Le parole hanno un significato?
L’articolo della psicanalista Marie Balmary, che pubblichiamo quasi per intero, è uscito su «La Vie» del 1° febbraio e quello della filosofa Sylviane Agacinski, di cui diamo ampi stralci, su «Le Monde » del 3 febbraio.
di MARIE BALMARY
È un fatto evidente, l’umanità ha potuto attraversare le peggiori catastrofi, vivere sotto i peggiori
regimi, commettere le peggiori atrocità: non ha però mai smesso di parlare. Ha sempre trovato, ritrovato, inventato parole per raccontare il meglio come il peggio, parole per sentire, parole per pensare. Dire il bene e il male. Nulla le ha fatto perdere questa facoltà propriamente umana da cui dipende la coscienza. Siamo oggi giunti a un nuovo momento della cultura, a una svolta della parola. Cosa faremo delle parole
“p a d re ”, “m a d re ”, “matrimonio”? Modificheremo il loro significato oppure troveremo altre parole?
La parola “matrimonio” chiede un incontro all’Académie Française. Se si stabilisce che vuol dire allo stesso tempo «unione di persone di sesso diverso» e «unione di persone dello stesso sesso», come può la nostra mente districarsi da questa confusione? Come spiegheremo ai bambini che “simile” e “diverso”, una realtà e il suo contrario, sono la stessa cosa, senza provocare mille domande e osservazioni, forse scoppi di risa,
di cui sono capaci intelligenze come quelle che Freud amava, non ancora intimidite da un’educazione che impedisce loro di riflettere?
L’Académie Française potrebbe pregare il legislatore d’inventare un’altra parola piuttosto che
privarci di una delle specificità più importanti del linguaggio, ossia quella di distinguere realtà diverse grazie alla diversità dei vocaboli pertinenti.
Sarebbe molto strano se non si trovasse nei cassetti della nostra vecchia cultura, e sugli schermi di quella giovane, un modo per rimediare a questa confusione.
Quanto alla parola “orientamento”, utilizzata così spesso, vuol dire ancora qualcosa, visto che il suo contrario si può trovare solo in testi scientifici
del secolo scorso (Freud) e non può servire oggi per riflettere in questo ambito ancora così
misterioso?
Scrivere leggi con parole private del loro senso? Un esempio. Nel codice civile del Québec
(articolo 539, 1 aggiunto nel 2002) si legge:
«Quando i genitori sono entrambi di sesso femminile,
i diritti e gli obblighi che la legge attribuisce
al padre, laddove essi si differenziano da
quelli della madre, sono attribuiti a quella delle
due madri che non ha messo al mondo il bambino
». Che il lettore e i canadesi mi perdonino: un simile testo mi fa cadere le braccia. Già la
parola “p a d re ” negli articoli precedenti è diventata
«apporto di forze genetiche». Al termine
“m a d re ” vengono attribuiti due significati opposti,
il che vuole letteralmente dire che non significa
più. Di fatto si tratta di “due madri” delle
quali la seconda è «quella delle due madri che
non ha messo al mondo il bambino». Ebbene,
in tutte le lingue della terra, la parola madre
vuol dire proprio «donna che ha partorito uno
o a più bambini».
Ci si sbarazzerà della parola per fare la legge?
Come dare diritti che correggono ingiustizie
senza distruggere il linguaggio? Come fare una
legge che riconosca a ognuno un posto nella
sua relazione con l’essere amato senza annullare il senso delle parole che significano tali relazioni?
Sapremo nominare le persone preposte ad
accogliere e a educare un figlio senza perdere le
parole e i nomi con cui quest’ultimo avrà accesso
alla sua origine? Sapremo inscrivere l’a m o re
senza cancellare la verità?
Perché dunque le religioni s’intromettono in
tutto ciò? Perché le religioni s’i n t ro m e t t o n o .
Che c’entrano con tale questione? E, prima di tutto, cosa rispondere a quanti ne sono contrariati?
Dopo anni di ricerca sui testi fondatori, sono giunta a questa conclusione evidente: le
religioni sono custodi della parola ed essendo la
parola viva, non la si potrebbe conservare senza
nutrirla.
Custodi e promotrici della parola umana, le
religioni possono provocare un’adesione forte
oppure, al contrario, una forte disaffezione.
Questa disaffezione apparente si trasforma in
collera quando le istituzioni religiose usano impropriamente
il potere simbolico decisivo che
spetta loro. Poiché di questo potere le religioni
hanno potuto e possono ancora abusare. E provocare
così traumi spirituali che non sono certo
meno gravi degli abusi sessuali. D’altronde, gli
uni non escludono gli altri.
Resta il fatto che oggi, riguardo a questo progetto
di legge sul matrimonio, tutti i discendenti
di Abramo sono dello stesso parere. Ne è prova
il fatto che essi non parlano per la loro religione,
ma per ciò a cui servono le religioni: custodire
la parola, risvegliare la coscienza. Molte
persone che non si riconoscono in alcuna religione,
per la loro posizione etica, sono ugualmente
coinvolte in una simile ricerca, da un simile
interrogativo.
La parola, che le tirannie, le guerre, le colonizzazioni,
le schiavitù, i totalitarismi non hanno
potuto farci perdere, saremmo noi a metterla
in pericolo con leggi votate nelle assemblee democratiche
in tempo di pace?
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Uno più uno non è sempre uguale a due
di SYLVIANE AGACINSKI
Nulla illustra meglio la coriacità della dissimmetria dei sessi del modo in cui ognuno affronta la questione della procreazione.
Come tutti, anche gli omosessuali affrontano tale questione e, fino a ora, non avevano altra possibilità che rivolgersi a una persona dell’altro sesso.
Ciò che è cambiato, al punto da far emergere la nozione di omogenitorialità,
è la possibilità, almeno apparente, di far
a meno dell’altro sesso per “a v e re ” dei
figli, come si sente dire così spesso.
Quasi si dimentica ciò che questa meravigliosa
“p erformance” deve alle tecniche
biomediche e al donatore di sperma
anonimo che ha dato il
suo contributo in Belgio
o in California. Ma il dono di sperma e l’inseminazione
artificiale sono da tempo praticati in
Francia per coppie “classiche” nel quadro
della procreazione medicalmente assistita
senza che ci si interroghi sulla trasformazione
delle persone che danno la
vita con semplici materiali biologici anonimi
mentre i figli diventano prodotti
fabbricati su richiesta e, di conseguenza,
in certi Paesi, merci. Oggi conosciamo
gli effetti devastanti che possono esserci
sui figli in seguito alla decisione di mantenere
il segreto sulla persona del loro
genitore. Così, la prima riflessione che si
impone alle nostre società, prima di
qualsiasi costruzione legislativa sulle
modalità della filiazione, riguarda la distinzione,
fondamentale nel diritto, tra
persone e cose. Il filosofo Hans Jonas
considerava la responsabilità degli esseri
umani nei confronti della loro progenitura
come l’archetipo della responsabilità.
I donatori di sperma e le donatrici di
ovociti sono innanzitutto esseri umani:
si dice che donano cellule a una coppia,
in realtà contribuiscono a dare la vita a un figlio, e quest’ultimo un giorno lo saprà
e ne chiederà conto. Perché, essendo
egli stesso persona, vorrà sapere qual è
la sua storia umana. Per questo è necessario
intraprendere una riflessione globale
sul ruolo della medicina procreativa e
sulle condizioni etiche delle sue pratiche,
indipendentemente dalle coppie a
cui sono destinate queste pratiche. Un progetto di legge sulla famiglia
non può certo sostituire tale riconsiderazione
totale. Rivolgendosi al Comitato
consultivo nazionale di etica, il presidente
della Repubblica va nella giusta
direzione. Il problema è diverso per gli
uomini (a causa della dissimmetria sessuale),
perché la procreazione omogenitoriale
necessita di un dono di ovociti e
dell’uso di “gestanti per altri” (madri in
affitto). A questo riguardo, le posizioni del
Governo sembrano chiare. Esso esclude
ogni legalizzazione dell’uso di
donne come “gestanti per altri”,
consapevole della mercificazione
del corpo che inevitabilmente comporta,
con lo sfruttamento di
donne socialmente fragili. Ma
allora è inquietante e incoerente
che Dominique Bertinotti,
ministro delegata per la famiglia,
si ostini ad annunciare
che continuerà
a esaminare la
questione; o che il
ministro della giustizia,
in una circolare
almeno inopportuna,
conceda un cer-tificato di nazionalità ai figli nati da “gestanti
per altri” all’estero. Ma i bimbi nati
in questo modo hanno uno stato civile
emesso dal Paese in cui sono nati: non
sono affatto sprovvisti di documenti di
identità. Non si potrebbe comprendere il
fatto che, per vie indirette, si dia alla fine
ragione a coloro che aggirano deliberatamente
la legislazione in vigore. Ma
non spetta innanzitutto agli stessi futuri
genitori interrogarsi sul loro progetto?
Un altro campo di riflessione riguarda
l’omogenitorialità come nuovo modello
di filiazione. Il principio di un matrimonio
aperto a tutte le coppie unisce ampiamente
i francesi, mentre il principio
dell’omogenitorialità li divide.
La capacità di chiunque di essere un
buon genitore non è in discussione. Del
resto, molti omosessuali hanno figli con
un partner dell’altro sesso, e non pretendono
di fondare la loro paternità o la loro
maternità sulla loro omosessualità. Al
contrario, l’omogenitorialità significherebbe
che l’amore omosessuale fonda la
genitorialità possibile e permette di so-ristituire
l’eterogeneità sessuale del padre
e della madre con l’omosessualità maschile
o femminile dei genitori. Le formule,
divenute correnti, di genitori gay
e lesbici significano la stessa cosa.
Quando il ministro della famiglia annuncia
che bisognerà interrogarsi sulle
«nuove forme di filiazione sia eterosessuali
che omosessuali», sostituisce anche
al carattere sessuato dei genitori il loro
orientamento sessuale. Così, si tratta
proprio di creare un nuovo modello di
filiazione. Secondo il modello tradizionale,
un figlio è unito ad almeno un genitore,
generalmente la madre che lo ha
messo al mondo, e se possibile a due,
padre e madre. Anche nell’adozione, la
filiazione legale riproduce analogicamente
la coppia procreatrice, asimmetrica
ed eterogenea. Ne mantiene lo schema,
ossia quello della generazione biologica
bisessuata. In questo modo si può
comprendere Claude Lévi-Strauss quando
scrive che «i legami biologici sono il
modello sul quale sono concepite le relazioni
di genitorialità». Ora, si noterà
che questo modello non è né logico, né
matematico (del tipo: 1+1), ma biologico,
e quindi qualitativo (donna + uomo)
perché i due non sono intercambiabili.
È la sola ragione per la quale i genitori
sono due, o formano una coppia. Anche
se questa forma non è sempre soddisfatta
(per esempio quando un bimbo ha
un solo genitore o è adottato da una sola
persona), la differenza sessuale è simbolicamente
indicata, cioè nominata dalle
parole padre o madre che designano
persone e posizioni distinte. Questa distinzione
inserisce il bambino in un ordine
in cui le generazioni si succedono
grazie alla generazione sessuata, e la finitezza
comune gli è così significata:
poiché nessuno può generare da solo facendo
sia da padre che da madre.
Allora, si pone la domanda di sapere
che cosa viene significato al bambino
unito, per ipotesi a due madri o a due
padri. Un cumulo simile significa che
due padri possono sostituire una madre?
Che due madri possono sostituire un
padre? Una lesbica militante, che non
vuole aggiungere un padre alla sua coppia
femminile, dichiara: «Due genitori
bastano». E un’altra: «Non voglio sobbarcarmi
un padre per essere madre».
Come non sentire qui un diniego virulento
della finitezza e dell’incompletezza
di ciascuno dei due sessi?
Il timore che si può esprimere qui, è
precisamente che due genitori dello stesso
sesso simbolizzino, ai loro occhi, come
a quelli dei loro figli adottivi (e ancor
di più a quelli che sarebbero procreati
con l’aiuto di materiali biologici),
un diniego del limite che ciascuno dei
due sessi è per l’altro, limite che l’a m o re
non può cancellare.
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