Tuesday, February 12, 2013

Osservatore romano


Il metodo scientifico moderno e il rapporto tra fede e ragione

Gli indomabili
cavalli di Galileo

di PIERO BENVENUTI

Tommaso d’Aquino, nella Summa contra gentiles, dimostra, con la chiarezza che sempre lo contraddistingue, come le verità di fede non possano mai essere in contrasto con la ragione. Ben sapendo che a volte nascono dei conflitti tra ciò che apprendiamo razionalmente riguardo la natura e le verità di fede, o forse prevedendone di ancor più gravi nel futuro, egli insiste in modo particolare sulla possibilità di risolverli sempre, in quanto ogni eventuale contrasto è per necessità solo apparente. Purtroppo, tale chiaro e convincente ragionamento sulla necessaria concordanza tra le conoscenze scientifiche e le verità di fede,
o meglio, il supporto teologico alle stesse, venne per molto tempo dimenticato, generando a volte vere e proprie battaglie, e soprattutto diffondendo l’opinione comune che la scienza e la fede fossero in ultima analisi incompatibili.
Non solo gli insegnamenti di Tommaso vennero dimenticati, ma anche quelli di uno dei fondatori del metodo scientifico moderno, Galileo Galilei. Ragionando sul nuovo approccio alla conoscenza della natura che egli stesso stava inaugurando, scriveva con altrettanta chiarezza
all’amico Marco Welser: «Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile, e per fatica non men vana, nelle prossime sustanze elementari che nelle
remotissime e celesti. Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi".


Galileo indica chiaramente che i limiti del metodo scientifico moderno che, tralasciando l'"essenza" delle cose naturali si occupa unicamente delle relazioni («affezioni»)
tra fenomeni misurabili, che verranno poi rappresentate in forma matematica. Con spirito profetico egli prevede che tale metodo servirà non solo per conoscere ciò che avviene
vicino a noi (oggi diremmo nel nostro “lab oratorio”), ma anche per
estendere la nostra conoscenza fino agli estremi limiti dell’universo. La
divisione “sostanziale” tra mondo sub-lunare e quintessenza, propria
della fisica aristotelica, era definitivamente infranta.
Gli entusiasmanti successi della fisica newtoniana e della meccanica
celeste che seguiranno di lì a breve, tanto inorgogliranno gli scienziati da
far loro ben presto dimenticare che le «affezioni» e le loro precise trascritture in formule non sono mai l’«essenza» delle cose. Pertanto il metodo scientifico, potentissimo e insostituibile nel suo ambito, non potrà mai offrire una conoscenza completa e definitiva di tutta la re a l t à .


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Praedica verbum
Il tema del rapporto tra fede e scienza è al centro dell’azione
del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio
della Cultura, promotore del Cortile dei gentili. Anche per questo
nella raccolta di scritti intitolata Praedica verbum (Milano,
Ambrosianeum, 2013, pagine IX + 254) e ideata per il settantesimo
compleanno del porporato, Piero Benvenuti, consultore dell’o rg a n i s m o
della Santa Sede e docente di astronomia nell’università di Padova,
ha approfondito alcuni aspetti della questione nell’intervento
di cui pubblichiamo alcuni stralci.

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È sintomatico che il giovane Max Planck  venisse scoraggiato a interessarsi di fisica teorica perché, come suggeriva uno dei suoi professori, ormai tutto
era chiaro, le possibili novità si sarebbero limitate a qualche insignificante dettaglio. Di lì a qualche anno, Planck, introducendo il nuovo
concetto di «quanto» di energia, avrebbe dato inizio alla rivoluzione
della fisica quantistica, svelando aspetti del tutto inattesi della realtà
fenomenica. In particolare il principio di indeterminazione di Heisenberg avrebbe infranto la certezza illuministica di poter misurare in modo indipendente ogni grandezza fisica con un errore piccolo a piacere, legato solo alla capacità tecnica dello sperimentatore. Gli esperimenti,
le «sensate esperienze» di Galilei, quando riguardano situazioni spazio-temporali o energetiche estreme si dimostrano dei cavalli indomabili,
insofferenti, per così dire, della presenza dello sperimentatore e la certezza di poter indagare senza limiti la natura deve umilmente arrestarsi.
C’è del sacro in questo necessario riconoscimento del limite e lo stesso
Planck scriveva: «Scienza e religione
non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi
nella mente di un uomo che riflette seriamente».
Fino a un secolo fa nessuno, nemmeno un genio della fisica come Albert Einstein, immaginava che l’universo fosse caratterizzato da una continua evoluzione che si manifesta
come una espansione dello spaziotempo unitamente alla materia-energia. Oggi, grazie soprattutto ai dati osservativi provenienti dagli strumenti spaziali che operano al di fuori dell’atmosfera terrestre, è stato possibile ricostruire in dettaglio la
storia evolutiva dell’universo. Infatti,
avendo la luce velocità finita, le immagini che provengono dal cosmo si
riferiscono sempre a epoche passate, posticipate del tempo impiegato dalla luce, a 300.000 chilometri al secondo, a raggiungere l’o s s e r v a t o re .
Inoltre, l’espansione dello spaziotempo modifica la lunghezza d’onda
— volgarmente il “c o l o re ” —  della luce e quindi è possibile datare le immagini ricevute, collocandole correttamente nella sequenza fotografica
della storia del cosmo.  L'espansione — dal passato al futuro — “r a f f re d d a ”
la materia-energia cosmica e quindi, ripercorrendo a ritroso la storia evolutiva — dal presente al passato — incontriamo un universo mediamente sempre più “caldo”, tanto da divenire — o meglio essere stato — un fluido uniforme di gas “incandescente” (più tecnicamente “ionizzato”), ciò che i fisici chiamano “plasma”. Il 

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Il giovane Max Planck venne scoraggiato
a interessarsi di fisica teorica
perché ormai tutto sembrava chiaro
Di lì a qualche anno Planck diede inizio
alla rivoluzione della fisica quantistica
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plasma ha la caratteristica di essere
opaco alla radiazione elettromagnetica, alla luce, quindi quando raggiungiamo a ritroso nel tempo quella fase, l’universo diventa opaco, impenetrabile alla vista. Il “sipario cosmico”
è collocato, sulla base dei dati sempre più dettagliati ottenuti dai satelliti astronomici, a 13,725 miliardi di
anni fa. Per oltrepassare all’i n d i e t ro
lo “schermo”, chiamato Cosmic Microwave Background (Fondo cosmico di microonde), i cosmologi devono affidarsi a modelli matematici basati sulla fisica oggi nota. Le condizioni in cui si trovava la materiaenergia in quelle epoche remote sono estreme, impossibili da riprodurre
in un laboratorio terrestre oltre un
certo limite: gli esperimenti condotti
al Cern di Ginevra con il Large Hadron Collider, riescono a simulare le
condizioni dell’universo com’era circa 10-15 secondi dopo l’“istante iniziale”, ma sarà molto difficile risalire
ulteriormente. L’“istante iniziale” rimarrà quindi sempre precluso all’indagine sperimentale e potrà essere
trattato solo ipoteticamente, estrapolando al limite le conoscenze scientifiche conseguite. Quell’intervallo infinitesimo dopo l’inizio potrebbe
sembrare un’inezia, ma non dobbiamo dimenticare che il “secondo” è
un’unità di misura locale, tipicamente terrestre e umana e inoltre lo scorrere lineare del tempo, cui siamo
abituati dalla nostra vita quotidiana,
non corrisponde alla scansione degli
eventi cosmici che, nelle fasi iniziali,
si susseguono con ritmi incredibilmente rapidi. Nonostante le difficoltà nell’avvicinarsi all’ipotetico “inizio”, la domanda se vi sia realmente
un “istante zero”, un inizio del tempo e, nel caso, se abbia senso scientifico, oltre che filosofico, porre il
problema di cosa vi fosse “prima”, si
presenta oggi ancor più imperiosa che nel passato.
È logico quindi che, una volta scoperta l’evoluzione del cosmo,
l’“istante zero” da cui essa sembra avere inizio, abbia da subito richiamato il concetto ebraico-cristiano di
creazione dell’universo come atto divino, identificando il biblico Fiat lux
con il Big Bang e i sei giorni di  Genesi 1, come la susseguente evoluzione. Questo affrettato quanto ingenuo concordismo conduce però a
un’idea di Creatore che la teologia
ha da tempo superato, quella del “Dio orologiaio”, che mette in moto
il meccanismo dell’universo in un tempo remoto e si disinteressa poi
del mondo e dell’uomo, per riapparire sulla scena solo alla fine dei
tempi per il giudizio universale. Dal punto di vista filosofico-teologico,
uno dei problemi di questa visione risiede nel concepire l’atto creativo
come un “evento” che avviene nel tempo, presupponendo l’esistenza di
quest’ultimo. Già sant’Agostino aveva affrontato il problema, ulteriormente chiarito successivamente da
san Tommaso d’Aquino che scrive:
«Si dice che le cose furono create all’inizio del tempo non perché l’inizio
del tempo sia la misura dell’atto creativo
medesimo, ma perché il cielo e la terra sono
stati creati insieme con il tempo».
  Oggi, tale affermazione è rafforzata anche dalla fisica posteinsteiniana che, abbandonando il concetto newtoniano di
spazio e tempo assoluti, non li può concepire se non indissolubilmente legati alla
materia-energia dell’universo.
 
  Di fronte all’evidenza scientifica dell’evoluzione del cosmo, il concetto di creazione maggiormente compatibile è quello della  creatio continua, a-temporale, che abbraccia anche il tempo e il suo scorrere. San Tommaso si rende ben conto quanto
per l’uomo sia difficile immaginare alcunché fuori dal tempo, ma non
ha tentennamenti filosofici nell’esprimere il concetto che la creazione
non può essere un mutamento in senso proprio, ma solo in senso metaforico: «in ogni mutamento da un
soggetto a un altro, c’è bisogno che entrambi abbiano qualcosa in comune, perché se non ce l’hanno, ciò che
avviene non può essere definito come cambiamento. (...) A volte può sembrare che non vi sia nulla in comune tra ciò che è prima e ciò che è
dopo il mutamento, ma c’è comunque un solo tempo che scorre continuo e nel quale troviamo “prima”
ciò che “dop o” diventa qualcos’a l t ro , (...) come quando diciamo che dopo
il mattino viene il mezzogiorno. (...) Ora, nella creazione, non si verifica
nessuna delle situazioni sopra descritte: infatti non c’è nulla in comune [tra non-essere ed essere] e non
c’è continuità di tempo perché il tempo non esisteva quando il mondo non c’era. Eppure possiamo trovare qualcosa in comune, ma puramente immaginario, se ci figuriamo una sorta di successione tra quando il mondo non esisteva e quando è stato tratto all’esistenza.
Analogamente, anche se al di fuori dell’universo non esiste lo spazio, noi possiamo nondimeno immaginarne uno: così, anche se prima
dell’inizio del mondo non esiste il tempo, noi possiamo immaginarlo.
Concludendo, la creazione non può rientrare a rigore nella categoria della mutazione e l’uomo la può immaginare come tale solo come metafora, ma non in realtà».
Quindi, se fino a un secolo fa interpretazioni alternative di Genesi 1 erano ugualmente possibili, oggi la scienza ci aiuta a scegliere quelle compatibili con quanto essa va scoprendo della realtà fenomenologica.
L’obiettivo dell’esegesi, che vuole estrarre dalla parola scritta il senso dell’ispirazione che l’ha originata  nostrae salutis causa  è così più vicino all’uomo di oggi anche grazie alla scienza.







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