Wednesday, June 18, 2014

Quattro giacche a fare i pali

 Quattro giacche a fare i pali

di ENRICO REGGIANI

Come e più che in passato, con i mondiali brasiliani da poco iniziati, il ruolo letterario e culturale del calcio si impone al centro della scena globale. Potrebbe essere una loro conseguenza virtuosa, visto che sempre meno numerosi, fortunatamente,
sembrano essere gli epigoni di coloro che sdottora(va)no della sua irrilevanza (quando non addirittura della pericolosità). Se pare ormai condivisa l’idea che i “rituali” del calcio propongano la «descrizione di una battaglia» (Alessandro Dal Lago, 1990), ci si è anche spinti fino a considerarlo — non senza qualche acrobazia concettuale e analogica — sia «una buona allegoria del lavoro letterario» (Cristina Taglietti, 2009), sia uno strumento di espressione della vacuità del lavorio del critico: «La fedeltà bovina al testo, ai marchingegni narrativi, alle strutture sociologiche hanno reso la critica tediosa come le trasmissioni calcistiche sulle quali si fa un gran disquisire sulla differenza tra 4-3-3 e 4-3-1-2» (Alessandro Piperno, 2009).
Saranno pure tediose quisquilie tecniche queste ultime, ma l’affascinante e prestigiosa Premier League delle culture anglofone, in cui queste ultime sembrano contendersi il trofeo della miglior letteratura in lingua inglese, mostra la sua straordinaria vitalità proprio a partire dalle differenti denominazioni di schemi, ruoli, zone del campo, tattiche, strategie e via scorrendo le voci dell’enciclopedia calcistica e le loro declinazioni “glo calizzate”.
Ne fanno fede, ad esempio, la miracolosa concentrazione di un’identità nazionale inclusiva che si respira in termini quali bafana bafana (entusiastico soprannome della nazionale sudafricana, traducibile come “Avanti, ragazzi!Avanti, ragazzi!”, interpretato spesso anche alla luce della forte inflessione comunitaria del concetto africano di ubuntu) o la fantasiosa intuizione personale
del giornalista Tony Horstead, al quale si deve la differente origine e vicenda del nomignolo dei Socceroos , evidentemente
modellato su kangaroo con immediato e costante successo, durante una serie di partite giocate dalla nazionale australiana nel Vietnam del Sud nel 1967.
Tanto fascinoso è l’intreccio tra pallone e parole che bisogna poi fare anche i conti con l’inesauribile cornucopia di citazioni
leggendarie che vengono catturate in rete e colà replicate senza posa e verifica.
Due, su tutte, meritano menzione in questa sede per il rilievo dei loro presunti autori e per l’efficacia di quanto comunque esprimono: «Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in novanta minuti», che la maggioranza dei citanti riferisce alla penna di George Bernard Shaw (o è del mitico allenatore Bob Paisley?), oppure «Il calcio è un elemento fondamentale della cultura
contemporanea», che a detta di molti sarebbe frutto della mente sapiente e sorprendente di Thomas S. Eliot! Alcune prosaiche e pignole verifiche incrociate negli scritti di entrambi i giganti letterari menzionati smentiscono tali monumentali paternità: ma chi scrive è prontissimo a ricredersi e attende con impazienza circostanziate e risolutive indicazioni bibliografiche.
È invece di paternità sicura l’idea che «è un segno distintivo di tutta la nostra epoca moderna che le masse sono mantenute quiete grazie alle battaglie. Lo sono, però, perché si tratta della simulazione di una battaglia; pertanto la maggioranza di noi sa ormai che il sistema dei partiti è stato popolare solo nel senso in cui è popolare un football match». Così Chesterton (nel sedicesimo
capitolo della Breve Storia dell’Inghilterra , 1917). Verrebbe da chiedergli: nel senso di partita di association football, il
calcio inglese, o di rugby football ? Accontentiamoci della lungimirante premonizione chestertoniana, ma, come si intuisce agevolmente, si tratta di differenza di non poco conto, anche sul piano delle implicazioni simboliche, nel quadro della cultura nazionale inglese.
Di autore altrettanto certo è anche uno splendido distico che conclude un testo poetico intitolato Dovessero splendere
lanterne, composto nel 1935: «La palla che lanciai giocando nel parco /Ancora non ha raggiunto il suolo». È tipica delle folgoranti corde creative del genio tumultuoso di Dylan Thomas (1914-1953), del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, questa capacità di combinare poeticamente esperienze antropologiche ed epistemologiche in apparenza incompatibili e spesso sbrigativamente indicate come “s u r re a l i - stiche”: passato e presente, terra e cielo, individuo e comunità, regola condivisa e libertà individuale, potenza e atto, intenzione e incoscienza, silenzio e parola. Fu una dote, questa, davvero caratteristica del poeta gallese, la cui totalizzante simultaneità non può non richiamare al lettore attento la “bellezza pezzata” del meraviglioso Gerard Manley Hopkins, suggerendo persino la necessità di una più attenta valutazione dell’influenza esercitata sulla poesia di Thomas —
che si definiva un “sacro fattore” — dal grande codice biblico, dalla sua frequentazione giovanile delle chiese gallesi, nonché da una sua attrazione incompiuta e tutta da sondare nei confronti della fede cattolica.
Profondamente radicato in Hopkins è, senza dubbio, anche il poeta irlandese Seamus Heaney, scomparso di recente, al quale si deve il conclusivo, ampio frammento calcistico (in senso gaelico, ahimé, ma chi lo cita si augura che bellezza e pertinenza possano giustificare la licenza): «Con quattro giacche a fare i quattro pali / marcammo il campo, e basta. Aree e corner / presenti come la-
titudine / e longitudine sotto gobbe e cardi, / da convenire o contestare solo /al bisogno. Poi scegliemmo le squadre /varcando la linea che l’appello / dei nomi tracciava tra di noi. / Ragazzi urlanti da squarciar la gola, / la luce muore e loro vanno avanti, / il gioco ormai si gioca nella testa; / la palla vera presa a calci arriva / pesante come in sogno; il fiato corto / nel buio, le scivolate sull’erba / hanno un suono di sforzo in altro mondo... / Era veloce e costante, un gioco / senza necessità di avere fine.
/ Un qualche limite era stato oltrepassato, / c’era rapidità, progresso e non fatica, / un tempo extra, libero e imprevisto”
(Marcamenti. I, traduzione di Gilberto Sacerdoti). Libero — come scrisse Joseph Ratzinger, in occasione dei Mondiali in Sudafrica nel 2010 — nel segno della «disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e l’intesa nell’obbedienza alla regola
Osservatore Romano mercoledì 18 giugno 2014

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