というメッセージを持って生まれてくる…。
神がまだ人間に絶望してはいない
というメッセージをたずさえて生れて来る」
Tsurezuregusa ["Momenti d'ozio"] saggio in prosa di Yoshida Kenkô (1330). Consiste in una serie di 243 brevi sezioni (da poche righe a 1-2 pagine) che contengono ricordi, pagine di diario, riflessioni sulla condizione umana, considerazioni filosofiche, morali o estetiche. Primo e più famoso esempio di zuihitsu, è considerato un classico della letteratura giapponese ed è molto letto anche oggi.
17 novembre 2016
I continui progressi della scienza moderna rendono ancora più attuale il classico Insight. A Study of Human Understanding, nel quale Bernard Lonergan propose i parametri basilari per un’integrazione armoniosa di tutte le fonti del sapere umano. Eppure, durante tutto il corso dell’evoluzione della conoscenza umana, anche se non nel modo sistematico proposto dal gesuita canadese, vi è stata una dialettica, a volte costruttiva e a volte conflittuale, fra le nozioni scoperte dalla matematica, dalle scienze sperimentali e dalla filosofia. Una squisita dimostrazione di un’interdipendenza sinergica di questi linguaggi è offerta da Paolo Zellini che, dopo aver scritto un saggio nel 1999 (Gnonom - Una indagine sul numero), ha appena pubblicato l’ulteriore lavoro di approfondimento, La matematica degli dei e gli algoritmi degli uomini (Milano, Adelphi, 2016, pagine 258, euro 14). Il docente di analisi numerica all’università di Roma Tor Vergata, partendo dall’intuizione del filosofo pitagorico Filolao di Crotone — il numero «armonizzando tutte le cose con la percezione all’interno dell’anima, le rende conoscibili e fra loro commensurabili, secondo la natura dello gnomone» (essendo quella parte della meridiana la cui ombra proiettata sul quadrante indica l’ora solare; cfr. 44 B 11 Dk) — guida magistralmente i suoi lettori attraverso i meandri della storia della filosofia e della matematica, per illustrare come lo sviluppo di entrambe si sia mutualmente influenzato.
Una delle prove più antiche di questa relazione simbiotica si trova in un’appendice ai Veda — la raccolta di testi sacri dei popoli ariani che migrarono nel subcontinente indiano, 1800 anni prima dell’era cristiana — i Śulbasūtras, che definivano minuziosamente come si dovessero costruire e allargare gli altari destinati alla conservazione del fuoco sacro. Nel loro sforzo per garantire la conservazione delle principali caratteristiche geometriche degli altari di fuoco mentre ne effettuavano la trasformazione per usi vari, i matematici indoariani riuscirono a descrivere, con l’uso di semplici strumenti tali le aste o le funi (śulba significa corda, in sanscrito vedico), teoremi fondamentali come quello di Pitagora e permutazioni evolutissime, come quelle che permettono di convertire un cerchio in un quadrato della stessa area e viceversa.
Il linguaggio matematico, ovviamente, non è il solo ad avere avuto un rapporto sinergico con quello filosofico. In merito, va applaudita la decisione di La Morcelliana di rieditare una piccola perla di Grete Hermann (1901-1984), I fondamenti filosofici della fisica quantistica. In un breve articolo, la scienziata che nella sua tesi di laurea aveva postulato l’esistenza di algoritmi capaci di risolvere i problemi fondamentali dell’algebra astratta, rilevò le chiarissime affinità fra il principio di indeterminazione di Heisenberg — che stabilisce che a livello quantistico sia impossibile conoscere simultaneamente i valori di grandezze fisiche coniugate quali lo spazio e il tempo — con il principio di causalità e il criticismo kantiano.
Sarebbe comunque esagerato considerare come contributo al dialogo fra scienza e filosofia, la mera espressione, pur se legittima, di convincimenti personali su materie filosofiche da parte di scienziati, per quanto celebri siano. Si pensi alla Religione Cosmica dal sapore panteistico spinoziano — appena ripubblicata con un’ottima postfazione dei ricercatori Giannetto e Taschini sempre da La Morcelliana — avanzata da Albert Einstein nel contesto di una conversazione intavolata con il poeta Rabrindanath Tagore. Il dialogo fra i linguaggi richiede che delle realtà, concrete o astratte ma comunque correlate, siano analizzate per mezzo di discipline indipendenti, al fine di ricavarne significati diversi che si possano confrontare fra loro.
Un ottimo esempio di questo tipo di dialettica è fornito dal piacevolissimo libro, appena edito da Il Mulino: Zerologia. Sullo zero, il vuoto e il nulla. In esso, il matematico Claudio Bartocci riflette sul numero zero, il fisico Piero Martin sul vuoto e il filosofo Andrea Tagliapietre sul nulla.
Dai loro contributi nasce la zerologia che, da un punto di vista matematico, risponde alle speculazioni di J.W. Richard Dedekin — autore dell’influentissimo articolo del 1888: Was sind und was sollen die Zahlen? (“Cosa sono e cosa dovrebbero essere i numeri?”), che non considerava lo zero un numero naturale ma una creazione derivante da operazioni come la sottrazione — da un punto di vista fisico, spiega come mai the vacuum is not empty (il “vuoto” non è “vuoto”) — in quanto innumerevoli forze sono all’opera nel vuoto fisico come quelle che permettono l’immagazzinamento dell’energia solare nelle cellule fotovoltaiche — e da un punto di vista filosofico, chiarisce perché Immanuel Kant — distinguendo il nihil privativum repræsentabile (“la mancanza di una cosa”) dal nihil privativum irrepræsentabile (“la pura nozione di alterità rispetto all’essere”) — abbia confermato che la filosofia occidentale ricade, sin dai tempi di Parmenide («L’essere è, il nulla non è»; fr. 6 1-2), nel paradosso di definire il nulla in funzione dell’essere.
di Carlo Maria Polvani
rén suàn bù rú tiān suàn
人算は天算に如かず
〈諺〉人の考えは天の考えには敵わない
〈備考〉
(「運命には逆らえない」、「世の中そんなに甘くない」、「世の中何が起こるかわからない」、等)
(「成るようにしかならない」、「神のみぞ知る」、等)
〈修正歓迎〉
La via pulchritudinis: limiti e stimoli di una spiritualità estetica |
Pierangelo Sequeri |
1. L’estetica cristiana dei sensi spirituali È vero che per il cristianesimo non esiste una bellezza mondana capace di offrirci libertà dal male e vita eterna. Ma la fede evangelica non si sogna neppure di abbandonare il mondo all’alternativa della bellezza e della salvezza. Nella teologia, come nella spiritualità e nella cultura cristiana, la via della bellezza è stata incessantemente percorsa con sincera partecipazione religiosa e decisivo impulso culturale. Da sant’Agostino a Fénelon, da san Tommaso a Maritain, da san Francesco a von Balthasar. La nuova alleanza fra i doni dello Spirito creatore e i segni della bellezza creata riaprono il futuro per la qualità umana della fede e lo stile evangelico della testimonianza[1]. La bellezza appare, certamente, allo sguardo della fede, nel segno di una verità della creazione che precede l’avvilimento dell’umano. E resiste, indomabilmente, alla sua nichilistica deriva. Non allude semplicemente al suo originario legame con la bontàdell’opera di Dio, che si compiace della propria invenzione. La bellezza evoca il riflesso di una giustizia originaria della creazione che lascia balenare il sentimento di una felice corrispondenza della sua destinazione. Nel fascino che ne promana, la bellezza prefigura la restituzione della creazione al suo senso. E rende amabile l’intenzione di Dio che volle destinare l’uomo alla dignità di un’esistenza propria: a immagine e somiglianza di Lui. Il sentimento della bellezza trafigge ogni volta l’acerba contraddizione del mondo abitato con l’immemoriale bagliore della Parola creatrice. La perdurante risonanza di quell’impulso può essere oscurata, ma non estinta. Le potenze ostili, evocate dall’incredulità dell’uomo, possono congiunturalmente ridurla al silenzio: non mai privarla della sua risurrezione. La verità della bellezza, tuttavia, non abita pacificamente l’umana edificazione del mondo. Dirottata dalla sua profezia, distratta dalla sua memoria, essa vive anche come apparenza della giustizia e come illusione del bene. Diventa persino la giustificazione seducente dell’incredulità: nell’ebbrezza di un’esistenza finita che basta a se stessa; in guisa di argumentum apparentium rerum che nobilita – persino – la dissipazione di ogni dono dello Spirito. Piegata al dominio delle potenze che traggono l’uomo in schiavitù, la passione della bellezza incoraggia anche la voracità di un appagamento distruttivo, alimenta l’invidia mortale della grazia altrui. L’ossessione della bellezza presuntivamente spirituale, induce pur essa il rischio di una tragica anestesia nei confronti del dolore del mondo. Diviene principio di mera autoedificazione, che si separa da ogni vincolo compassionevole dell’umano; e nella sua pretesa illuminazione, che aspira ad un’esistenza incontaminata, rimane indifferente all’avvilimento della terra. In entrambi gli eccessi la bellezza si separa dalla speranza dell’uomo. E infine, da ogni giustizia della creazione. La spiritualizzazione della natura, e l’estetizzazione del sentire, che oggi annunciano la «nuova età» della gnosi ecologico-terapeutica, esprimono certamente un’esigenza vitale. Una vera e propria invocazione, di cui non si sospettava la forza arcaica nelle masse civilizzate del pianeta. Ma l’estetica e la religione che danno rappresentazione e parola a questa urgenza dell’anima rimangono pur sempre – come un tempo – suggestivamente e drammaticamente inappropriate. Esse sono, in troppi casi, mistica di complemento e compensazione programmata per l’egemonia di una sfera sostanzialmente economica del godimento. La deriva mercantile dell’esistenza ha bisogno di un ecumenismo anesteticodel comune sentire per rendere sopportabile l’ingegneria cosmetica che provvede alla produzione di una nuova specie umana, perfettamente adatta al ciclo dei consumi. La sfida mette di nuovo alla prova la dimostrazione evangelica dello Spirito e della forza. La battaglia che una volta fu vinta – contro ogni probabilità culturale, già allora! – per l’istituzione della verità cristiana essenziale, deve ora essere combattuta e vinta per la restituzione di un costume, di una persuasione, di uno stile, di una sensibilità e di un sentire interiore corrispondente. In una parola, per la definitiva saldatura della verità cristiana con gli umani affetti. Quella stessa che essa vide risplendere di incomparabile bellezza divina nei tratti umani del Salvatore. Da dove prenderemo forza, altrimenti, per riaffezionarci all’umana dimostrazione dello Spirito di Dio? Per questa via, tutti gli uomini sono sollecitati a quell’arcana nostalgia di Dio cantata da sant’Agostino con accenti ineguagliabili: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato». Per grazia di Dio, non è mai troppo tardi per ritrovare lo slancio di questa scoperta. Le opere umane della bellezza aprono il varco irrimarginabile di un appagamento per il quale esse non bastano: e invitano a proiettarsi più audacemente verso la Bellezza del mistero di Dio che indica all’uomo spirituale la vera destinazione della sua attrattiva. Ne viene infine, per tutti i credenti, un forte impulso a riscoprire e a far riscoprire il lato bello di Dio. La testimonianza è possibile soltanto al prezzo di una profonda assimilazione di nuovi sensi spirituali, capaci di formare l’uomo e la donna credenti al discernimento dell’immagine del Figlio e dei doni dello Spirito nell’odierna condizione umana. L’esperienza della bellezza – sin dal seno materno – apre un varco irrimarginabile per l’oltrepassamento della mera necessità di conservazione dell’organismo vivente, rivelando la più forte attrazione del desiderio di progresso spirituale che nutre l’anima e la mente. Ad esso mai ci concederemmo, con tanto slancio e in nome della vita stessa, se l’apertura della bellezza che ci muove all’azzardo creativo dell’immaginazione non ci affezionasse con forza più irresistibile della ripetizione realistica dell’utile e del noto. L’esperienza della bellezza conferisce un valore inconfondibile, privo di scambio equivalente, al mondo della libertà – volontà e conoscenza – che decide la qualità in cui ci riconosciamo. La speciale sensibilità destata dalla bellezza sfida la rassicurante ripetizione dei nessi causali del mondo e della vita, investendo la dignità dell’umano nell’eccedenza di un senso affettivo dei legami in cui realmente ne va di noi. L’apprezzamento di questi legami, che si esalta nell’umana esperienza della bellezza, è irriducibile alla giustezza dei rapporti calcolabili fra gli enti e gli eventi del mondo. E persino alla equivalenza dello scambio fra i beni disponibili. Questa estetica degli affetti istituisce il fondamento irrinunciabile della ostinazione (o piuttosto della fede?), tipicamente umana, che rimane attaccata alla giustizia che dovrebbe essere: in cielo, in terra e in ogni luogo. Essa infatti si accende e si riaccende – nell’immaginazione della bellezza che è propria di tutti i legami degni dell’uomo. Ultimamente, la bellezza dell’ordine di agape: al quale non dispera di ricondurre anche eros e nomos. 2. Il principio antignostico della bellezza Nel delicato equilibrio della sua universale attitudine ad aprire un varco altrimenti inconcepibile per il senso della giustizia e per la metafisica degli affetti – vere e proprie invarianti del sapere originario della coscienza – l’esperienza della bellezza è sempre come una promessa. Il pensiero della civiltà alla quale apparteniamo, nella quale il cristianesimo ha impiantato il seme della novità evangelica e nutrito l’albero di una secolare cultura, l’aveva riconosciuta sin dall’inizio della sua straordinaria avventura. Riscattando l’immaginazione estetica del divino dal levigato manierismo umanistico dell’antica religione civile, aveva riaperto il pensiero della bellezza al fascinans e al tremendum della sua origine sacra, riportandola audacemente alla rivelazione del logos della verità trascendente (Parmenide) e ai misteriosi legami in cui risuona l’analogia del bene ineffabile (Platone). Nell’alveo di questa tradizione, per altro, la riconquista dell’esclusivo legame della bellezza e del divino veniva posta a carico di una dimensione spirituale contigua all’intelligibile: il suo riscatto si disegnava precisamente sul filo dell’opposizione al sensibile. L’ipoteca posta da questa scansione non poteva evitare di giungere a maturazione nel divorzio fra l’esperienza sensibile della bellezza e la ricerca spirituale della sua origine incontaminata. La riconquista dell’originario legame della bellezza col divino rimaneva così posta sotto il segno di un riscatto dal suo degrado nel sensibile, più che un del riscatto del sensibile dal suo degrado. La cultura del cristianesimo statu nascenti si trovò di fronte all’antinomia di questaesaltazione della bellezza che salva, di cui fu costretto ad apprezzare il contrasto proprio quando fu tentato dalla sua pura e semplice omologazione. Il fenomeno grandioso e insidiosissimo del cristianesimo gnostico rappresentò l’esperimento del seducente innesto del germoglio evangelico sull’albero frondoso della più alta spiritualità religiosa e filosofica allora conosciuta. La qualità e la novità cristiana furono messe in salvo dalla passione di un’ortodossia che percepì lucidamente il prezzo drammatico di una spiritualità di una bellezza divina (Logose Pneuma) che salverebbe solo nella condizione dell’abbandono del mondo al suo destino di creatura irrimediabilmente degradata e perduta. L’allarme fu suonato – inequivocabilmente – all’evidenza ormai esplicita delle conseguenze che scaturivano dall’applicazione di quel principio presuntivamente più spirituale: cioè la denuncia della creazione (in nome dello Pneuma di Dio!) e lo svuotamento dell’incarnazione (in nome del Logos di Dio!). Il carattere frontale dell’attacco che la gnosi portava ai pilastri della veritas biblica e della traditio apostolica rese apprezzabile anche l’ambiguità di una dottrina spirituale, presuntivamente superiore, della bellezza che salva. Senza la provocazione di questa felix culpa, la cultura del cristianesimo avrebbe perduto il suo originale impulso: anche nell’ordine dei rapporti fra l’immaginazione creativa e le radici spirituali della bellezza. E’ proprio in occasione di quella sfida, infatti, che la tradizione ecclesiale trovò l’audacia di sollecitare il suo principio creazionistico e cristologico al limite di formule che contengono insieme l’azzardo dello scandalo necessario alla qualità storica della bellezza divina che si rivela salvatrice: gloria Dei vivens homo (Ireneo), caro cardo salutis (Tertulliano). 3. La svolta cristologica dell’immagine Il principio di un’icona realistica del Logos, che è la carne del Figlio – forma hominisconcepita in grembo di donna e forza dello Spirito – si insedia così nel pensiero stesso dell’imago Dei. Non nega il sacrosanto divieto della sua raffigurazione sostitutiva e del suo adattamento idolatrico. Piuttosto lo trascende, inverandolo, nella sacra rappresentazione cristologica dell’umanità di Dio: che forma il canone nel canone di ogni umana rappresentazione sacra. L’umanità di Dio nel Figlio Gesù non è condiscendenza accessoria: è pleroma autentico. E’ l’originale di ogni icona, la quale vi riflette la sua pallida evocazione dell’unica configurazione e trasfigurazione legittima dell’invisibile abbà-Dio. Il legame con il doloroso concepimento della nuova creazione, conforme e trasformata ad immagine del Figlio, di cui parla la splendida invenzione paolina dell’estetica teologale – dalla dottrina del vetro oscuro a quella dei sensi spirituali, dall’inno della kenosis (Fil 2) al poema della kainé ktisis (Rom 8) – salda compiutamente la teologia cristiana della bellezza spirituale con l’antica rivelazione biblica della creazione di Dio e della promessa che la riguarda. Rivelazione ancorata storicamente a quella stessa fede, mai abrogata. Promessa escatologica di cui rimane in vigore la speranza di una nuova terra, mai revocata. La vicenda dell’arte, nell’Oriente come nell’Occidente cristiano, è profondamente segnata dalla forza di questo legame. L’altezza della sua pretesa oggettivamente teologale, il livello della sua integrazione con la cultura spirituale dell’umano, sarebbero impensabili senza l’ortodossia cristologica che ha ribaltato, assorbendolo, il percorso della spiritualità antica. Lo voglia o no, lo sappia o no, l’amplificazione estetica della ricerca della verità della creazione e del confronto sulla sua giustizia, lotta sempre con l’Angelo per ristabilire il legame fra ciò che Dio ha unito e la cultura dell’uomo divide: lo spirituale e il sensibile, il cielo e la terra, la sapienza e il godimento. La scommessa intorno alla originaria verità di quel legame è sempre in bilico fra la passione creatrice di un’evidenza perduta e il furore distruttivo dei suoi illusori assestamenti. Nella sua ricerca della bellezza, l’arte post-cristiana dell’Oriente e dell’Occidente è indirizzata – coscientemente, incoscientemente – dal canone di una verità cristologica: è proprio questo che tiene alto e perennemente in tensione il livello della sfida. Si tratta di non cedere all’evidenza seducente della separazione, finendo per riconciliarsi con la scelta alternativa che essa impone: dai due lati. Quello di una bellezza virtuosa e perciò insensibile: sprezzante di ogni affetto, però spirituale. E quello di una bellezza mondana e perciò seducente: vuota di ogni metafisica, ma almeno godibile. Lotta improbabile, se mai ce n’è stata una. Eppure, l’arte autentica riconosce sempre da sé stessa, infine, di fallire la sua destinazione quando elude la sfida, contentandosi di abbellire alternativamente i due eccessi. Nello spazio ospitale dell’opera estetica, dentro il quale l’uomo sperimenta le possibilità di un’eccedenza spirituale del desiderio e di una condensazione corporale dello spirito, devono pur anche trovare il loro posto l’ingiustizia del dolore subìto e la contraddizione del male voluto. Entrambe appartengono all’esperienza dei sensi spirituali dell’uomo. L’arte invoca la bellezza per elaborare il dolore; e modula lo splendore di quella, quando si concede, senza perdere la memoria di questo. L’arte non può dunque evitare, nella tenacia di questa lotta, la soglia pericolosa e necessaria di quel legame originario della bellezza e del bene, che chiama in causa la fede di Adamo nell’intenzione che presiede la creazione del mondo. Il riconoscimento della necessità di questa decisione, già affidata alla libertà di Abramo, si accende ogni volta che l’immaginazione estetica raccoglie e risuscita, nel suo stesso azzardo mondano, l’inevitabile apertura spirituale della domanda intorno alla giustizia di ogni essere proprio così o forse del tutto altrimenti. Né, del resto, è necessario evitare quella soglia rischiosa, che mette capo all’azzardo di un nuovo inizio. La protesta che l’uomo disperato eleva contro «Dio», così come la lotta con «l’Angelo» per strappargli la sua benedizione, sono già ugualmente comprese nella tradizione della sapienza biblica e dell’evangelo cristiano[2]. Esse vivono insieme nel grembo della pietas Dei erga hominem. Gesù abbandonato e Gesù ritrovato – il Signore crocifisso e risorto – sono la verità dell’icona di entrambi. Fino a che Egli venga. E la nuova città dell’uomo, la celeste Gerusalemme che cancella Babele per sempre, insieme con Lui. Pierangelo Sequeri Sommario La meditazione sviluppa essenzialmente tre linee di riflessione intorno alle potenzialità della nuova via pulchritudinis che la spiritualità cristiana deve percorrere. La prima mette a fuoco l’ambivalenza della bellezza: essa infatti può essere indirizzata alla memoria del progetto divino sulla creazione, ma anche venir piegata all’arredamento di un mondo artificioso ed illusorio. La tradizionale teologia metafisica della bellezza deve integrare un’estetica teologale dei sensi spirituali. Un secondo momento, sottolinea l’importanza di portare a maturazione il principio antignostico dell’antica ortodossia cristiana, mediante l’ortoprassi di una spiritualità effettivamente conseguente. Un terzo aspetto, infine, riguarda la necessità di incoraggiare l’arte alla ricerca di un’estetica cristologica della trasfigurazione: capace di integrare la memoria della passione del Figlio senza concedersi alla manieristica deriva della morte di Dio. |
We do not want joy and anger to neutralize each other and produce a surly contentment; we want a fiercer delight and a fiercer discontent. We have to feel the universe at once as an ogre's castle, to be stormed, and yet as our own cottage, to which we can return to at evening.
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Method, 96-97
Descartes
The "ghost in the machine" is British philosopher Gilbert Ryle's description of René Descartes' mind-body dualism. The phrase was introduced in Ryle's book The Concept of Mind (1949)[1] to highlight the perceived absurdity of dualist systems like Descartes' where mental activity carries on in parallel to physical action, but where their means of interaction are unknown or, at best, speculative.
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Spinoza thinks that there are an infinite number of attributes, but there are two attributes for which Spinoza thinks we can have knowledge. Namely, thought and extension.[16]
神が唯一の実体である以上、精神も身体も、唯一の実体である神における二つの異なる属性(神の本質を構成すると我々から考えられる一側面)としての思惟と延長とに他ならない。また、神の本性は絶対に無限であるため、無限に多くの属性を抱える。この場合、所産的自然としての諸々のもの(有限者、あるいは個物)は全て、能産的自然としての神なくしては在りかつ考えられることのできないものであり、神の変状ないし神のある属性における様態であるということになる[10]。
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アプリオリとは、経験的認識に先立つ先天的、自明的な認識や概念。カントおよび新カント学派の用法。ラテン語のa prioriに由来する。日本語では、「先験的」「先天的」「超越的」などと訳される。
カントによれば、時間および空間はアプリオリな概念である。なぜならこの2つは、あらゆる経験的認識に先立って認識されている概念だからである。
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能力心理学. faculty psychology
人間についていくつかの能力を想定し,それら能力の活動ないし相互作用により心的現象を説明しようとする学説。 18世紀前半 C.ウォルフにより体系化された。彼は能力をまず認識能力と欲望能力に2大別し,これらをまた細分して感覚,想像,記憶,注意,快・不快,意志などの能力をあげた。
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英語のことわざa rising tide lifts all boatsの意味や和訳。 《上げ潮は船をみな持ち上げる》
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イソクラテス(イソクラテース, ギリシャ語:Ισοκράτης, Isocrates, 紀元前436年 - 紀元前338年)は、古代ギリシアの修辞学者で、アッティカ十大雄弁家の一人。イソクラテスは当時のギリシアで最も影響力のある修辞学者で、その授業や著作を通して修辞学と教育に多大な貢献をしたと考えられている。
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メナンドロス(古代ギリシア語: Μένανδρος / Menandros、紀元前342年 - 紀元前292年/291年)は、古代ギリシア(ヘレニズム期)の喜劇作家。ギリシア喜劇 (Ancient Greek comedy) のうち、「新喜劇」(アッティカ新喜劇(Attic new comedy) あるいは アテナイ新喜劇(Athenian new comedy))と呼ばれる作品群の代表的な作者である。
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ティトゥス・マッキウス・プラウトゥス(ラテン語: Titus Maccius Plautus, 紀元前254年 – 紀元前184年)は、古代ローマの劇作家。
彼の喜劇は最初期のラテン文学に影響を残している。彼はまた最初期の演劇家でもある。エンターテイメントに飢えた観衆の必要を満たすため、駄洒落、名前に登場人物の性格をありありと反映させるなどの言葉遊びを多用した。主に言語の面白さによって観衆をひきつける必要から、物語全体の説得力は他の作家に道を譲るといわれる。
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プブリウス・テレンティウス・アフェル(Publius Terentius Afer, 英語:Terence, 紀元前195年/紀元前185年 - 紀元前159年)は共和制ローマの劇作家。テレンティウスの喜劇が最初に上演されたのは紀元前170年から紀元前160年頃である。若くして亡くなったが、その場所はおそらくギリシャ、もしくはローマへ戻る途上だろうと言われている。
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叙事詩 じょじし. 詩の韻文形式
叙事詩とは、物事、出来事を記述する形の韻文であり、ある程度の長さを持つものである。一般的には民族の英雄や神話、民族の歴史として語り伝える価値のある事件を出来事の物語として語り伝えるものをさす。源氏物語
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叙情詩
竪琴たてごと(lyre)の;竪琴用の,竪琴の伴奏で歌う
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宇宙進化論(Cosmogony)は、存在の起源、宇宙の起源、現実の起源に関する理論である。語源はギリシア語で、「宇宙、世界」を意味する κοσμογονίαと「生まれる、起こる」を意味するγέγοναである。宇宙科学や天文学の文脈では、この用語は太陽系の形成を意味することが多い。古事記
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エンペドクレス(Empedocles、紀元前490年頃 – 紀元前430年頃)は、古代ギリシアの自然哲学者、医者、詩人、政治家。アクラガス(現イタリアのアグリジェント)の出身。四元素説を唱えた。弁論術の祖とされる。名家の出身で、彼の祖父は紀元前496年に行われたオリンピア競技(競馬)で優勝した。彼自身も優勝したことがあるようだ。ピュタゴラス学派に学びパルメニデスの教えを受けたとされる。