Wednesday, February 06, 2013

Osservatore Romano

Le parole hanno un significato?




L’articolo della psicanalista Marie Balmary, che pubblichiamo quasi per intero, è uscito su «La Vie» del 1° febbraio e quello della filosofa Sylviane Agacinski, di cui diamo ampi stralci, su «Le Monde » del 3 febbraio.



di MARIE BALMARY



È un fatto evidente, l’umanità ha potuto attraversare le peggiori catastrofi, vivere sotto i peggiori
regimi, commettere le peggiori atrocità: non ha però mai smesso di parlare. Ha sempre trovato, ritrovato, inventato parole per raccontare il meglio come il peggio, parole per sentire, parole per pensare. Dire il bene e il male. Nulla le ha fatto perdere questa facoltà propriamente umana da cui dipende la coscienza. Siamo oggi giunti a un nuovo momento della cultura, a una svolta della parola. Cosa faremo delle parole
“p a d re ”, “m a d re ”, “matrimonio”? Modificheremo il loro significato oppure troveremo altre parole?
La parola “matrimonio” chiede un incontro all’Académie Française. Se si stabilisce che vuol dire allo stesso tempo «unione di persone di sesso diverso» e «unione di persone dello stesso sesso», come può la nostra mente districarsi da questa confusione? Come spiegheremo ai bambini che “simile” e “diverso”, una realtà e il suo contrario, sono la stessa cosa, senza provocare mille domande e osservazioni, forse scoppi di risa,
di cui sono capaci intelligenze come quelle che Freud amava, non ancora intimidite da un’educazione che impedisce loro di riflettere?

L’Académie Française potrebbe pregare il legislatore d’inventare un’altra parola piuttosto che
privarci di una delle specificità più importanti del linguaggio, ossia quella di distinguere realtà diverse grazie alla diversità dei vocaboli pertinenti.

Sarebbe molto strano se non si trovasse nei cassetti della nostra vecchia cultura, e sugli schermi di quella giovane, un modo per rimediare a questa confusione.

Quanto alla parola “orientamento”, utilizzata così spesso, vuol dire ancora qualcosa, visto che il suo contrario si può trovare solo in testi scientifici
del secolo scorso (Freud) e non può servire oggi per riflettere in questo ambito ancora così
misterioso?

Scrivere leggi con parole private del loro senso? Un esempio. Nel codice civile del Québec

(articolo 539, 1 aggiunto nel 2002) si legge:

«Quando i genitori sono entrambi di sesso femminile,
i diritti e gli obblighi che la legge attribuisce
al padre, laddove essi si differenziano da 
quelli della madre, sono attribuiti a quella delle

due madri che non ha messo al mondo il bambino

». Che il lettore e i canadesi mi perdonino: un simile testo mi fa cadere le braccia. Già la

parola “p a d re ” negli articoli precedenti è diventata
«apporto di forze genetiche». Al termine
“m a d re ” vengono attribuiti due significati opposti,
il che vuole letteralmente dire che non significa
più. Di fatto si tratta di “due madri” delle
quali la seconda è «quella delle due madri che
non ha messo al mondo il bambino». Ebbene,
in tutte le lingue della terra, la parola madre
vuol dire proprio «donna che ha partorito uno
o a più bambini».

Ci si sbarazzerà della parola per fare la legge?
Come dare diritti che correggono ingiustizie
senza distruggere il linguaggio? Come fare una
legge che riconosca a ognuno un posto nella
sua relazione con l’essere amato senza annullare il senso delle parole che significano tali relazioni?

Sapremo nominare le persone preposte ad
accogliere e a educare un figlio senza perdere le

parole e i nomi con cui quest’ultimo avrà accesso
alla sua origine? Sapremo inscrivere l’a m o re
senza cancellare la verità?

Perché dunque le religioni s’intromettono in
tutto ciò? Perché le religioni s’i n t ro m e t t o n o .

Che c’entrano con tale questione? E, prima di tutto, cosa rispondere a quanti ne sono contrariati?

Dopo anni di ricerca sui testi fondatori, sono giunta a questa conclusione evidente: le

religioni sono custodi della parola ed essendo la

parola viva, non la si potrebbe conservare senza

nutrirla.
Custodi e promotrici della parola umana, le
religioni possono provocare un’adesione forte
oppure, al contrario, una forte disaffezione.

Questa disaffezione apparente si trasforma in

collera quando le istituzioni religiose usano impropriamente

il potere simbolico decisivo che

spetta loro. Poiché di questo potere le religioni

hanno potuto e possono ancora abusare. E provocare

così traumi spirituali che non sono certo

meno gravi degli abusi sessuali. D’altronde, gli

uni non escludono gli altri.

Resta il fatto che oggi, riguardo a questo progetto

di legge sul matrimonio, tutti i discendenti

di Abramo sono dello stesso parere. Ne è prova

il fatto che essi non parlano per la loro religione,

ma per ciò a cui servono le religioni: custodire

la parola, risvegliare la coscienza. Molte

persone che non si riconoscono in alcuna religione,

per la loro posizione etica, sono ugualmente

coinvolte in una simile ricerca, da un simile

interrogativo.

La parola, che le tirannie, le guerre, le colonizzazioni,

le schiavitù, i totalitarismi non hanno

potuto farci perdere, saremmo noi a metterla

in pericolo con leggi votate nelle assemblee democratiche

in tempo di pace?



----------------------------------------



Uno più uno non è sempre uguale a due



di SYLVIANE AGACINSKI



Nulla illustra meglio la coriacità della dissimmetria dei sessi del modo in cui ognuno affronta la questione della procreazione.

Come tutti, anche gli omosessuali affrontano tale questione e, fino a ora, non avevano altra possibilità che rivolgersi a una persona dell’altro sesso.

Ciò che è cambiato, al punto da far emergere la nozione di omogenitorialità,

è la possibilità, almeno apparente, di far

a meno dell’altro sesso per “a v e re ” dei

figli, come si sente dire così spesso.

Quasi si dimentica ciò che questa meravigliosa

“p erformance” deve alle tecniche

biomediche e al donatore di sperma

anonimo che ha dato il

suo contributo in Belgio

o in California. Ma il dono di sperma e l’inseminazione

artificiale sono da tempo praticati in

Francia per coppie “classiche” nel quadro

della procreazione medicalmente assistita

senza che ci si interroghi sulla trasformazione

delle persone che danno la

vita con semplici materiali biologici anonimi

mentre i figli diventano prodotti

fabbricati su richiesta e, di conseguenza,

in certi Paesi, merci. Oggi conosciamo

gli effetti devastanti che possono esserci

sui figli in seguito alla decisione di mantenere

il segreto sulla persona del loro

genitore. Così, la prima riflessione che si

impone alle nostre società, prima di

qualsiasi costruzione legislativa sulle

modalità della filiazione, riguarda la distinzione,

fondamentale nel diritto, tra

persone e cose. Il filosofo Hans Jonas

considerava la responsabilità degli esseri

umani nei confronti della loro progenitura

come l’archetipo della responsabilità.

I donatori di sperma e le donatrici di

ovociti sono innanzitutto esseri umani:

si dice che donano cellule a una coppia,

in realtà contribuiscono a dare la vita a un figlio, e quest’ultimo un giorno lo saprà

e ne chiederà conto. Perché, essendo

egli stesso persona, vorrà sapere qual è

la sua storia umana. Per questo è necessario

intraprendere una riflessione globale

sul ruolo della medicina procreativa e

sulle condizioni etiche delle sue pratiche,

indipendentemente dalle coppie a

cui sono destinate queste pratiche. Un progetto di legge sulla famiglia

non può certo sostituire tale riconsiderazione

totale. Rivolgendosi al Comitato

consultivo nazionale di etica, il presidente

della Repubblica va nella giusta

direzione. Il problema è diverso per gli

uomini (a causa della dissimmetria sessuale),

perché la procreazione omogenitoriale

necessita di un dono di ovociti e

dell’uso di “gestanti per altri” (madri in

affitto). A questo riguardo, le posizioni del

Governo sembrano chiare. Esso esclude

ogni legalizzazione dell’uso di

donne come “gestanti per altri”,

consapevole della mercificazione

del corpo che inevitabilmente comporta,

con lo sfruttamento di

donne socialmente fragili. Ma

allora è inquietante e incoerente

che Dominique Bertinotti,

ministro delegata per la famiglia,

si ostini ad annunciare

che continuerà

a esaminare la

questione; o che il

ministro della giustizia,

in una circolare

almeno inopportuna,

conceda un cer-tificato di nazionalità ai figli nati da “gestanti

per altri” all’estero. Ma i bimbi nati

in questo modo hanno uno stato civile

emesso dal Paese in cui sono nati: non

sono affatto sprovvisti di documenti di

identità. Non si potrebbe comprendere il

fatto che, per vie indirette, si dia alla fine

ragione a coloro che aggirano deliberatamente

la legislazione in vigore. Ma

non spetta innanzitutto agli stessi futuri

genitori interrogarsi sul loro progetto?

Un altro campo di riflessione riguarda

l’omogenitorialità come nuovo modello

di filiazione. Il principio di un matrimonio

aperto a tutte le coppie unisce ampiamente

i francesi, mentre il principio

dell’omogenitorialità li divide.

La capacità di chiunque di essere un

buon genitore non è in discussione. Del

resto, molti omosessuali hanno figli con

un partner dell’altro sesso, e non pretendono

di fondare la loro paternità o la loro

maternità sulla loro omosessualità. Al

contrario, l’omogenitorialità significherebbe

che l’amore omosessuale fonda la

genitorialità possibile e permette di so-ristituire

l’eterogeneità sessuale del padre

e della madre con l’omosessualità maschile

o femminile dei genitori. Le formule,

divenute correnti, di genitori gay

e lesbici significano la stessa cosa.

Quando il ministro della famiglia annuncia

che bisognerà interrogarsi sulle

«nuove forme di filiazione sia eterosessuali

che omosessuali», sostituisce anche

al carattere sessuato dei genitori il loro

orientamento sessuale. Così, si tratta

proprio di creare un nuovo modello di

filiazione. Secondo il modello tradizionale,

un figlio è unito ad almeno un genitore,

generalmente la madre che lo ha

messo al mondo, e se possibile a due,

padre e madre. Anche nell’adozione, la

filiazione legale riproduce analogicamente

la coppia procreatrice, asimmetrica

ed eterogenea. Ne mantiene lo schema,

ossia quello della generazione biologica

bisessuata. In questo modo si può

comprendere Claude Lévi-Strauss quando

scrive che «i legami biologici sono il

modello sul quale sono concepite le relazioni

di genitorialità». Ora, si noterà

che questo modello non è né logico, né

matematico (del tipo: 1+1), ma biologico,

e quindi qualitativo (donna + uomo)

perché i due non sono intercambiabili.

È la sola ragione per la quale i genitori

sono due, o formano una coppia. Anche

se questa forma non è sempre soddisfatta

(per esempio quando un bimbo ha

un solo genitore o è adottato da una sola

persona), la differenza sessuale è simbolicamente

indicata, cioè nominata dalle

parole padre o madre che designano

persone e posizioni distinte. Questa distinzione

inserisce il bambino in un ordine

in cui le generazioni si succedono

grazie alla generazione sessuata, e la finitezza

comune gli è così significata:

poiché nessuno può generare da solo facendo

sia da padre che da madre.

Allora, si pone la domanda di sapere

che cosa viene significato al bambino

unito, per ipotesi a due madri o a due

padri. Un cumulo simile significa che

due padri possono sostituire una madre?

Che due madri possono sostituire un

padre? Una lesbica militante, che non

vuole aggiungere un padre alla sua coppia

femminile, dichiara: «Due genitori

bastano». E un’altra: «Non voglio sobbarcarmi

un padre per essere madre».

Come non sentire qui un diniego virulento

della finitezza e dell’incompletezza

di ciascuno dei due sessi?

Il timore che si può esprimere qui, è

precisamente che due genitori dello stesso

sesso simbolizzino, ai loro occhi, come

a quelli dei loro figli adottivi (e ancor

di più a quelli che sarebbero procreati

con l’aiuto di materiali biologici),

un diniego del limite che ciascuno dei

due sessi è per l’altro, limite che l’a m o re

non può cancellare.

No comments: