Saturday, January 23, 2010

Perche' la venuta di Gesu' non e' in ritardo

Chiesa e secolarizzazione (Il Regno-attualita, dic. 2009)

La vocazione
messianica


indirizzo di saluto di uno dei testi più antichi della Tradizione ecclesiale, la
Lettera ai Corinzi di Clemente, comincia con queste parole: «La Chiesa
di Dio che si trova a Roma alla Chiesa di Dio che si trova a Corinto». La
parola greca paroikousa, (tradotta nell’originale francese «en séjour», letteralmente «in soggiorno», e resa nella versione corrente italiana con «che si trova»; ndt) indica il soggiorno dell’esilio, del colono o dello straniero, in contrapposizione al dimorare del cittadino, che si dice in greco katoikein. Paroikein, vivere in esilio, definisce sia l’abitare del cristiano nel mondo sia la sua esperienza del tempo messianico.
È un termine tecnico, o quasi tecnico, poiché la Prima lettera di Pietro (1,17) chiama il tempo della Chiesa ho chronos tes paroikias: il tempo della parrocchia, si potrebbe
tradurre, purché ci si ricordi che parrocchia qui significa «soggiorno da straniero».
Il termine «soggiorno» non dice nulla riguardo alla durata cronologica. Il soggiorno della Chiesa sulla terra può durare – e di fatto è durato – secoli e millenni, senza
che ciò cambi alcunché della speciale natura della sua esperienza messianica del tempo. Ci tengo a sottolineare ciò, contro un’opinione spesso ripresa dai teologi, a riguardo
del preteso «ritardo della parusia». Secondo questa opinione, che mi è sempre sembrata quasi blasfema, quando la comunità cristiana delle origini, che attendeva
il ritorno del Messia e la fine dei tempi considerandoli imminenti, si è resa conto che vi era un ritardo di cui non si vedeva la fine, avrebbe allora cambiato
orientamento per darsi un’organizzazione istituzionale e giuridica stabile. Ossia avrebbe smesso di essere paroikein, di soggiornare da straniero, e si sarebbe disposta a katoikein, a dimorare da cittadino, come tutte le altre istituzioni di questo mondo.

L’esperienza del tempo messianico

Se fosse vero, ciò implicherebbe che la Chiesa avrebbe perduto l’esperienza del tempo messianico che le è consustanziale. Il tempo del Messia, come vedremo, non è un periodo cronologico, ma innanzitutto una trasformazione
qualitativa del tempo vissuto. E in questo tempo qualcosa come un ritardo cronologico – come si dice di un treno che è in ritardo – non è nemmeno concepibile.
Esattamente come l’esperienza del tempo messianico è tale per cui è impossibile dimorarvi, così qualcosa come un ritardo non si può produrre. È ciò che Paolo ricorda
ai tessalonicesi: «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore viene come un ladro
di notte» (1Ts 5,1-2). «Venire (erchetai)» è al presente, proprio come il Messia è chiamato nei Vangeli ho erchomenos, colui che viene, che non cessa di venire. Un filosofo
del XX secolo, che aveva ascoltato la lezione di Paolo, lo ripete a suo modo: «Ogni istante è la porta stretta attraverso la quale può passare il Messia» (W. Benjamin).
È dunque della struttura di questo tempo, che è il tempo del Messia come lo descrive Paolo, che vorrei trattare. Un primo malinteso che occorre evitare a questo
riguardo è quello di confondere il tempo e il messaggio messianici con il tempo e il messaggio apocalittici.
L’apocalittica si situa nell’ultimo giorno, il giorno della collera: vede la fine dei tempi e descrive ciò che vede. Il tempo che vide l’Apostolo, al contrario, non è la fine dei tempi. Se si volesse esprimere con una formula la differenza
fra il messianico e l’apocalittico, si dovrebbe dire
che il messianico non è la fine dei tempi, ma il tempo
della fine. Messianico non è la fine dei tempi, ma la relazione
di ogni istante, di ogni kairos, con la fine dei tempi
e con l’eternità. Così ciò che interessa Paolo non è
l’ultimo giorno, l’istante nel quale il tempo finisce, ma il
tempo che si contrae e che comincia a finire. O, se si preferisce,
il tempo che resta fra il tempo e la sua fine.

Una trasformazione radicale dell’esistenza

La Tradizione giudaica conosceva la distinzione tra due tempi o due mondi: l’olam hazzeh, ossia il tempo che va dalla creazione del mondo sino alla sua fine, e l’olam
habba, il tempo che viene dopo la fine del mondo. Questi due termini, nella loro traduzione greca, sono presenti nel testo delle epistole: ma il tempo messianico, il tempo che l’Apostolo visse e il solo che gli interessa, non è né l’olam hazzeh né l’olam habba: è il tempo che resta fra questi due tempi, quando si verifica nel tempo la cesura dell’avvenimento messianico (il quale, per Paolo, è la risurrezione).
Come possiamo rappresentarci questo tempo? In apparenza, se lo si trasferisce come si fa in geometria con un segmento su una linea, la definizione che ho dato ora
– il tempo che resta fra la risurrezione e la fine del tempo
– non pone difficoltà. Ma è tutt’altra cosa se lo si cerca
di pensare sul piano dell’esperienza del tempo che
questo implica. Va da sé infatti che vivere nel «tempo
che resta» o vivere il «tempo della fine» non possono che
significare una trasformazione radicale dell’esperienza e
anche della rappresentazione abituali del tempo. Non è
più la linea omogenea e infinita del tempo cronologico
profano (rappresentabile ma vuoto di qualunque esperienza),
né l’istante puntuale e altrettanto impensabile
della sua fine. Ma non è nemmeno un semplice segmento
prelevato sul tempo cronologico e che andrebbe dalla
risurrezione alla fine del tempo. È un tempo che pulsa
all’interno del tempo cronologico, che lo lavora e lo sforma dall’interno. È, da una parte, il tempo che il tempo impiega per finire, dall’altra il tempo che ci resta, il tempo di cui abbiamo bisogno per fare finire il tempo,
per giungere alla meta, per liberarci della nostra rappresentazione
ordinaria del tempo.
Mentre quest’ultima, in quanto tempo entro il quale crediamo di essere, ci separa da ciò che siamo e ci trasforma in spettatori impotenti di noi stessi, al contrario
il tempo del Messia, in quanto tempo operativo (kairos)
nel quale cogliamo per la prima volta il tempo (il chronos),
è il tempo che noi stessi siamo. È chiaro che questo
tempo non è un altro tempo, che avrebbe il suo luogo in
un altrove improbabile e venturo. È, al contrario, il solo
tempo reale, il solo tempo che abbiamo, e fare esperienza
di questo tempo implica una trasformazione integrale
di noi stessi e del nostro modo di vivere.
È ciò che Paolo dice in un passaggio straordinario,
che è forse la più bella definizione che egli abbia dato
della vita messianica: «Vi dico, fratelli: il tempo si è fatto
breve (ho kairos synestalmenos esti: il verbo systello indica
sia il fatto di calare le vele sia il modo in cui un animale
si abbassa caricandosi per spiccare un salto); d’ora
innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non
l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero;
quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che
comprano, come se non possedessero; quelli che usano i
beni del mondo, come se non li usassero pienamente» (1Cor 7,29-31).
Qualche riga prima, Paolo aveva detto, a proposito
della vocazione messianica: «Ciascuno rimanga nella
condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato
chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi
diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!
» (1Cor 7,20-21). Hos me, «come se non» ci dice ora
che il senso ultimo della vocazione messianica è di essere
la revoca di ogni vocazione. Proprio come il tempo
messianico trasforma dall’interno il tempo cronologico,
così la vocazione messianica, grazie a l’hos me, al «come
se non», è la revoca di ogni vocazione, che cambia e
vuota dall’interno ogni esperienza e ogni condizione fattuale
per aprirle a un nuovo uso.
È un punto importante, poiché ci permette di pensare correttamente questa relazione fra le cose ultime e le cose penultime che definisce la condizione messianica.
Può un cristiano vivere soltanto di cose ultime? Un grande
teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, ha denunciato
la falsa alternativa fra radicalismo e compromesso, che parte per entrambi i casi dal separare nettamente le realtà ultime e le realtà penultime, quelle cioè che definiscono la nostra condizione sociale e umana di tutti i
giorni. Ora, come il tempo messianico non è un altro
tempo, ma una trasformazione del tempo cronologico, così vivere le cose ultime è prima di tutto vivere in modo altro le cose penultime.
La vera escatologia forse non è altro che la trasformazione
dell’esperienza delle cose penultime. Poiché le
realtà ultime hanno prima luogo dentro le penultime,
queste – contro ogni radicalismo – non si possono semplicemente
rifiutare; ma – per la stessa ragione, e contro
ogni possibilità di compromesso – le cose penultime non katargein
– che non vuol dire «distruggere», ma rendere
inoperante, letteralmente «dis-operare» – che Paolo
esprime la relazione fra ciò che è ultimo e ciò che non lo
è. La realtà ultima disattiva, sospende e trasforma la
realtà penultima, ma è tuttavia al suo interno che essa
entra in gioco interamente.
Ciò permette di comprendere la situazione propria
del Regno in Paolo. Al contrario della corrente rappresentazione
escatologica, va ricordato che per lui il tempo
del Messia non può essere un tempo futuro. L’espressione
con la quale indica questo tempo è sempre «ho nyn
kairos», il tempo dell’adesso. Come scrive in 2Cor 6,2:
«[Idou nyn] Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il
giorno della salvezza!». Paroikia e parousia, soggiorno da
straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura
che è espressa in greco con la preposizione para: quella
di una presenza che distende il tempo, di un già che è anche
un non ancora, di un ritardo che non è un rimando
a più tardi, ma uno scarto e una disgiunzione all’interno
del presente, che ci permette di cogliere il tempo.
Si vede bene dunque che l’esperienza di questo tempo
non è qualcosa che la Chiesa possa scegliere di fare o
di non fare. Non vi è Chiesa, se non in questo tempo e
per mezzo di questo tempo.

La Chiesa e i segni dei tempi

Che ne è di questa esperienza del tempo del Messia,
nella Chiesa di oggi? Infatti il riferimento alle cose ultime
sembra a tal punto sparito dal discorso della Chiesa,
che si è potuto dire non senza ironia che la Chiesa di Roma
ha chiuso l’Ufficio escatologico. Ed è con un’ironia
senza dubbio ancora più amara che un teologo francese
ha potuto scrivere «si attendeva il Regno ed è arrivata la
Chiesa». È un’immagine potente, sulla quale dovremmo
riflettere.
Considerando quanto detto sopra sulla struttura del
tempo messianico, è chiaro che non si tratta di rimproverare
alla Chiesa il compromesso in nome del radicalismo.
Non si tratta nemmeno, come ha fatto il più grande teologo
ortodosso del XIX secolo, Fëdor Dostoevskyi, di presentare
la Chiesa di Roma sotto la figura del Grande inquisitore.
Si tratta di un’altra cosa, ossia della capacità
della Chiesa di cogliere ciò che Matteo 16,3 chiama i segni
dei tempi, ta semeia ton kairon.
Quali sono questi segni, che il Vangelo oppone al vano
desiderio di interpretare l’aspetto del cielo? Se la storia
è penultima in riferimento al Regno, questo – si è visto
– ha il suo luogo prima di tutto e sopra tutto nella
storia. Vivere nel tempo del Messia esige dunque la capacità
di leggere i segni della sua presenza nella storia,
di riconoscere nel suo corso il sigillo dell’economia della
salvezza. Agli occhi dei padri – ma anche per i filosofi
che hanno riflettuto sulla filosofia della storia, che è e resta
(anche in Marx) una disciplina essenzialmente cristiana
– la storia si presentava come un campo di tensioni,
percorso da due correnti opposte: la prima – che Paolo,
in un celebre ed enigmatico passaggio della Seconda
lettera ai Tessalonicesi, chiama to catechon – che ritiene
e differisce senza sosta la fine del mondo lungo la linea del tempo cronologico, infinito e omogeneo; l’altra che,
mettendo in tensione l’origine e la fine, non cessa di interrompere
e portare a termine il tempo. Chiamiamo
legge o stato la prima polarità, votata all’economia, ossia
al governo infinito del mondo; e chiamiamo Messia
o Chiesa la seconda, la cui economia – l’economia della
salvezza – è essenzialmente finita.
Una comunità umana non può sopravvivere se queste
due polarità non sono compresenti, se non esiste fra di esse
una tensione e una relazione dialettica.
Ora, è esattamente questa tensione che oggi è spezzata.
A mano a mano che la percezione dell’economia della
salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si
vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio
su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo,
l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna
sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi
profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in
tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e
d’emergenza permanente che i governi del mondo proclamano
oggi è proprio la parodia secolarizzata del perpetuo
aggiornamento del giudizio ultimo nella storia della
Chiesa.
All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento
della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia inaudita
del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che
tradisce con un eccesso di legalità la perdita di ogni vera
legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi
sulla terra non vi è più alcun potere legittimo, e i potenti
del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità. La giuridicizzazione
e l’economicizzazione integrale dei rapporti
umani, la confusione fra ciò che possiamo credere, sperare,
amare e ciò che siamo tenuti a fare o a non fare, dire
o non dire segna non soltanto la crisi del diritto e degli
stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché
la Chiesa non può vivere se non tenendosi, in quanto istituzione,
in relazione immediata con la fine della Chiesa.
E – non bisogna dimenticarlo – nella teologia cristiana vi
è una sola istituzione che non conoscerà la fine e il dissolvimento:
ed è l’inferno. Qui si vede bene – mi sembra –
che il modello della politica di oggi – che aspira a un’economia
infinita del mondo – è propriamente infernale. E
se la Chiesa spezza la sua relazione originale con la paroikia,
essa non può che perdersi nel tempo.
Ecco perché la domanda che pongo, senza di certo
avere alcuna autorità per farla se non quella di un’abitudine
ostinata a leggere i segni dei tempi, si riassume in
questa: si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione
storica e a riprendere la sua vocazione messianica? Poiché
il rischio è che essa stessa sia trascinata nella rovina che
minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.

Giorgio Agamben*

* Il contributo del filosofo Giorgio Agamben, docente di Filosofia
teoretica all’Istituto universitario di architettura di Venezia, qui proposto
in una nostra traduzione dal francese, è stato pronunciato presso
la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009.

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