Saturday, July 05, 2014

La Rivelazione in prospettiva interculturale

La Rivelazione in prospettiva interculturale

Il concetto di Rivelazione in giapponese si esprime con il binomio di caratteri 啓示 keiji, che significano "apertura" e "manifestazione". "Apocalisse" invece viene tradotto con 黙示 mokushi, che si può rendere con "manifestazione di cose taciute". Entrambi le espressioni si possono considerare dei neologismi introdotti dal Cristianesimo. ​
Una cultura che importa concetti nuovi crea sempre un rapporto ambiguo con la cultura a cui fa riferimento. I concetti o i sistemi di pensiero "stranieri" sono raramente percepiti come una alterità minacciosa al momento della loro importazione. L'atteggiamento più frequente sembra essere quello di assimilare i nuovi concetti al già conosciuto, come se all'inizio non ci si interessasse che delle differenze più digeribili. Un' altra ragione, più profonda, spiega anche il lavoro di assimilazione (nel senso di rendere simile a sè o omogeneizzazione): l'assimilazione è già presente, a priori, nell'atto stesso della rappresentazione del diverso da sè e nelle scelte che orientano l'importazione.
​Si sa per esempio che durante i periodi Asuka e Nara, i giapponesi descrivevano il buddismo come una specie di shintoismo, anche se il principe Shôtoku ne aveva mostrata di fatto la radicale diversità. Rigetto e polemiche sono venute solo dopo che la nuova religione divenne un fattore nelle rivalità politiche interclaniche che accompagnarono la formazione dello stato. A questo stadio, il fatto di chiamare il Budda "tonariguni no kami" (il dio del paese vicino) mostra che il trasferimento avviene sotto il segno della assimilazione.



ROCHER Alain, La Trahison créatrice. Anatomie du transfer notionnel dans les cultures asiatiques, in : LE BLANC Ch-ROCHER A., Tradition et innovation en Chine et au Japon, Paris, POF et Montréal, PUM, 1996.
 

Il contesto in cui la novità della rivelazione cristiana viene a inserirsi, viene così descritto da F. Jullien:

"[P]rendiamo in considerazione una cultura che non si affida ad alcuna Rivelazione, ma la cui capacita' di integrazione e di accentramento ideologico e' talmente forte da spingerla a identificarsi con il centro del mondo e a considerare i propri valori pienamente imitabili ed esportabili senza limite alcuno. Sto parlando della Cina: una cultura che 'non si pone neanche' la questione della possibile universalita' dei propri valori. Ma potremmo anche considerare il caso della Cina insieme a quello del Giappone, cosi' da mettere in luce l'uno attraverso l'altro. Due casi opposti, e tuttavia in entrambi ci si dispensa dal porre la 'questione' dell'universale: in uno l'universalita' culturale risulta scontata, nell'altro incongrua. Il Giappone non vi presta attenzione poiche' si compiace della propria specificita' locale che rivendica facendo appello alla sua insularita', al suo clima, ai suoi terremoti, alle sue pianure strette tra le montagne e alle sue coste frastagliate (fudo/yamato, ecc): si considera una terra dal destino unico, distinta dalle altre e protetta dagli dei. Riluttante a intaccare il proprio sentimento di coesione interna, quando e' chiamata a riconoscere la propria dipendenza culturale dal suo imponenete vicino essa riscopre la sua coscienza identitaria attraverso un confronto continuo. Il Giappone, dal punto di vista dei suoi stessi abitanti, e' una cultura del singolare: la questione dell'universale la lascia indifferente.
La Cina invece, nel suo estendersi lungo grandi fiumi e vaste pianure, incontra le proprie province di frontiera ma non scorge mai veri e propri limiti al proprio impero (se non il mare). Sente a tal punto la propria cultura come globale da ritenere questa globalita' un dato di fatto naturale e da non avvertire la necessita' di un concetto di universale che la rivendichi. Lo spazio che assegna a se stessa e' tutto lo spazio che si estende "Sotto il cielo" (tian xia) e "dentro ai quattro mari", fino alle estremita' del globo; il potere del suo sovrano si estende sull'intero genere umano. Di lui viene detto che "Il Figlio del Cielo e' senza eguali", nessuno puo' essere messo sul suo stesso piano e "nessuno, tra i quattro mari, puo' riceverlo seguendo i riti dell'ospitalita'" poiche' tutto "sotto il cielo" e' "sua dimora" e "non v'e' per lui luogo esterno ove recarsi" (Xunzi, inizio del capitolo "Junzi"). Quindi, "qualunche siano le frontiere che attraversa e i paesi in cui va", "non si puo' dire che vi si rechi, poiche' egli e' ovunque a casa sua"...

F. Jullien, De l'universel de l'uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Fayard, Paris 2008, trad. it. L'universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010.

Gia' nella piu' antica raccolta di poesie cinesi, lo 'Shijing', si legge: "Universalmente sotto il cielo/ non vi e' nulla che non sia terra del Re" (溥天之下、莫非王土 Futen no moto, Oodo ni arazaru wa nashi). Cio' che qui traduciamo con "universale" ('Futen') significa "che non puo' incontrare limiti" o anche "infinitamente esteso": non aspira, in senso stretto, al dover essere, ma non immagina neanche delle restrizioni all'affermazione di se'. L'iperbole non esprime qui l'invocazione di una necessita', bensi il non-sospetto di una possibile alterita' (esteriorita'). Non affidando la propria legittimazione ad alcun verbo sacro - non rivendicando quindi alcun Messaggio, ne' richiamandosi ad alcuna grande Epopea - la Cina antica non percepisce se stessa come predestinata, ne' tantomeno come privilegiata: e' semplicemente l'unica civilta' da essa stessa (ri)conosciuta. Dal suo punto di vista, tutto cio' che la circonda semplicemente non ha ancora avuto accesso alla civilta', in quanto non e' ancora "sinizzato".

La genialità di Matteo Ricci sta appunto nell'aver evitato di farsi ingabbiare da questo contesto culturale e di essere riuscito a proporre in modo chiaramente comprensibile la novità della rivelazione cristiana. Come sappiamo dalla susseguente controversia dei riti, non è stata una operazione assolutamente pacifica, anzi. In tempi più vicini a noi, Nishida Kitaro, che alcuni considerano il maggior filosofo giapponese del XX secolo, così scrive:

"Il pensiero di un Dio (神) trascendente che domina il mondo da fuori, non solo si scontra con la nostra ragione, oltretutto non credo che sia la parte più profonda di questa religione. Quello da cui noi dobbiamo conoscere il volere divino sono solo le leggi della natura. Non esiste una rivelazione (天啓) che le oltrepassi. Naturalmente Dio e' incommensurabile, per cui quello che noi conosciamo rimane solo una parte. Ma anche se si ammettesse che ci sia un rivelazione, noi non potremmo conoscerla. Se poi ci fosse un rivelazione che contraddice questo, quella non mostrerebbe che la contraddizione di Dio".

L'opera completa di Nishida Kitarō è raccolta in: Nishida Kitarō Zenshū (Opere complete di Nishida Kitarō), 19 volumi, IV edizione (Tokyo, 1987–1989), vol. I, pp. 175-176, mia traduzione.  Cf. Zen no kenkyū (善の研究): Uno studio sul bene. Torino, Boringhieri, 2007.

Il francescano M. Heinrichs, che ha vissuto a lungo in Cina e Giappone, commentando questo passo mette in rilievo che qui Nishida fraintende la trascendenza di Dio. Sullo sfondo di queste sue parole si può riconoscere una mentalità buddista. Budda, infatti, non ha riconosciuto una rivelazione divina in senso stretto, e non ha aveva intenzione di diventare un mediatore di una tale rivelazione. Per Budda la cosa importante era la luce interiore, il "satori" che ognuno può sperimentare.

Heinrichs M., Katholisce Theologie und Asiatisches Denken, Verlag: Matthias Grünewald, Mainz, 1963.

Chiaramente in questa forma di pensiero non c'e spazio per una Incarnazione di Dio in senso cristiano. Al massimo si può parlare di Manifestazione, oppure di un Avatar nel senso delle scritture indiane. La concezione del mondo fenomenico in Oriente diventa inevitabilmente una forma di docetismo a cui vanno contrapposte le obiezioni che sono state portate contro il docetismo. Inoltre, in questa forma di pensiero non è possibile una Escatologia in senso proprio. Ne è una conferma il concetto di Terra Pura (Paradiso) nel buddismo Zen, che viene realizzato in questo mondo attraverso l'estasi con cui si ritrova l'unità con tutti gli esseri di questo mondo.


La teologia docetista dello specchio e la teoria della Illuminazione

Un moderno scrittore Zen scrive:

"La coscienza zen è paragonata a uno specchio. Lo specchio è senza io e senza mente. Se arriva un fiore riflette un fiore, se arriva un uccello riflette un uccello. Mostra bello un oggetto bello, brutto un oggetto brutto. Rivela ogni cosa com'è. Non ha una mente discriminante, né coscienza di sé. Se arriva qualcosa lo specchio lo riflette; se scompare, lo specchio lo lascia scomparire… e non rimane alcuna traccia.
Tale non - attaccamento – lo stato di assenza mentale, o la funzione veramente libera di uno specchio – è qui paragonato alla pura e lucida saggezza del Budda. (Zenkei Shibayama, On Zazen Wasan, Kyoto, 1967, p.28)"

La metafora dello specchio gioca un ruolo importante nel pensiero orientale. (Cf. la voce "specchio" nell'indice analitico di Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. I-II, Einaudi, Torino, 2000)
Questa metafora non necessariamente si concilia col pensiero biblico secondo cui tutte le creature sono uno specchio del Creatore. Secondo il pensiero biblico noi vediamo nello specchio delle creature le perfezioni di Dio e per essere rendiamo lode. Il Creatore viene riflesso dentro le creature.
Nel pensiero orientale invece lo specchio e' qualcosa di assoluto. Dentro lo specchio, come dentro un caleidoscopio, il mondo fenomenico viene visto come qualcosa che appare e scompare, lo specchio stesso non riceve nessuna influenza. Riceve le immagini ma non ne trattiene niente. L'essere delle cose non è fuori dallo specchio, le cose come immagini che esistono solo quando riflesse dallo specchio.
In termini moderni, si può pensare alla proiezione di un film durante il quale si presentano ai nostri occhi delle figure magiche che sembrano vive, ma che subito dopo spariscono e muoiono. L'unico a soffrire o a gioire veramente del dramma rappresentato e' lo spettatore. Le immagini in quanto tali non hanno propriamente nessuna consistenza nè materiale ne' spirituale, sono solo un'illusione ottica provocata dalla tecnologia.
Se sviluppassimo questa metafora fino a farne una metafisica, ci troveremmo di fronte a quella che è la vera concezione del mondo orientale. In termini teologici, poi, questa rappresenta una forma di docetismo. La Rivelazione sarebbe il film proiettato che suscita innumerevoli emozioni, ma è solo nella mente dell'ascoltatore.

Questa dottrina del cosiddetto Nulla assoluto (無 mu), oppure del Vuoto assoluto (空), ha due aspetti. 1) l'Assoluto non si può esprimere a parole, l'unica via per esprimerlo e' il silenzio.
2)l'essere umano per quanto si sforzi non può raggiungere un cuore retto capace di cogliere l'Assoluto. Sarebbe come pretendere di levigare un mattone perché diventi uno specchio. Tutte le attività di tipo intenzionale non fanno altro che rinchiuderci nel mondo fenomenico. L'unica via che rimane aperta e' quella di una illuminazione interiore (satori).

Questa concezione monistica dell'Assoluto che non pensa ma solo riflette il mondo, fa da pendant alla meditazione Zen, in cui il cuore diventa come uno specchio, abbandonando cioè il pensiero, così da realizzare l'unione mistica con l'Assoluto. Per certi versi si tratta di una mistica alla portata di tutti, se presentata con sufficiente fascino. E' questo credo che l'ha resa molto popolare in Occidente, anche perché non richiede conversione.

Lo stesso film e' stato proiettato anche dalla Scolastica

A dir la verità anche in Occidente qualcosa di simile alla metafora dello specchio, lo possiamo trovare, anche se ha caratteristiche diverse, nella metafora (ma sarebbe meglio parlare di analogia) della Luce. Anche S. Tommaso nella Contra Gentiles, per caratterizzare la differenza dell' essere assoluto di Dio e quello relativo del mondo, usa la metafora della luce solare. Con la differenza che la luce ricevuta dalle creature non arriva fino alla partecipazione totale (unio mistica) con l'Assoluto.
(Cf. anche S. Th. I, 104, 1)

Dopo aver cominciato il suo viaggio di purificazione dalla "selva oscura" ed aver superato anche il regno oltremondano dei Purgatorio, Dante arriva nel Paradiso per completare la sua redenzione e incontrare finalmente Dio, termine ultimo del suo cammino di fede.
Tutta la cantica, dunque, risente dell'inquietudine del poeta sempre teso verso l'Assoluto, fine e completamente della sua esperienza: la quasi spasmodica attesa si manifesta anche stilisticamente nelle terzine dei Paradiso, che non a caso inizia e termina con l'immagine di Dio. Prima ancora dell'io narrativo, infatti, compare "la gloria di colui che tutto move": solo in un secondo momento si inserisce con umiltà Dante, allo stesso tempo orgoglioso e trepidante per l'avventura mistica che è chiamato a svolgere. Dante e Dio, dunque, si presentano come estremi opposti: l'Uomo, cioè il Finito, il limitato, e Dio, cioè l'infinito e l'illimitato.
La dicotomia, che è presente in maniera molto forte nel canto iniziale e in quello conclusivo di quest'ultima tappa della Commedia, viene però alla fine risolta: non a caso questi due termini opposti si incontrano nelle ultime terzine, o forse sarebbe meglio dire che, poiché il legame spirituale c'è sempre stato, avviene nella conclusione un incontro fisico, per quanto si possa parlare di fisicità in questo contesto, e proprio sul tema dell'intimo rapporto che s'instaura fra Finito ed Infinito si basa la suggestione del Paradiso.
Penetrando sempre più con lo sguardo nella luce, Dante riesce a vedere tutto l'Universo, tutti i suoi elementi costitutivi uniti insieme in Dio, divenire una sola cosa: tutto ciò che discende da Dio, quindi, trova armonia ed unità solo in Dio, cioè solo in seno al suo Creatore, perciò a Finito può trovare quiete solo congiungendosi con l'Infinito.
Figura simbolo della dicotomia Finito-Infinito è certamente Cristo: la sua duplice Natura, umana e divina unisce il finito e l'infinito, l'Uomo e la Divinità.
Analogamente a Gesù Cristo, si presenta come emblema dell'apparente contrapposizione tra limitato e illimitato, vincolo e Assoluto, anche la Vergine Madre: Maria, infatti, è l'anello di congiunzione tra il sommo Creatore e le sue creature. Mentre Cristo rappresenta la dualità tra umano e divino, la Vergine rappresenta quella tra Fattore e fattura, ma allo stesso modo si inserisce nel discorso sul Finito e sull'infinito: come il Creatore, infinito, tende alla sua creatura perché le infonde il soffio vitale di cui si parla nel canto 1, così questa, finita, tende nuovamente a Dio per colmare la sua imperfezione.
La doppia natura materiale e immateriale sembra costante in questi canti, come dimostra ulteriormente un altro tema, il tema della luce. Niente più di essa esprime anche in campo fisico la dualità tra Finito ed Infinito, tra materia ed energia, tra materiale ed immateriale: essa è entrambe le cose, come Cristo era Uomo e Dio, come Maria era creatura e creatrice e inoltre è diretta emanazione di Dio per gli uomini e per l'Universo, quindi strumento di comunione tra questi due termini in apparente antitesi. Solamente grazie alla luce, che si presenta come unica parte visibile e percepibile dell'Ineffabile per eccedenza, cioè Dio, Dante riesce ad avvicinarcisi sempre di più; solamente volgendo in essa lo sguardo, invece di perdersi nella sua intensità, l'Uomo riesce a trovare la via da seguire.
Diversamente succede in altre produzioni letterarie che trattano lo stesso tema, la tensione tra Finito ed Infinito, come ad esempio nel Romanticismo. La caratteristica di Dante è quella di aver risolto il distacco in una fiducia nell'Uomo, riflesso della fiducia in Dio, dunque un Finito che trova il suo modo d'essere solo una volta congiunto all'Infinito: una contraddizione solo transitoria, che dura il tempo di una vita, ma ben presto sciolta nel regno ultramondano, a cui l'uomo medievale tende come saldo punto di riferimento. li Romantico, invece, non vedrà la possibilità di una risoluzione di questa antitesi che vive come scacco, come condizione esistenziale insanabile, in modo che la tensione tra Finito ed Infinito è vissuta come languore, come Sehnsucht che, nonostante il recupero di una forte religiosità cristiana durante questo periodo, non può essere quietato nemmeno dopo la morte.
Con Tommaso e con Dante diventa possibile una esperienza estetica realista o sacramentale e non docetista. Sottolineo che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell'esperienza nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare, produrre, pensare, concepire, organizzare.La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.
Bisognerebbe, per un momento, saper osare e metterci dal punto di vista di Dio: "Come faccio a comunicare me stesso a degli esseri che sono di carne, che sono materiali (e anche spirituali allo stesso tempo), quando io sono assolutamente diverso? Devo scegliere dei mezzi adeguati a come sono fatti loro". Se io ora mi mettessi a parlare improvvisamente in giapponese, probabilmente nessuno di voi capirebbe. Per capirci dobbiamo comunicare in italiano che è la lingua che ci accomuna. La stessa cosa vale per la vita di Dio che ci viene comunicata, quello che i Padri greci chiamavano le "energie divine" di Dio.

Lo stesso film e' stato proiettato anche dalla Scolastica

A dir la verità anche in Occidente qualcosa di simile alla metafora dello specchio, lo possiamo trovare, anche se ha caratteristiche diverse, nella metafora (ma sarebbe meglio parlare di analogia) della Luce. Anche S. Tommaso nella Contra Gentiles, per caratterizzare la differenza dell' essere assoluto di Dio e quello relativo del mondo, usa la metafora della luce solare. Con la differenza che la luce ricevuta dalle creature non arriva fino alla partecipazione totale (unio mistica) con l'Assoluto.
(Cf. anche S. Th. I, 104, 1)

Dopo aver cominciato il suo viaggio di purificazione dalla "selva oscura" ed aver superato anche il regno oltremondano dei Purgatorio, Dante arriva nel Paradiso per completare la sua redenzione e incontrare finalmente Dio, termine ultimo del suo cammino di fede.
Tutta la cantica, dunque, risente dell'inquietudine del poeta sempre teso verso l'Assoluto, fine e completamente della sua esperienza: la quasi spasmodica attesa si manifesta anche stilisticamente nelle terzine dei Paradiso, che non a caso inizia e termina con l'immagine di Dio. Prima ancora dell'io narrativo, infatti, compare "la gloria di colui che tutto move": solo in un secondo momento si inserisce con umiltà Dante, allo stesso tempo orgoglioso e trepidante per l'avventura mistica che è chiamato a svolgere. Dante e Dio, dunque, si presentano come estremi opposti: l'Uomo, cioè il Finito, il limitato, e Dio, cioè l'infinito e l'illimitato.
La dicotomia, che è presente in maniera molto forte nel canto iniziale e in quello conclusivo di quest'ultima tappa della Commedia, viene però alla fine risolta: non a caso questi due termini opposti si incontrano nelle ultime terzine, o forse sarebbe meglio dire che, poiché il legame spirituale c'è sempre stato, avviene nella conclusione un incontro fisico, per quanto si possa parlare di fisicità in questo contesto, e proprio sul tema dell'intimo rapporto che s'instaura fra Finito ed Infinito si basa la suggestione del Paradiso.
Penetrando sempre più con lo sguardo nella luce, Dante riesce a vedere tutto l'Universo, tutti i suoi elementi costitutivi uniti insieme in Dio, divenire una sola cosa: tutto ciò che discende da Dio, quindi, trova armonia ed unità solo in Dio, cioè solo in seno al suo Creatore, perciò a Finito può trovare quiete solo congiungendosi con l'Infinito.
Figura simbolo della dicotomia Finito-Infinito è certamente Cristo: la sua duplice Natura, umana e divina unisce il finito e l'infinito, l'Uomo e la Divinità.
Analogamente a Gesù Cristo, si presenta come emblema dell'apparente contrapposizione tra limitato e illimitato, vincolo e Assoluto, anche la Vergine Madre: Maria, infatti, è l'anello di congiunzione tra il sommo Creatore e le sue creature. Mentre Cristo rappresenta la dualità tra umano e divino, la Vergine rappresenta quella tra Fattore e fattura, ma allo stesso modo si inserisce nel discorso sul Finito e sull'infinito: come il Creatore, infinito, tende alla sua creatura perché le infonde il soffio vitale di cui si parla nel canto 1, così questa, finita, tende nuovamente a Dio per colmare la sua imperfezione.
La doppia natura materiale e immateriale sembra costante in questi canti, come dimostra ulteriormente un altro tema, il tema della luce. Niente più di essa esprime anche in campo fisico la dualità tra Finito ed Infinito, tra materia ed energia, tra materiale ed immateriale: essa è entrambe le cose, come Cristo era Uomo e Dio, come Maria era creatura e creatrice e inoltre è diretta emanazione di Dio per gli uomini e per l'Universo, quindi strumento di comunione tra questi due termini in apparente antitesi. Solamente grazie alla luce, che si presenta come unica parte visibile e percepibile dell'Ineffabile per eccedenza, cioè Dio, Dante riesce ad avvicinarcisi sempre di più; solamente volgendo in essa lo sguardo, invece di perdersi nella sua intensità, l'Uomo riesce a trovare la via da seguire.
Diversamente succede in altre produzioni letterarie che trattano lo stesso tema, la tensione tra Finito ed Infinito, come ad esempio nel Romanticismo. La caratteristica di Dante è quella di aver risolto il distacco in una fiducia nell'Uomo, riflesso della fiducia in Dio, dunque un Finito che trova il suo modo d'essere solo una volta congiunto all'Infinito: una contraddizione solo transitoria, che dura il tempo di una vita, ma ben presto sciolta nel regno ultramondano, a cui l'uomo medievale tende come saldo punto di riferimento. li Romantico, invece, non vedrà la possibilità di una risoluzione di questa antitesi che vive come scacco, come condizione esistenziale insanabile, in modo che la tensione tra Finito ed Infinito è vissuta come languore, come Sehnsucht che, nonostante il recupero di una forte religiosità cristiana durante questo periodo, non può essere quietato nemmeno dopo la morte.
Con Tommaso e con Dante diventa possibile una esperienza estetica realista o sacramentale e non docetista. Sottolineo che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell'esperienza nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare, produrre, pensare, concepire, organizzare.La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.

P. Sequeri, Il Dio affidabile, Queriniana, Brescia, 1996.

Bisognerebbe, per un momento, saper osare e metterci dal punto di vista di Dio: "Come faccio a comunicare me stesso a degli esseri che sono di carne, che sono materiali (e anche spirituali allo stesso tempo), quando io sono assolutamente diverso? Devo scegliere dei mezzi adeguati a come sono fatti loro". Se io ora mi mettessi a parlare improvvisamente in giapponese, probabilmente nessuno di voi capirebbe. Per capirci dobbiamo comunicare in italiano che è la lingua che ci accomuna. La stessa cosa vale per la vita di Dio che ci viene comunicata, quello che i Padri greci chiamavano le "energie divine" di Dio.

Rivelazione in prospettiva multiculturale. Conclusione

In maniera molto sommaria, diremo soltanto che l'unità relazionale tra razionalità e fede, alla quale S. Tommaso d'Aquino aveva dato una forma sistematica, è stata progressivamente sempre più lacerata attraverso le grandi tappe del pensiero moderno, da Cartesio a Vico a Kant, mentre la nuova sintesi tra ragione e fede tentata da Hegel non restituisce realmente alla fede la sua dignità razionale, ma tende piuttosto a convertirla completamente in ragione, eliminandola come fede.
Nishida ha tentato una sintesi tra Hegel e pensiero buddista. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come ha acutamente segnalato Von Balthasar: "visioni del mondo pre-cristiane e coscientemente post-cristiane possono essere strutturalmente simili, ma nella loro più profonda intenzionalità rimangono essenzialmente differenti, perché oggi il lievito del Cristianesimo è penetrato in tutta l'umanità. Per questa ragione, nel villaggio globale di oggi, è diventato molto difficile trovare qualcosa che sia semplicemente "pre-cristiano", perfino in visioni del mondo (in Asia per esempio) che apparentemente sono rimaste le stesse da tempi pre-cristiani. Molto spesso esse hanno assorbito elementi di Cristianesimo (o almeno biblici) per mostrare che non hanno bisogno del Cristianesimo per mantenere la loro pretesa di totalità" (H.U. Von Balthasar, Epilogue, Ignatius Press, San Francisco, 2004, p. 18, mia traduzione).
Il concetto chiave a cui oggi si ricorre è quello di incontro delle culture, o "interculturalità", differente sia dall'inculturazione, che sembra presupporre una fede culturalmente spoglia che si traspone in diverse culture religiosamente indifferenti, sia dalla multiculturalità, come semplice coesistenza – auspicabilmente pacifica – di culture tra loro diverse.

L'interculturalità "appartiene alla forma originaria del cristianesimo" e implica sia un atteggiamento positivo verso le altre culture, e verso le religioni che ne costituiscono l'anima, sia quell'opera di purificazione e quel "taglio coraggioso" che sono indispensabili per ogni cultura, se vuole davvero incontrare Cristo, e che diventano per essa "maturazione e risanamento"

J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003.

L' esigenza della sintesi nella interculturalità non e' forse anche la lezione più importante che Tommaso ci ha lasciato e che permane valida anche oggi nel dialogo con le tradizioni religiose dell'Oriente, ma anche per la nuova mentalità creata dalla scienza e dalla tecnologia.
"Thomam aufer, mutus fiet Aristoteles" (rimuovi Tommaso e Aristotele resterà muto) così diceva Antonio Cittadini (aristotelico del Rinascimento, corrispondente di Pico della Mirandola). La sintesi di Tommaso, magari messa a serio confronto con Hegel, ci può aiutare a riproporre con rinnovato vigore la peculiarità della Rivelazione cristiana. Christum aufer, mutus fiet mundus. Ma forse si può anche dire: Thomam aufer, muta fiet Ecclasia in mundo.





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