Tuesday, January 26, 2010

Marc Chagall




In 1938 the Jewish artist Marc Chagall would complete a remarkable painting titled White Crucifixion. Here the artist depicts a crucified Christ, skirted with a tallith and encircled by a kaleidoscopic whirl of images, that narrates the progress of a Jewish pogrom. The skewed, tau-shaped cross extends toward the arc of destruction and bears particular meaning in that context. Whatever the cross of Christ may mean, in 1938 it was circumscribed by the realities of Holocaust: the onrush of a weapons-bearing mob overruns houses and sets them aflame; a group of villagers seeks to flee the destruction in a crowded boat, while others crouch on the outskirts of the village; an old man wipes the tears from his eyes as he vanishes from the picture, soon to be followed by a bewildered peasant and a third man who clutches a Torah to himself as he witnesses over his shoulder a synagogue fully ablaze.

Chagall’s juxtaposition of crucifixion and the immediacy of Jewish suffering creates an intense interplay of religious expectation and historical reality that challenges our facile assumptions. He does not intend to Christianize the painting, certainly not in the sense of affirming any atoning resolution of the Jewish plight. Rather, in the chaotic world of White Crucifixion all are unredeemed, caught in a vortex of destruction binding crucified victim and modern martyr. As the prayer shawl wraps the loins of the crucified figure, Chagall makes clear that the Christ and the Jewish sufferer are one.
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Sono passati più di vent’anni dalla scomparsa di Marc Chagall, eppure la sua arte è sempre attuale, come il suo modo di dipingere, immagine utopica di un mondo che non c’è e forse non ci sarà mai, dove il sogno e la realtà si mescolano in un flusso continuo, non più separato dalla «iconostasi» dell’immagine che custodisce il mistero, come avrebbe detto Pavel Florenskij.
Non per nulla, ebreo russo, Chagall assorbì molto della cultura religiosa e figurativa dell’ortodossia cristiana, con particolare riguardo al linguaggio dell’icona, una tavoletta che, come sanno bene gli specialisti (o i fedeli) non è mera immagine del Santo o del Cristo, ma vero e proprio strumento di meditazione attraverso il quale, dalla figura rappresenta si può risalire al prototipo per lasciarselo visualizzare nell’anima. L’icona è una finestra, una finestra sul mistero dell’uomo e del mondo, una scala per la preghiera, un bastone per il cammino di fede.

La pittura di Chagall, d’altra parte, sia pure in sedicesimi, segue lo stesso percorso, nel senso che vuole testimoniare come dietro l’apparenza delle cose ci sia molto di più, ovvero la magia del mistero che filtra nella materia degli oggetti, delle persone e degli animali che l’artista rappresenta. Anche la tela dipinta da Chagall, allora, è una finestra, una finestra spalancata sull’immaginario, sul paesaggio interiore di tutti gli uomini nel quale non stupisce vedere una mucca volare o un omino librarsi nel cielo, dove compaiono angeli come nuvole e il sole trasuda gocciole d’oro. Non è un caso, allora, che il Museo Nazionale di Nizza abbia aperto da poco una mostra (26 giugno - 13 ottobre) dedicata a Chagall come «un peintre à la fenêtre», secondo quanto recita l’azzeccatissimo titolo.
Naturalmente, la finestra non tarda a divenire la metafora di tutta la pittura, almeno dal rinascimento in poi, quando gli uomini hanno preso a traguardare il mondo e ad utilizzare la pittura come vero e proprio strumento di conoscenza, prima prospettica e poi visiva. Naturalmente Chagall sa fare anche questo e allora diviene soggetto privilegiato, tale da occupare tutta la tela, come accade in Vue de la fenetre a Zaolchie del 1915, che è anche la copertina del catalogo. Qui, Chagall e Bella, sua moglie, sul lato destro e una natura morta in basso fanno da cornice a una gigantesca finestra che illustra il bosco. Di loro si vedono soltanto le teste, quasi a non voler disturbare la quiete e la bellezza della natura che sono i veri protagonisti del quadro, insieme alla finestra, naturalmente, che appare, però chiusa e permette l’accesso al mondo solo grazie alla trasparenza dei vetri. Potrà infatti l’uomo capire fino in fondo il segreto delle cose o sarà condannato ad essere distante osservatore, incapace di tuffarsi nella maestosità del Tutto?
L’intero percorso pittorico di Chagall è segnato dall’idea di «entusiasmo» nel senso letterale del termine, ovvero dal desiderio e dalla capacità pittorica di esprimere l’en Theò ìstemi, ovvero lo «stare dentro Dio». Una condizione che l’artista esprime grazie al suo singolare linguaggio poetico, fatto di forme ritagliate e fluttuanti, di associazioni cromatiche improbabili, di reinterpretazioni continue del dato reale in senso onirico. Tutti i movimenti delle avanguardie storiche dei primi decenni del ’900, dall’Espressionismo, al Cubismo, al Blaue Reiter, contribuiscono a creare il tessuto linguistico della poetica di Chagall, ma egli li utilizza sapientemente e li piega alla propria volontà espressiva: l’artista sperimenta, utilizza, ma il motivo dominante, straripante, sarà sempre e solo la sua personalissima poetica. Anche la pittura di Chagall diviene una finestra, aperta a tutti gli influssi esterni che però si mescolano in un nuovo ed irripetibile modo di essere. Si va dal passaggio intimista nei ritratti familiari di quegli anni alle composizioni più articolate, sempre orientate a Bella e Ida, e quando Chagall ritorna in Russia sviluppa una visione differente della finestra che diventa il 'tramite' con la natura e l’umano. In Francia dal 1923 la sperimentazione continua e la fenetre pittorica di Chagall scopre il paesaggio francese, anche qui diretta o virtuale, con l’immagine ripresa dall’alto, e sarà allora la forma ad affiancare il colore e a volte a prevalerlo.


da Avvenire

http://fuoridalghetto.blogosfere.it/2008/08/chagall-in-mostra-a-nizza.html

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