Saturday, January 12, 2013

C'era una volta il capitolo

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Dettaglio articolo. Testimoni Numero 6 del 2002  pag. 7


LIMITI DI UNA FIGURA STORICA

C'ERA UNA VOLTA
IL CAPITOLO

Tra gli strumenti della vita religiosa il capitolo sembra oggi in difficoltà, troppo verticistico e lontano dalla vita di ogni singolo religioso/a, adatto a un tempo di omogeneità culturale che oggi non esite più. Uno strumento che necessita di nuove forme.

La Commissione teologica dell'Unione Superiori Generali in un suo recente documento afferma: «La vita consacrata non ha forse attualmente un'eccessiva zavorra giuridica, che in certa misura schiaccia le sue possibilità carismatiche?» E in riferimento al capitolo generale: «abbiamo in qualche occasione spezzato la logica della rappresentatività giuridica?».[1] Le riflessioni qui riportate sollevano degli interrogativi sulla validità dello strumento "capitolo generale" ai fini della ri-evoluzione della vita religiosa (VR).

IL CAPITOLO

IERI E OGGI

Il termine capitolo trae origine dalla tradizione monastica benedettina a partire dal secolo VIII e stava a indicare l'assemblea comunitaria nella quale i religiosi ascoltavano la lettura e la spiegazione di un capitolo della regola, da qui l'uso di denominare con lo stesso termine dapprima il luogo e poi la riunione stessa.[2] Poi divenne un incontro a carattere formativo, legislativo, elettivo che prevedeva la partecipazione di tutti i religiosi.

Successivamente divenendo numerose le comunità e le distanze si arrivò alla delega ad alcuni,[3] frutto di votazioni, conseguenti esclusioni e relative tensioni (prima e durante) a vari livelli. Non stupisce se come punto di arrivo il capitolo si presta a «sommovimenti emotivi, resistenze intellettive, ansie prestazionali». Nato come esigenza di fraternità soffre ora di un processo di esclusioni che non agevolano la fraternità. La "verticizzazione" nella Chiesa ha sempre trovato buoni teorizzatori e la VR ha copiato da essa i modelli organizzativi anche se in contraddizione con le istanze di fraternità da cui è nata. Un tempo tutto ciò non pesava: in "quel" tempo, in cui le istituzioni avevano un grande alone ideale e fascino, l'appartenenza ad un tale impianto gerarchico, soddisfaceva il bisogno identitario dei "sudditi". Ma «il tempo delle piramidi è finito, è ieri. Tutte le organizzazioni devono passare da forme gerarchiche piramidali a strutture a rete».

Alla riattualizzazione del carisma devono poter partecipare tutti, non è più sufficiente la rappresentatività giuridica; si tratta di inventare le forme possibili e opportune. Non possono esistere i soli esecutori altrimenti c'è la possibilità che scattino modi di adesione all'istituzione in forme di appartenenza con riserva: in situazione in cui altri pensano, deliberano, non rimane che prendere i propri spazi.

Un indicatore del fenomeno, sempre più consistente, di appartenenza limitata si ha nel fatto che i delegati ai capitoli sono sempre più sentiti come loro e non come noi. La forza di un insieme di persone invece è data dal sentimento del noi, se si indebolisce questo si indebolisce l'identificazione con l'insieme, con le sue finalità e con le sue proposte. Da questo nasce la passività frutto di disaffezione.

Un provinciale dopo sette mesi dal capitolo volle rendersi conto di quanto i documenti avessero incuriosito. Risultò che di una provincia di 153 religiosi, se si tolgono i 37 capitolari, soltanto 18 avevano letto integralmente i testi. Quando i documenti non arrivano alla base è perché si è allentata la forza emotiva e come conseguenza non hanno più la capacità di orientare le scelte.

Quali le cause? Di 6 capitoli generali di cui ho preso in esame gli Atti, a fronte della disaffezione, 5 portano l'attenzione sull'individualismo delle persone. In nessuno degli Atti capitolari c'è un approfondimento del fenomeno. I provinciali camilliani al termine del mandato si raccontano e si interrogano. Alla domanda: «l'individualismo dei religiosi è una colpa o una necessità?», rispondono: «se non c'è coinvolgimento a livello decisionale, se non c'è partecipazione alle "cose di casa", come sbocco, non c'è che l'individualismo».[4]

Una possibile via di uscita è quella di trovare forme diverse dal capitolo attraverso cui sia data ad ognuno la possibilità di rifare i patti. In un tempo in cui cambiano non poche prospettive teologiche della VR, la prassi della vita comunitaria, le metodologie apostoliche, non può essere escluso colui che, in ultima analisi, è il solo a dover decidere, da qualcosa che ha a che fare con la libertà di una scelta personale. In caso contrario al singolo non rimane che l'adattarsi passivo a causa del non investimento. La rinascita possibile è quella che parte dal basso.

RIPOSIZIONARE

LA VITA RELIGIOSA

Negli anni tra il 1965 e il 1980, anni pervasi da vivaci fermenti evangelici e dinamismi conciliari che spingevano alla estroversione, alla missionarietà, la VR era tutta presa da un impegno introspettivo: era fervido il lavoro di capitoli (ordinari e straordinari, e oltre ai sessennali anche i triennali a livello provinciale), per rivedere i progetti costituzionali, la ristrutturazione della vita "interna" e delle opere centenarie. Mentre la VR era tutta presa da questi compiti di adeguamento, dalla base del popolo di Dio sorgevano e prendevano forza «aggregazioni di persone che decidevano di vivere in modo radicale la sequela di Cristo professando i consigli evangelici sotto nuove forme e nuovi vincoli rispetto alla vita religiosa tradizionale». È stato il periodo in cui le congregazioni e gli ordini perdevano dal 15 al 25 % dei membri mentre iniziavano a crescere le associazioni di consacrati, approvate con decreto dell'Ordinario. Oggi le forme sono le più varie. Nell'ambito degli stessi movimenti ecclesiali cresce il numero di membri che danno luogo a forme di vita consacrata sia come punto massimo dell'esperienza religiosa propria del movimento, sia come nucleo coagulante del movimento stesso con una vera consacrazione mediante i tre voti. Spesso però non desiderano essere considerati consacrati secondo il modello dei religiosi/e e si rivolgono per l'approvazione al Pontificio consiglio per i laici, per timore di essere incasellati nella VR.

A ispirare queste nuove forme non è stata la VR anche se alcune connotazioni sono identiche (caratterizzazione carismatica, radicalità evangelica, appartenenza a un gruppo), anzi le nuove forme comunitarie - scrive p. Ciardi - «si pongono in voluta antitesi nei confronti degli istituti religiosi…» e puntano sulla comunione di vita «come annuncio di un nuovo tipo di società egualitaria e fraterna», come esperienza rivelatrice di bisogni nuovi, quali ad esempio il non isolarsi dal mondo, la spontaneità, la dinamicità, creatività, duttilità, attenzione alle sfide del tempo, natura laicale, adesione in modo partecipativo e vitale.

Questo accenno alla storia recente è per dire che lo strumento capitolo su cui principalmente si contava ai fini del cambiamento è stato e rimane inadeguato ai fini della vita. Quando si parla di capitolo l'idea che emerge è quella di un fatto giuridico, di un qualcosa che ha a che fare con il "diritto canonico" cioè con qualcosa che codifica e omologa: infatti sia il codice che il capitolo corrono il rischio d'essere delle linee di traguardo per tempi di acquisizioni sedimentate, piuttosto che snodi di accelerazione. Se questo può essere accettato per un testo giuridico non lo può essere per il capitolo, organo orientativo della VR il cui compito è quello di dare risposte nuove alle nuove sfide del tempo.

Il capitolo come attualmente concepito è uno strumento valido per un tempo di stabilità e omogeneità culturale e per momenti della storia in cui la realtà procede linearmente, cioè per un tempo in cui ciò che definisco oggi è buono per domani, ciò che stabilisco per uno vale per tutti, in Europa, in Africa, in America, in Asia, per i giovani e per gli anziani. Ora invece le diverse culture esigono maggiore autoreferenzialità, altrimenti, come sta avvenendo, prendono spessore le contrapposizioni. È figlio di un tempo in cui l'uniformità era una delle mete ed era la norma sancita a orientare la vita , per cui mal si adatta a un tempo in cui è più forte il criterio della differenziazione ed è la vita ad anticipare la norma.

PUNTI DI FRAGILITÀ

DI UN CAPITOLO

Anziché accelerare la vita di una congregazione la mette in stand-by per quasi due anni: circa un anno di preparazione a partire dai capitoli locali e un altro anno dopo il capitolo perché la macchina riprenda. Ma non è detto che successivamente tutto fili: stante l'accumulo di incombenze inevase, una provincia è successivamente presa dalle cose che maggiormente urgono, piuttosto che dalle cose che risulterebbero le più importanti proprio a partire dal capitolo. In altri tempi quelli caratterizzati da lentissima evoluzione culturale, i ritardi burocratici al massimo ritardavano la risposta, oggi invece la snaturano.

Non ha la possibilità di essere laboratorio di ricerca ma solo codificatore di vissuti, magari innovativi ma già vissuti. Il fatto è riconducibile a vari motivi. Innanzitutto, il capitolo, tendenzialmente, procede per stereotipi, o quantomeno identifica il rinnovamento in pochi modelli di riferimento anche quando è il futuro a interpellare; e non si può pretendere diversamente perché è il modo d'essere delle organizzazioni istituzionali, e questo anche quando l'istituzione è la VR, il cui modo d'essere dovrebbe esprimersi nella capacità di dare risposte nuove a nuove sfide.

Nel caso poi deliberasse nuovi progetti con la delibera non si fa molta strada, non è ancora promozione. I "nuovi" (nuovi modi di vivere la comunitarietà, l'integrazione, il lavoro) richiedono capacità di pilotare la complessità standone dentro, coinvolti. Perché "nuovi" richiedono creatività, continui aggiustamenti, mani in pasta e occhi all'orizzonte, tempestività nel cogliere l'opportunità: cose difficili quando tutto è normato o comunque deve soggiacere o fare riferimento a molteplici livelli di autorizzazione.

Inoltre nei capitoli l'investimento di pensiero è troppo piccolo stante il pochissimo tempo a ciò deputato. Non è possibile investire di attenzione nuovi profili perché scatta la preoccupazione per la "norma" o per il "modo": insomma prevale il formalismo rispetto alla sostanza. Il risultato poi, proprio perché frutto di molte mediazioni non è la migliore delle ipotesi. È un grande sforzo di manutenzione senza troppa fantasia. Dopo un mese di tale lavoro capitolare ci si scontra con la fatica e forse «l'alienazione di un qualcosa ingessato nella funzione di una inefficace ortopedia sociale».

OGGI

DOVE SIAMO?

Ci si sta rendendo conto che per poter prendere il largo, la "navigazione" di un istituto ha bisogno di intervento nel "continuo" del momento evolutivo. Gli accadimenti sessennali specie se in mano a pochi, non pilotano i fenomeni: come se un comandante di vascello guardasse la bussola e mettesse mano al timone una volta al mese.

Ma soprattutto un fatto sporadico, qual è il capitolo, non ha la possibilità di risolvere le problematiche oggi in fase di evoluzione, e di incidere su nuove tendenze di fenomeni, quali:

- l'ibridazione: fino a ieri per "formazione insieme" si intendeva corsi teologici intercongregazionali; oggi all'"insieme" intercongregazionale si delega la stessa formazione alla vita religiosa. Inoltre in Italia sono già una trentina le opere gestite insieme e stanno nascendo forme di vita comunitaria intercongregazionale. Si potrebbe anche intravedere qualche positività in ciò (discernimento più ampio, comunione operativa), se il tutto non fosse dettato dall'unica possibilità di sopravvivenza;

- l'identità apostolica debole. In molti decenni la VR aveva affinato in proprio tecniche apostoliche e scelte di campo conseguenti al carisma e all'idea di essere quasi gli unici destinatari del mandato apostolico e della sequela di Cristo, e oggi si trova all'interno di una dottrina che indica quale soggetto della missione della Chiesa l'insieme organico del popolo di Dio e che invita al discepolato quale vocazione di ognuno;

- la convergenza dei carismi in un "indifferenziato". Era tendenza lasciare le parrocchie per opere maggiormente espressive del carisma fondazionale, ora quasi nessun istituto lascia le parrocchie, rimanendo queste l'unico spazio apostolico per molti presbiteri diversamente non inseribili;

- la rottura dello scambio tra generazioni. Nelle comunità un tempo c'erano degli anziani oggi, nella migliore delle situazioni ci sono dei giovani. «Manca - scrive p. Rovira - la generazione di mezzo per cui si trovano in comunità nonni e nipoti, senza genitori; anzi a differenza della famiglia naturale, in cui ci sono pochi nonni e tanti nipotini, qui, invece troviamo tanti nonni e pochissimi nipoti. Manca la generazione ponte. Di conseguenza ci sono religiosi di 30 o 40 anni o anche più) che continuano a essere i "giovani", falsando la realtà, visto che giovani non sono affatto, almeno dal punto di vista cronologico»;

- le forme di appartenenza con riserva. Un tempo era punto di arrivo di religiosi disillusi, oggi è punto di partenza di molti giovani;

- l'immagine di una VR rassicurante. Sta crescendo (non solo per l'età media del corpo sociale) l'idea di VR come di un qualcosa di tranquillo, con il conseguente rischio di interessare coloro che sono in cerca di questo più che di intraprendenza missionaria. Viene spontaneo il rimando alla pastorale vocazionale;

- la mancanza di desiderio: nei giovani capaci di "sognare", perché vedono poca possibilità di realizzarsi sulla linea del sognato; negli anziani perché il sogno è nel passato. La conseguenza è un calo di appartenenza empatica;

- il carisma di istituto e carisma personale non coincidenti: il fenomeno può essere detto con la frase di un provinciale: «ho dieci confratelli in più, ma me ne mancano due»;

- l'indebolimento della parresia: all'appello di inserirci nel nuovo millennio concepito come «oceano vasto (sfide culturali inedite) in cui avventurarci» (NMI, 58), la VR mostra la preoccupazione del difendersi dalle nuove culture;

- i ruoli direttivi non ambiti: perché è cresciuta la virtù o perché l'istituzione ha perso di interesse?;

- la sussidiarietà ambiguamente intesa. Il principio è ridotto a «io intervengo ad aiutare semmai nascesse qualcosa», come conseguenza della difficoltà a livello superiore a dare impulso al nuovo;

- l'identità culturale d'area geografica che in alcuni momenti può sopravvanzare l'identità carismatica dell'istituto;

- lo sbilanciamento sul "racconto" di una gloriosa storia da ricordare piuttosto che sul resoconto di «una grande storia da costruire» (VC110).

È il tempo allora di passare dal ritoal mito. È difficile trovare qui la parola esatta che porti fuori dall' attuale situazione. Il termine adeguato dovrebbe essere profezia ma ormai logoro per l'abuso di cui si è fatto. Mito inteso non secondo l'accezione usuale ma come "forza culturale" (Malinowski B.), elemento ideale costitutivo della vita di gruppo che ha bisogno di essere rigenerato in ogni cambiamento storico. Espressione simbolica oltre le storicizzazioni in cui un gruppo si riconosce. In ogni caso non può essere un rito, una celebrazione: così si dice di questo sessennale avvenimento. Infatti è solenne, lento e "ripetitivo" come un rito; ha le sue "formule" omettendo le quali è "invalido". Ha la pretesa del "memoriale" (riportare all'oggi l'istanza di salvezza) ma il più è solo "memoria" riaggiornata.

Paradossalmente più rifondante è un capitolo meno i pronunciamenti coincidono con le attese dei confratelli stante il fatto che data l'età media, la maggioranza appartiene per formazione ad un mondo, sotto il profilo culturale, che va a finire.

Rino Cozza

[1] Commissione teologica USG, Nella Globalizzazione: verso una comunione pluricentrica e interculturale. Implicazioni ecclesiologiche per il governo dei nostri istituti, Ed Il Calamo, Roma 2001.


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