono manifestate precocemente sia nella Grecia antica che nella Roma antica?
Per esempio, il politeismo greco e romano hanno praticato una strategia di
giustapposizione. Nel mondo moderno alcune componenti del cattolicesimo e
dell'illuminismo hanno ereditato dal mondo classico la stessa attitudine.
Infine, dobbiamo considerare la giustapposizione come la strategia piu’ adatta
a garantire insieme l'identita delle culture e la tolleranza piu’ di quanto non
faccia il melting pot?
Civilta’
non-assiale o pre-assiale? (il punto di vista di R.N. Bellah)
"Fin da almeno il settimo
secolo, il Giappone e' stato profondamente influenzato da idee buddiste e
confuciane, cosi' come dalla civilta' indiana e in modo particolare da quella
cinese. E fin dal sedicesimo secolo il Giappone e' stato influenzato dal cristianesimo
e dalla civilta' occidentale. Ma di fronte a queste religioni e civilta' i
giapponesi non hanno rigettato le loro premesse da civilta' pre-assiale; invece
le hanno continuamente rivisitate senza abbandonarle. Le influenze culturali
dall'esterno sono state apprezzate e capite con intelligenza e sensibilita', ma
poi usate per rafforzare le premesse pre-assiali della societa' giapponese
invece di sostituirle. “
“Siccome i giapponesi sono a conoscenza dei
principi assiali, li hanno capiti completamente, eppure li hanno rigettati,
preferendo adattarli alla riformulazione dello loro patrimonio arcaico e
siccome lo hanno fatto con dinamismo e apertura al cambiamento cosi' che non
sono rimasti 'tradizionalisti' nel senso peggiorativo del termine, Eisenstadt
sostiene che dovrebbero essere chiamati non pre-assiali, ma non-assiali.
Tuttavia c'e' un senso in cui la civilta' giapponese puo' essere definita
pre-assiale. Le premesse sottostanti alla societa' giapponese, benche' possano
essere riformulate con grande sofisticazione, non possono essere sostituite.
Esse non sono, per cosi' dire, sul tavolo delle trattive quando si tratta di
una discussione su cambiamenti fondamentali. Quando nel mio saggio "Valori
e cambiamento sociale nel Giappone moderno" parlavo di 'basso di fondo'[24] mi riferivo a questo
elemento pre-assiale nella cultura giapponese; e quando parlavo di 'tradizione
della trascendenza sommersa' mi riferivo alla presenza di tradizioni assiali in
Giappone - buddiste, confuciane, cristiane, marxiste - che non sono mai
riuscite a sostituire le premesse pre-assiali della cultura giapponese. "[25]
Che i giapponesi tendano a rigettare principi
di tipo trascendente credo che possa essere un punto valido di discussione, a
condizione pero’ che si tenga conto anche della possibilita’ che questa
tendenza sia una “self-fullfilling prophecy”, la possibilita’ cioe’ che questa
tendenza ci sia solo perche’ viene costantemente sbandierata.
Per quanto riguarda il fatto che i
giapponesi “sono a conoscenza dei principi assiali” e “li hanno capiti
completamente”, mi permetto di mantenere qualche dubbio. Prima di tutto questo
potra’ essere vero di una certa cerchia di intellettuali, non credo si possa
facilmente affermare delle masse. Per rendersene conto basterebbe fare un
sondaggio su come vengono insegnate, anche solo nella scuola dell’obbligo, le
religioni e le filosofie ritenute non giapponesi. Si potrebbe poi anche mettere
in questione il grado di liberta’ che viene accordato ai singoli nelle scelte
di vita. Se e’ vero, come osserva Eisenstadt, che l’ordine sociale giapponese
viene costruito “ex toto” e non “ex parte”, questo vuol dire che le identita’ collettive
non sono un prodotto della natura ma sono costrutti umani. Per cui si puo’
mettere in questione il tipo di intenzionalita’ politica che lavora dietro le
simbologie e i rituali che vengono messi in opera per definire i legami tra
membri di una collettivita’ e le condizioni dell’ordine sociale. “Il pensiero
dell’immanenza (...) appartiene a un mondo nel quale la questione dei fini non
puo’ essere discussa, neanche posta, e nel quale l’intelligenza e’, di
conseguenza, condannata ad applicarsi ai mezzi, ai metodi, alle manovre e
tecniche per adattarsi all’esistente. (...)E’ congenitalmente legato all’ordine
imperiale che ha creato un mondo chiuso risolvendo autoritariamente la
questione dei fini”.[26]
In fine
Il rifiuto di principi trascendenti o supernaturali
puo’ avere molte cause e prendere forme molto diverse, ma in ultima analisi,
“poggia su un orgoglioso accontentarsi
dell’uomo di essere solo un uomo, e la sua tragedia è che, data l'ipotesi attualmente
presente di uno soluzione soprannaturale, essere solo un uomo e’ proprio cio’
che l’uomo non può essere. Se veramente volesse essere
un uomo, si sottometterebbe al desiderio illimitato [di conoscenza] e scoprirebbe
il problema del male e affermerebbe l'esistenza di una soluzione e accetterebbe
la soluzione che esiste. Ma se voule essere solo un uomo, deve essere qualcosa di
meno. Egli deve abbandonare
l'apertura del puro desiderio, si deve rifugiare nelle contro-posizioni, deve
sviluppare tutte le contro-filosofie che puo’ per salvare il suo diminuito umanesimo
da ulteriori perdite, e non mancheranno uomini sufficientemente lucidi per
comprendere che la questione è tra Dio e
l'uomo, abbastanza logici da concedere che l'intelligenza e la ragione sono
orientati verso Dio, spietati abbastanza per chiamare in loro aiuto le forze
oscure della passione e della violenza.”[27]
Annientamento del "sé",
divinizzazione della natura, rifiuto di un Dio personale sono i capisaldi della
cultura giapponese che spiegano l'estrema difficoltà che incontra il
cristianesimo a penetrare in Giappone. È una difficoltà che riguarda anche
altre grandi civiltà e religioni asiatiche. Se si volesse essere ancora piu'
succinti si puo' indicare la principale ragione di questa impermeabilità nel
fatto che in Giappone, in Cina, e in India la fede in un Dio personale che si
auto-comunica nella storia viene esclusa come ipotesi di partenza.
È per questo motivo che la sfida
lanciata ai cristiani dalle civiltà asiatiche è più insidiosa di quella di
un'altra religione monoteista come l'islam. Mentre l'islam, infatti, stimola se
non altro i cristiani ad approfondire e rinvigorire la propria identità
religiosa, le civiltà asiatiche spingeranno piuttosto nel senso di una
ulteriore secolarizzazione, intesa come denominatore comune di una nuova civiltà
planetaria. Si puo’ aggiungere che i giapponesi che sentono di avere come loro
precisa vocazione o addirittura come mandato “divino” quello di diffondere
questa nuova civiltà planetaria e che per questo sono disposti a spendere tutte
le loro risorse non sono pochi.
[1] "Il gentiluomo mira all'universale e non e' parziale. L'uomo
gretto e' parziale e non mira all'universale" (Dialoghi di Confucio, 2,
XIV)
[2] Mia traduzione dall’originale inglese in: L’Osservatore Romano, Weekly English Edition, May 6, 1998, p. 3. Endo Shusaku ha coniato l’immagine
del cristianesimo come vestito che male si adatta alla corporatura dei
giapponesi.
[3] L’Osservatore Romano, Weekly English Edition, April 29, 1998, p.
12. Cosa pensare di queste “differenze” tra un “cuore” in Asia e un’altro in
Europa? Forse che la geografia determina il cuore umano?
[4] Questa posizione viene espressa, tra gli altri, in modo molto marcato dai teologi gesuiti Duraisamy Amalorpavadass, Aloysius Pieris,
Adolfo Nicolas.
[5] Messaggio al
“Congresso Tomistico Internazionale - L’essere reale dell’uomo,” , 12/09/1970,
PAOLO VI. Insegnamenti di
Paolo VI. CD Rom. Vatican City: L.E.V.-Unitelm, 2003. (di
seguito: IPVI), VIII (1970), pp. 861-869.
[9] “Una teologia media tra una matrice culturale e il significato e il
ruolo di una religione in quella matrice”. (B. Lonergan, Method in Theology,
Darton, Longman & Todd, London, 1971, xi.
[10] Lettera ‘Lumen
Ecclesiae’ nel VII
centenario della morte di San Tommaso d'Aquino (20 novembre 1974), IPVI, XII (1974), pp. 1222-1246, n. 18.
[11] Udienza Generale,
“La fede principio di vita eterna,” 28/05/1969, IPVI, VII (1969), pp. 960-963.
[13] “Inaugurazione
della II Assemblea Generale dei Vescovi dell’America Latina - Riconoscere
Cristo in noi e nei nostri fratelli,” 24/08/1968, IPVI, VI (1968), pp. 403-425.
[15] Ho sviluppato questo pensiero in A. Bonazzi, Matteo Ricci and Global
Civilization, in: Prajña Vihara Journal of Philosophy and Religion,
Assumption Univ. Thailand (ISSN 1513-6442), Vol. 6, 2005, 11-31.
[16] Cf. MacPherson Camilia Gangasingh, A Critical Reading of the Development
of Raimon Panikkar's Thought on the Trinity, University Press of America,
Boston, 1996.
[17] Collected Works of Bernard Lonergan, vol. 11, The Triune God:
Doctrines, University of Toronto Press, Toronto, 2009.
[18] “Quae cum ita sint, parum fundata videtur illa romantica opinatio
quae perfecte religiosam esse iudicat conscientiam indifferentiatam.(…) [E]t
ideo qui intellectum religionis expertem [escluso da] velint, magis
saecularismus quam veram religionem suadent.” Ibidem. p. 38. “Qui coscientiam
intellectualiter excultam timent, vel qui aliam veritatem laudant sed
propositionalem ad nominalismus vel ad mentalitatem mythicam reducunt” Ibidem,
p. 52.
[19] Nakamura Hajime,
Ways of Thinking of Eastern Peoples. India, China, Tibet, Japan, University of Hawaii Press, 1964, p. xx,
indice, mia traduzione.
[20] Eisenstadt S. N., Japanese Civilization. A Comparative View, The
University of Chicago Press, Chicago, 1996 (trad. it. La civiltà giapponese,
Seam, 1999).
[21] Van Wolferen, Karel. The Enigma of Japanese Power. Macmillan,
London, 1989 (trad. it. Nelle mani del Giappone. Sperling & Kupfer, Milano,
1990).
[22] Cf. Bergson, H., Les deux sources del morale et de la religion,
1932.
[23] Per una critica dal punto di vista missionario mi permetto di
rinviare a: Bonazzi A., Eizeviri e studi di un missionario in Giappone, Lumini,
Brescia 2004, pp. 51-59.
[24] Bellah si riferisce a “basso ostinato” (in italiano nell’originale),
la metafora musicale usata da Maruyama Masao. Cf. Maruyama Masao, ‘The
structure of Maturigoto: the basso ostinato of Japanese political life’ in
Themes and Theories in Modern Japanese History, eds. S. Henny and J.-P. Lehmann,
Athlone Press, London, 1988. Fosco Maraini parla di “qualcosa di monolitico”
che sta al fondo di tutti i cambiamenti. Cf. Fosco Maraini, Japan; Patterns of
Continuity, Kodansha, Tokyo, 1971.
[25] Mia traduzione
da: R. N. Bellah, Imagining Japan. The Japanese Tradition and its Interpretations,
University of California Press, 2003, p. 7 passim.
[26] Mia traduzione da: J.F. Billeter, Contre François Jullien, Allia,
Paris 2006, p. 63. Cf. F. Jullien, Figures de l’immanence. Pour une lecture
philosophique du Yi King, Grasset, Paris, 1993.
[27] Mia traduzione da B. Lonergan. Insight. A Study of Human
Understanding, Longmans, London, 1957, p. 729.
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