Sunday, July 20, 2014

Dante, come Tommaso Italo Mancini

Dante, come Tommaso, non è un metafisico della luce neoplato- nico, ma neppure un eclettico o un sincretista. Egli ha cercato e ha trovato una nuova sintesi della fede e della cultura, seguendo la scia tracciata dal Dottore angelico. Resta comunque una differenza eviden- te tra Tommaso e Dante: mentre il primo procede attraverso i rigorosi sillogismi della filosofia e della teologia, l'Alighieri ha offerto la sua grandiosa sintesi per via poetica. Se ne perde, è chiaro, in rigore spe- culativo, ma se ne guadagna in fascino.

Italo Mancini e la teologia dei doppi pensieri
Il Dio del frammento

di BRUNO FORTE
In una sorta di bilancio critico della propria vicenda di pensiero, scritto pochi anni prima della morte, don Italo Mancini presentava il suo contributo speculativo come una «teologia dei doppi pensieri»: questa formula „ in cui è dichia-rato il debito nei confronti di Dostoevskij „ testimonia dell'insonne ricerca, caratteristica della sua riflessione. La faticadella mediazione fra gli irriducibili „l'essere e il nulla, Dio e l'uomo, la ragione e la fede, il bene e il male „ ricevutaocome eredità e compito dal suo maestro Gustavo Bontadini, sfocia in Mancini
nell'accettazione sempre più consapevole della loro compresenza, in una sorta di
esplicita resa all'inseparabilità dell'uno dall'altro.
L'assunzione programmatica della logica dei doppi pensieri è in realtà il risultato del primato attribuito al «riconoscimento» dell'altro rispetto a ogni presunzione assoluta dell'io.
La «teologia dei doppi pensieri» rivela in Mancini anche un'altra genesi, quella
dell'incontro delle due grandi anime della sua impresa: l'anima greca e l'anima
ebraico-cristiana. Alla confluenza di queste due anime ispiratrici si pone la meditazione sull'etica e sul diritto, intesa come l'esercizio di una duplice e insieme unica fedeltà: «Se ho avuto un interesse per la storia e per la dottrina ermeneutica è stato quello che mi ha spinto a lavorare sulla filosofia della religione e sulla filosofia del diritto, una specie di doppia
fedeltà, la fedeltà a Dio e la fedeltà alla terra, quella che sposa il kèrygma alla radicale laicità e nella terra cerca «uno spazio per l' invocazione».
Nella complessità di questo itinerario,non stupisce che la dialettica della ricerca venga spinta fino al punto da giustificare incompiutezze e interruzioni, fino all'ultima, quasi necessaria, dell'opera postuma, il Frammento su Dio.
Mi aveva parlato di questo libro che amava: a esso teneva in modo singolare, vedendovi il denso compendio di ciò che la sua ricerca avrebbe potuto dire e donare agli altri. Don Italo aveva consegnato all'intimità del «diario questa convinzione: «Il Frammento su Dio mi ha
preso dentro» (8 giugno 1990) — «Lavoro al libro: ormai questa è tutta la mia attività» (3 ottobre 1992). La morte gli ha impedito di compiere l'opera, uscita nelle parti approntate e nell'unità del disegno grazie all'accurato lavoro di ricostruzione filologica e critica di Andrea
Aguti.
L'impronta frammentaria non sminuisce il valore del testo: si potrebbe anzi dire che essa corrisponde alla sua ispirazione più profonda e che perciò nulla toglie alla sua possente organicità: «Forse — scriveva Mancini nelle sue note — ho trovato il titolo del libro: Frammento su Dio; avevo pensato a Frammenti su Dio, ma dava il senso degli aforismi. Frammento è un discorso organico, ma incompleto».
Tema dell'opera è Dio e il suo significato per noi: questione filosofica nel senso più alto ed esigente. «La filosofia — afferma Gustavo Bontadini, il maestro di Mancini, in un testo da questi citato — si assomma nello sforzo di concepire il rapporto tra la Vita e l'Assoluto»: conoscere Dio è conoscere l'uomo. E lo è tanto più, quanto più naufrago, insicuro e nostalgico del senso perduto è quest'uomo, come lo è in questa stagione paradossale
di tramonto e d'aurora che è il tempo postmoderno.
Per questo, pur essendo vigorosamente speculativa, quest'opera è tutt'altro che astratta: essa parla di noi, protagonisti e vittime della crisi della modernità, figli di un Illuminismo incompiuto, ferito proprio nella sua pretesa di illuminare ogni cosa e di adeguare la realtà al progetto solare della ragione. Ecco perché uno dei capitoli fra i più decisivi del libro s'intitola significativamente «De profundis per la dialettica»: è un'intera stagione quella di cui si deve constatare la fine, «il portento dell'età moderna», la cui caratteristica è stata la «pretesa che la ragione nel suo uso dialettico ha rivendicato presentandosi quale scienza assoluta dell'intero». Quest'epoca è finita: l'ambizione di abbracciare il mondo e la vita nell'idea e di trasformarli di conseguenza è crollata sotto i colpi delle violenze immani che le realizzazioni storiche dell'ideologia — di destra e di sinistra — hanno prodotto. La totalità della visione
ideale si è convertita in totalitarismo: l'aver voluto mediare ogni cosa, riconducendola al progetto della ragione, ha finito col lasciare fuori come tragico scarto l'umanità reale. Ecco perché è urgente uscire dalle secche delle presunzioni
ideologiche, e aprirsi a un'altra logica, che rispetti la frammentarietà e la paradossalità della vita, senza rinunciare alla ricerca di un senso più profondo, di un più alto orizzonte.
Questa logica nuova e diversa rispetto alla dialettica, che ha governato i sistemi delle ideologie, non può venire dal pensiero di una trascendenza assoluta, tanto lontana da essere insignificante per noi, né viene dalla proposta di una trascendenza debole.
La critica di Heidegger all'ontoteologia e il suo invito all'ascolto, aperto al transitare dell'«ultimo Dio», sono l'approssimarsi filosofico più denso a una logica nuova e diversa, che
faccia spazio al sacro. È questa per Mancini «la logica dei doppi pensieri»: la formula esprime l'ambiguità costitutiva degli esseri umani in questo mondo, radicata in quel fondo dell'anima che soggiace come contrappunto a ogni sua affermazione, controcanto nascosto
che rende quanto mai fragile e incompiuta ogni pretesa di comprensione totale.
L'ambito in cui questa logica si esercita fino allo spasimo è quello della fede: è, in realtà, la «coesistenza di scienza e di passione infinita, che è poi la via mistica»
il vero rimando a una logica dei doppi pensieri. Ed è questo l'ambito in cui torna sensato parlare di Dio: non come del Deus mortuus che se ne sta solo e straniero nell'intangibile sua trascendenza, né come del Deus otiosus, esiliato dalla tecnica e dal pragmatismo che lo condannano all'inutilità, ma come il Dio della vita nella morte, della forza nella debolezza, della sapienza nella stoltezza agli occhi del mondo.
Fra caduta degli idoli ideologici e vuoto della rinuncia a sperare, questo Dio dei doppi pensieri è l'unico capace di parlare sensatamente al naufrago delle avventure della modernità: è, appunto, «l'ultimo Dio» nel puro e forte senso che Mancini mutua da Heidegger, andando oltre Heidegger.
È il Dio dell'infinita compassione, tragico nel suo abbandono in Croce, ma proprio per questo tale da donare dignità al frammento. È il Dio oltre il Dio della mediazione dialettica, che tutto concilia, e della rinuncia nichilista, che tutto abbandona al nulla. È il Dio del frammento, che redime l'istante assumendolo e oltrepassandolo.
E il Dio di una misteriosa bellezza, che si svela velandosi, e si concede ritraendosi al dono: qui la soglia raggiunta da Mancini nel suo pensiero più profondo schiude l'orizzonte forse più significativo per noi.
Ma è qui che egli si ferma: il Fra mmento su Dio riscopre sì il Dio del frammento, ma non riesce a delineare in questo paradosso — tutto cristiano e tutto filosofico — la rivelazione della bellezza, l'offrirsi del Tutto nel frammento, come forma e splendore che s'irradia dal profondo. Dove si ferma la parola interrotta dal silenzio della morte, lì rinasce la vita:
Mancini consegna il testimone a chi verrà dopo di lui.

Osservatore romano




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